Capitolo 26 - L'avamposto sotterraneo
Terminato il fischio, Petrangola si stappò le orecchie e si guardò alle spalle, nessuna luce familiare la stava seguendo, solo oscurità e silenzio.
Strinse la pistola tra le mani sudate ed andò avanti, seguendo i cavi elettrici stesi sulla roccia umida della caverna, cercando di non lasciarsi sopraffare da tenebra e paura.
Era stata una scelta saggia allontanarsi dallo zio e da Kiloro? Rimpiangeva il fatto di aver obbedito così in fretta ma era troppo confusa, disorientata, non sapeva come comportarsi.
Sentiva il battito del cuore pulsarle nella testa, veloce, ritmato, quasi frustrante.
"Devo stare calma" pensava, "devo essere forte".
E forte lo era, immersa in quella terribile oscurità aliena, tra i rottami dei vecchi fari rotti e arrugginiti, rimasugli umani tremendamente antichi e sinistri.
Aveva appena ucciso una creatura, il primo abominio della sua vita, ma la paura non se ne era andata affatto, si era solo attenuata. Uccidere quel nativo non l'aveva fatta sentire più coraggiosa, anche se, a pensarci bene, ora si sentiva decisamente più forte.
Aveva agito per disperazione, per pura disperazione, ma se l'era cavata, magari grazie a un pizzico di fortuna ma ce l'aveva fatta. Aveva sparato e aveva ucciso. Si era difesa come una vera archeologa, come aveva visto fare a suo Zio e a Kiloro.
Lo Zio e Kiloro. Chissà se li avrebbe rivisti.
Arrivò ad uno spiazzo piuttosto largo dominato da tende e macchinari complessi, tutti marchiati con lo scolorito logo rotto de La Piramide. Illuminò attentamente i dintorni, accarezzando il cane della pistola, nervosa.
Erano apparecchiature molto vecchie, ma umane.
Qui i funghi crescevano più prosperosi, generando una leggera foschia di spore alimentata dal familiare rantolo dei respiranti.
Ora quei cadaveri redivivi non la terrorizzavano più come un tempo, ora le sembravano quasi qualcosa di sicuro, di familiare, il ritorno a una anormalità meno letale di quel mondo di luce ostile.
Fece alcuni passi tra le tende del piccolo accampamento, i corpi dei respiranti erano ammassati per lo più sui lettini di quello che doveva essere una specie di ospedale da campo, probabilmente qualcosa di allestito per cercare di contenere le prime infezioni. I respiranti dovevano essere antichi scienziati La Piramide, probabilmente arrivati lì per compiere studi più approfonditi sul pianeta. La sorprese trovare quelle strutture, anche se un po' avrebbe dovuto aspettarselo.
Al centro dell'antro, circondata da decine di macchinari e alimentata da lunghi cavi, giaceva un grosso anello di metallo, simile in tutto e per tutto a quello che circondava la sfera del buio in cui aveva visto i grossi granchi, ma disattivato. Del resto non c'era energia in quei cavi che aveva seguito fino a lì così come non c'era energia da nessun'altra parte nel piccolo accampamento sotterraneo.
"L'uscita" pensò Petrangola, passando sotto l'immenso macchinario.
Era molto più grande di quanto avesse potuto immaginare guardando quello della sfera del buio. Doveva essere alto almeno tre metri e largo cinque. Petrangola lo trovò impressionante.
Di fronte all'anello trovò un cadavere, un altro vero cadavere. Si trattava di nuovo di un uomo di Conclave, mummificato nella sua armatura dorata e ancora coperto dalla maschera.
Petrangola si chinò su di lui, cercando di capire se era l'eroe di cui le aveva parlato Trisac, ma concluse che non poteva essere così. La sua armatura, seppure splendente e dorata, non era l'armatura integrale che le aveva dettolo Zio. Il guerriero disponeva solo di una pettorina e dei gambali dorati insieme a una maschera raffigurante un sole meccanico. Stringeva una spada tra le mani, poggiandovisi sopra come se fosse morto nel tentativo di alzarsi nonostante una grave ferita. Petrangola fu tentata di prendere la spada, ma era troppo logora per farne qualcosa e poi lei cosa se ne sarebbe fatta? A fatica era in grado di sparare, figurarsi menare fendenti con una cosa del genere.
Si spostò verso i macchinari.
"Probabilmente devo iniziare da qui", pensò, cercando di capire quali dei grandi cubi potesse corrispondere a un pannello elettrico.
Ne aprì un paio, cercando di capire cosa fossero, ma si trovò solo davanti a schede elettroniche di una forma e di una fattura che non aveva mai visto prima.
- Questo è un lavoro per Kiloro, non per me – commentò, chiudendo anche il terzo macchinario senza risolvere assolutamente nulla.
Si sentì improvvisamente sfinita, soverchiata dalla situazione. Volle piangere ma stava tanto male che non si rese conto che già piangeva da un pezzo. Poggiò la schiena contro uno dei macchinari e si lasciò cadere a terra in quel punto, seduta.
Decise che oramai era tutto inutile, che sarebbe morta lì esattamente come il cavaliere ai piedi dell'anello, perduta e dimenticata su un pianeta alieno fatto di luce tossica e nativi brutali.
Si rannicchiò tra le ginocchia ignorando i morsi della fame, ignorando la sete che si faceva sempre più opprimente. Si rannicchiò e pianse. Avrebbe voluto vivere ancora qualche anno, qualche avventura, magari proprio con suo Zio.
Perché era finita così? Perché la sua prima missione doveva finire così?
- Bambina? - sussurrò una voce femminile accompagnata da un rantolo.
Petrangola alzò la testa. Aveva sognato oppure...?
- Bambina? - ripeté la voce.
Petrangola si alzò in piedi, Kiloro era all'apertura della stanza, reggeva lo Zio per la spalla e portava entrambi gli zaini addosso, uno sulla schiena e uno davanti. Doveva essersi ammazzata di fatica per arrivare lì anche se non lo dimostrava.
- Sono qui! - disse Petrangola, balzando fuori dal labirinto di macchinari in cui stava piangendo.
- Pensavo che ti avessero presa – disse Kiloro. - Vieni a darmi una mano, mettiamo tuo Zio da qualche parte.
- Temevo che non mi avreste mai raggiunto.
Trisac bofonchiò qualcosa.
- Non potevamo lasciarti sola – tradusse Kiloro.
Lo zio era in pessime condizioni, ma almeno non sanguinava più, segno che le nanomacchine forse gli avrebbero salvato la vita.
Lo fecero sdraiare al centro della sala, in un punto abbastanza sgombro dai funghi da permettergli di rimettersi in pace. Kiloro gli pulì il volto e gli inserì una flebo nel braccio, lo stesso fece con Petrangola e per se stessa
- Come sta lo zio? - sussurrò Petrangola.
Sono riuscito a farlo stabilizzare, se la caverà, non è la prima volta che ci capita – la incoraggiò Kiloro.
- È stata una cazzata mandarmi avanti...
- Lo so, ma dovevamo provare – la interruppe Kiloro, - comunque ora ci sono qui io, rimetteremo in posto tutto in un attimo.
- Io ho provato a fare qualcosa, ma non ci ho capito niente.
- Non puoi fartene una colpa, sono io l'ingegnere, non tu.
- Sei stata tu a fare quel rumore, prima?
- No, veniva da un'altra parte della caverna, più in alto, forse è stato Ostuni. Di sicuro è stato quello a farli scappare verso la superficie.
- Pensi che sia ancora vivo?
- Ora come ora non ne sarei sorpresa.
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