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Ventitré

"Ci sono ferite che non guariscono, quelle ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare."

-Oriana Fallaci.

I giorni seguenti non sono andati non speravo. Si dice che per dimenticare qualcuno solitamente ci vuole del tempo, ma più ne passa più sento che non riesco ad andare avanti senza la presenza di Nathan nella mia vita. Nel frattempo, aprile ha fatto il suo arrivo, portando con sé un caldo allucinante. Con l'avvicinarsi della stagione estiva, le notti sembrano allungarsi decisamente troppo ed è quasi impossibile riuscire a dormire come si deve. In questo momento, sono le otto del mattino, e nonostante manchi mezz'ora alle lezioni, non ho proprio voglia di uscire di casa. Fisso il Laptop con aria assorta, scorrendo nel foglio bianco di word, facendo una smorfia. Dovrei scrivere un tema sul pc, ma non ho proprio ispirazione su come iniziare. Lo chiudo, sbuffando e acchiappando il telefono che sta squillando ininterrottamente. Ho cinque messaggi. Tre di Addison, uno di Mad e uno di Denis.

"Andiamo a scuola insieme?"

"Che fine hai fatto?"

"Svegliatiiii"

Ridacchio e apro la tastiera per rispondere, grattandomi il capo."Sono sveglia, due minuti e scendo, non mi stressare."

Vado nella chat di Denis, aggrottando la fronte.

"Buongiorno, stanotte ti ho sognata, è stato terribile. Eri morta. Sicuro di star bene, vero? Ci vediamo a scuola, se hai bisogno parliamo."

Faccio una smorfia e non rispondo, passando a quello di Maddison. Mordicchio il labbro, confusa. "Affacciati."

Mi alzo strisciando i piedi e affaccio il capo dalla finestra, vedendo Addison di fronte a me.

«Ah, salve! Dormito bene?» ridacchia, mentre mangia i pancake con nonchalance. Ha il piatto appoggiato sul davanzale e l'espressione allegra.

Aggrotto la fronte, guardandomi intorno. «Cosa...?» borbotto confusa.

«Ehi tu! Non saluti la tua vicina?» chiede Maddison contenta. Volto il capo verso sinistra, nella finestra accanto quella di Addison, per poi sorridere enormemente.

«Ti sei trasferita qui?» chiedo felice, mentre lei annuisce.

«Sì, tutto molto bello, ma andiamo a scuola adesso? Siamo in ritardo.» borbotta Addison ruotando gli occhi. Annuisco, rientrando in camera per prendere la borsa. Mi fermo un attimo, facendo una smorfia strana. Jared, qualche giorno fa, mi ha detto che Nathan aveva litigato con la madre e che era andato via di casa. Sicuramente non abita qui con loro, e un po' mi dispiace. Avrei voluto tanto stargli vicino, mi sento una pezza. Sento il telefono squillare e lo acchiappo, vedendo un messaggio.

"Buongiorno, anche stanotte ti ho pensata e non ho chiuso occhio. Mi manchi. Ti va di parlarne?" Nathan. Sospiro profondamente e chiudo gli occhi, mordendo il labbro. Non servono le parole, Nathan. Mi dispiace se non sono stata abbastanza forte per entrambi.

Esco da WhatsApp e lego i capelli in una coda, facendo un profondo respiro. Ti amo, Nathan, ma forse per te non è abbastanza.

La scuola. Quel posto dove sai di trovare gli amici di sempre, seduti sempre allo stesso tavolo che parlano delle loro cose. Se non fosse per quei volti che vedo ogni mattino, direi che la mia vita sarebbe abbastanza vuota. Nessuno di loro ha parlato di quello che è successo con Nathan, e un po' lo apprezzo. È come se lui non fosse entrato nella mia vita e a volte vorrei proprio vederla in questo modo anche io. Non è facile dimenticare, io non riesco. Per quanto ci provi, per quanto mi convinca che doveva andare così, mi sento costretta ogni giorno a portare una maschera. Sorridere davanti agli altri e piangere nel proprio letto di notte, mentre nessuno mi vede. È diventata una routine, non credo di essere capace a fare altro. Mi manca, non credete che non sia così. Mi manca da morire ma non riesco a guardarlo negli occhi, dopo che mi ha tradito in un modo così imperdonabile. Magari un giorno mi passerà e quel giorno sarà troppo tardi, perché queste storie vanno così, finiscono e basta. Osservo accigliata Ryan, che sta mangiando le sue patatine e nel frattempo racconta di quello che gli è successo stamattina. Denis è al mio fianco, che mi tiene la mano e annuisce debolmente, ridacchiando ogni tanto. Vorrei che questa mensa fosse eterna. Seguire le lezioni quando non hai la testa per farlo, e un po' come sbattere la testa contro un muro e sperare di non sentire dolore. Mi guardo intorno, aggiustando i capelli e sorridendo a Max che mi fissa da più da mezz'ora.

«Stai bene?» mi chiede. Di colpo nel nostro tavolo cala un silenzio tombale e i presenti cominciano a lanciarsi occhiate furtive.

Annuisco meccanicamente, lasciando la mano di Denis e facendo spallucce. «Io... credo di sì.» rispondo incerta, fissando il piatto con il mio cibo, ancora intatto.

Il ragazzo storce il naso, sospirando. «Non hai ancora mangiato, il tuo piatto non è nemmeno stato toccato.» borbotta serio.

Faccio spallucce, allontanandolo verso di lui. «Finiscilo tu, Max. Non ho molta fame.» replico, facendo un mezzo sorriso.

Maddison abbassa lo sguardo, per poi prendermi la mano e accarezzarmela con dolcezza. «Amore siamo tuoi amici, se stai male, se ti manca Nathan, a noi puoi dirlo...» sospira, guardandomi tristemente.

Vedo Ryan e Denis trasalire, mentre Addison si passa una mano sul viso. Nessuno ha aperto l'argomento "Nathan" in questi giorni, perfino Ethan e Isaac hanno cercato in tutti i modi di evitarlo. Mi stava bene questo loro metodo, perché adesso ne sta parlando? Mi irrigidisco, spostando la mano e chiudendo gli occhi. «Non mi manca Nathan. Non parlatemi di lui. Basta.» dico seria.

Addison mi rivolge uno sguardo, sospirando. «Tesoro ma se non parli non...» si interrompe a causa del mio sguardo gelido.

«Che cosa, Addison? Se non ne parlo non mi passerà mai? E questo che vuoi dire? Cosa volete che vi dica? Volete sentirvi dire che sto male, che sento un macigno nel petto che non mi permette di respirare? Beh, è così! E non è vero che parlandone, le cose potranno migliorare. Non è assolutamente così. Non miglioreranno perché la mancanza rimarrà sempre, e brucerà ancora più forte. Quindi, ve lo chiedo per favore, dimenticate Nathan, dimenticate tutto. Io non ci riesco, ma voi fatelo anche per me.» rispondo nervosa, notando che metà della mensa si è voltata nella mia direzione. Forse ho alzato un po' troppo il tono di voce. Il ragazzo non parla, mi fissa incredulo con la forchetta a mezz'aria, mentre Maddison al suo fianco sembra impallidita di colpo. Mi alzo, strisciando la sedia che emette un rumore stridulo e assordante, simile ad un graffio che fa rizzare la pelle. Stringo le labbra, fissando i presenti con sguardo vuoto e privo di emozioni. «Io me ne vado.» dico seria, andando fuori dalla mensa. Cammino a passo spedito verso non so dove, ho solo voglia di passeggiare, sbollire la rabbia che piano piano si sta insidiando dentro di me, facendomi diventare quello che non avrei mai voluto essere, quello che ho sempre odiato. Gli studenti che occupano il corridoio centrale mi guardano sbigottiti, alcuni sembrano bisbigliare qualcosa al compagno vicino, altri mi puntano il dito contro come se fossi uno schifoso verme. Forse lo sono davvero, senza di lui. Uno strisciante e insignificante invertebrato in cerca di terra dove potersi nascondere. Sono una codarda. Parlavo tanto di paura, di avere il coraggio di andare avanti, di vivere appieno le emozioni, e poi mi sono lasciata trasportare dal terrore di perdere me stessa. Ho fallito. Mi dispiace Nathan. Non volevo arrivare a questo punto, a chiedere scusa anche a me stessa per aver mollato.

«Dov'è finita la mia migliore amica, Sophie? Dov'è finita quella ragazza con il sorriso sempre sulle labbra e la voglia di combattere fino alla fine?» la voce di Denis che echeggia per i corridoi, mi fa bloccare. Chiudo gli occhi, prendendo un profondo respiro e voltandomi molto lentamente, per poi aprirli e fissarlo senza alcuna emozione.

«Non lo so.» rispondo seria, non curandomi dei presenti che di colpo hanno rizzato le orecchie.

Lui si avvicina, guardandomi dispiaciuto e prendendomi le mani. Mi accarezza il viso e fissa i suoi occhi scuri sui miei, scuotendo la testa. «Hai bisogno di parlare?» sussurra.

Annuisco meccanicamente, sospirando. «Ho fallito, Denis. Ho fallito miseramente.» rispondo con gli occhi lucidi, mentre il ragazzo si guarda intorno.

«Andiamo.» dice prendendomi per mano e portandomi fuori dalla scuola. Si siede sull'erba, osservandomi senza battere ciglio.

Sospiro, chiudendo gli occhi. «Non riesco più a negarlo. Mi manca. Lo vedo ovunque, a volte mi sembra di sentire il suo profumo per strada o di vederlo con il viso schiacciato nel vetro della mia finestra. Non ci riesco, non posso sopportarlo. Sto diventando pazza.» dico mettendomi le mani tra i capelli.

Lui sorride, scuotendo la testa. «O forse sei solo innamorata. Perché non parli con lui, Soph? Perché non provate a risolvere, a tornare come prima? La distanza a volte può servire per far riflettere, ma non ha senso continuare così se non sei capace.» dice dolcemente, facendo un profondo respiro.

Mordicchio il labbro, sentendo gli occhi bruciare in modo anomalo. «Non è facile, Denis! Pensi che io non ci abbia provato? Non ce la faccio a guardarlo negli occhi e sapere che lui mi ha mentito, mi ha preso in giro. Come faccio a stare con una persona di cui non mi fido?» borbotto disperata, cercando di non urlare di nuovo.

Lui mi guarda, senza muovere un muscolo, poi sospira leggermente. «Da cosa scappi, esattamente? Da lui o da te stessa con lui? Hai paura di perderti, Sophie?» domanda serio.

Indietreggio, guardandolo male. «Tu non sai niente, Denis. Tu non puoi sapere. Io torno a casa, dì al professore che sono stata male.» replico seria e furiosa allo stesso tempo.

Annuisce. «Sei libera di fare ciò che vuoi, ma stai scappando ancora una volta. Tienilo a mente.» dice senza emozione. Che sfacciato, pretende di poter sapere cosa sto provando, e lo dice senza alcun problema, come fosse niente! Volto le spalle e me ne vado, stringendo i pugni. È il mio dolore, lasciatemelo vivere come meglio credo.

«E questo che ti ha insegnato Nathan, Sophie? Sono tutte queste le stronzate riguardo al vivere e all'affrontare le difficoltà?» urla Denis, nonostante io stessi camminando.

Mi fermo di scatto, voltandomi e guardandolo furiosa. «Sai cosa mi ha insegnato Nathan, Denis? Che la gente porta ogni giorno una maschera!» urlo, facendo fermare qualche studente.

Lui scuote la testa, ridendo. «No, Sophie. Nathan ti ha insegnato ad amare. Solo che tu hai troppa paura per ammetterlo. E stai scappando, Sophie. Quello che lui ha fatto è solo una scusa per giustificare la tua stupida paura! Ecco cos'è.» si alza, cercando di venirmi incontro.

Lo blocco con la mano, così si ferma a metà strada. Scuoto la testa e asciugo una lacrima, ridendo nervosamente. «Io non ho paura, Denis. Tu e tutte quelle persone che credono di sapere cosa ho dentro di me, vi sentite superiori solo perché avete avuto più esperienze. Ma sai cosa ti dico, Denis? Era meglio essere ingenua, era meglio lasciare che nessuno entrasse nella mia vita perché guarda come sono ridotta!» esclamo.

Lui annuisce. «È questo che credi, Sophie? Bene. Pensa pure che noi ti vediamo come una stupida. Ma pensa bene a quello che stai facendo. Stai ferendo chi ti sta intorno, soprattutto lui.» dice calmo.

Lo trafiggo con lo sguardo, annuendo. «Lui ci pensa a quello che mi ha fatto? A come mi hai ridotta?» chiedo fredda.

Il ragazzo sospira. «Sempre, Sophie. Ci pensa sempre. E si distrugge» ammette.

«Tu che ne sai? Adesso siete diventati amici per la pelle?» dico acida, ridendo ironica.

Il ragazzo alza un sopracciglio, per poi tornare serio. «Ci sono molte cose che non sai, Sophie. Avresti solo dovuto dare a Nathan la possibilità di spiegarsi. Solo questo. Lui non è cattivo. Ha avuto i suoi buoni motivi per fare ciò che ha fatto, ma tu ti ostini a vederlo come un mostro solo perché hai paura che i suoi sbagli possano rovinare il quadro di adolescente perfetta che ti sei creata. Ma non è così che si vive, Soph. Cercare di apparire perfetti è peggio della maschera che ha portato Nathan per tutto questo tempo.» dice andandosene e lasciandomi nel bel mezzo del giardino della scuola.

Volto le spalle, infuriata, mentre sento il telefono squillare.

"Sophie, per favore. Dammi la possibilità di potermi spiegare."

Scoppio a ridere, scuotendo la testa. "Vai al diavolo, Nathan. Non mi interessa sentire le tue stronzate, né tantomeno quelle dei tuoi difensori."

"Difensori? Di cosa parli? Cristo, sto impazzendo." Scrive di colpo.

Mordo il labbro, sospirando. "Lasciami in pace."

"Sei tu la mia pace, Muffin."

Una lacrima mi corre lungo la guancia, l'asciugo velocemente e scuoto la testa. "Credimi, vorrei dirti la stessa cosa. Ma non lo sei, Nathan. Non più." Rispondo, per poi mettere il telefono dentro la tasca e dirigermi verso casa. Ho l'anima in pezzi. Mi sento un piccolo moscerino che impazzisce in cerca della sua luce. E la cosa che mi fa più male è che la mia la sto perdendo e ne sono consapevole. So di volerla perdere, nonostante faccia terribilmente male. Da oggi la mia unica speranza sarà l'oscurità, perché senza Nathan non può esistere quel bagliore che mi faceva sorridere il cuore.

La notte. Quel momento della giornata in cui sai che è ora di togliere tutte le maschere, perché tanto nessuno può vederti.

La notte è il momento preferito per gli innamorati, per quelli soli e per chi ha bisogno di riflettere sugli sbagli compiuti durante l'ultimo periodo. Per gli scrittori è vista come fonte di ispirazione, perché nell'oscurità della loro stanza, i pensieri si affollano, al punto di creare qualcosa che hanno bisogno che venga letta, capita, urlata. Le emozioni che teniamo dentro sono quelle che bruciano di più, sai che ti rimarranno impresse nonostante tutto, non puoi sfuggire a ciò che senti, è inevitabile. È come un mostro che ti segue dovunque, come un peso che non riesci a scollarti. Ti formano, ti renderanno ciò che sarai tra qualche anno.

Noi essere umani siamo un caos, siamo un groviglio impossibile da sciogliere. Non ci capiamo e ci ostiamo a voler capire chi ci sta intorno. Mi sono sempre chiesta perché siamo testardi, per quale assurdo motivo tendiamo sempre a voler comprendere le emozioni degli altri e non ci sforziamo a capire le nostre.

A volte credo che ho solo diciassette anni, che non è umanamente possibile che io debba essere la figlia, l'amica, la sorella e la fidanzata perfetta. Sono solo una piccola adolescente in cerca del suo posto del mondo. Posso fingere, forzare un sorriso, cercare di essere comprensiva, empatica, ma ho solo diciassette anni. Sono un piccolo e insignificante essere umano, non ho la forza di poter essere tutto quello che il mondo vuole che io sia. Alla mia età bisogna ridere, uscire fino a tardi con le amici, fare cazzate da bambini, urlare per strada e fare il bagno al mare a dicembre, nel bel mezzo della notte. Sono gli anni migliori, non bisogna sprecarli, non si può vivere a metà. Molto spesso, a causa delle avversità che si immischiano in certe vite, gli adolescenti sono costretti ad essere adulti. Ho perso mia madre a dieci anni, fin da piccola ho avuto la responsabilità di una casa, ho dovuto capire mio padre e mio fratello, senza aspettarmi di essere capita anche io. È dura la vita di chi cresce troppo in fretta, sai già che tutto quello che farai non lo potrai mai vivere appieno, perché una parte di te si sentirà oppressa da ciò che la vita le ha offerto o più precisamente tolto.

Mio padre non è sempre stato comprensivo. Quando lei ci ha lasciati non è diventato altro che un tutt'uno con il divano. Non mangiava, non reagiva, non esternava ciò che aveva dentro. E io, a soli dieci anni, non potevo ammettere che mi mancava mia madre perché sapevo di ferire lui. Gli ci volle un po' di tempo per riprendersi, il che è stato un bene. Ma io non l'ho mai fatto. Sono rimasta con quel peso delle cose non dette, che mi porto dietro per il resto della mia vita. Lui sta bene, ha reagito a modo suo al dolore, senza dare la possibilità ad una bambina di poter fare lo stesso. Non è vero che con il dolore di una perdita ci si può convivere. Andrai avanti, vivrai la tua vita giorno per giorno, ma quando meno te lo aspetti, lui tornerà per ricordarti che non è mai andato via. Certe mancanze non le dimenticherai, semplicemente perché sono nate ingiustamente, perché sapevi che c'era ancora molto tempo da passare con quella persona. In questo momento la vorrei qui, perché so che nessuno meglio di lei possa aiutarmi ad uscire dal mio caos. Essere adolescenti senza tua madre al tuo fianco è peggio di qualsiasi altra cosa al mondo. Lei non c'è a dirmi se sto sbagliando, se sto facendo giusto o se dovrei dare una svolta alla mia vita, lei non ci sarà mai. E la cosa mi crea una rabbia immensa, perché so che avrebbe voluto esserci, e il destino non gliel'ha concesso.

Mi diceva sempre che la morte non era nulla, perché dopo di essa c'era il vuoto assoluto, era una tappa obbligatoria del corso vitale di ognuno di noi. Forse era stato questo il motivo che l'ha spinta a compiere quel gesto estremo, a farle sentire il bisogno di accogliere la morte come una sua cara amica. Mi parlava spesso di quando un giorno ci avrebbe lasciati, anche se probabilmente nemmeno lei sapeva che l'avrebbe fatto così presto. Le piaceva immaginarsi onnipresente, come Dio. Diceva che qualsiasi cosa fosse accaduta, non ci avrebbe mai lasciati del tutto. A volte vorrei crederle, ma altre mi sento male a sapere che non la sento vicino. Mi capita di pensare che forse l'essere umano si attacca troppo all'idea di una vita oltre la morte, solo perché ha paura di ammettere che ci sarà un momento in cui la gente andrà via per sempre, senza la possibilità di starti accanto. La cosa mi fa incazzare. Una persona come mia madre non può spegnersi così, non deve. Mi sento in colpa perché alcune volte non la sento vicino, non mi viene in sogno. Non voglio accettare che mi abbia abbandonata, non è giusto. Io la meritavo mia madre, una bambina di dieci anni non poteva avere una punizione così dura. Non avevo fatto nulla, eppure mi è stata strappata via come fosse niente, come se fosse stato un castigo per qualche mio grande sbaglio. Ma a dieci anni non puoi commettere errori che hanno un prezzo così alto, a dieci anni devi solo avere tua madre per molto altro tempo, devi solo permetterti di fare la vita di una bambina della tua età. E io non l'ho fatta, la vita ha deciso di mettermi a dura prova senza curarsi di farmi del male, di segnarmi per il resto del mio cammino. È stata bastarda e io non lo meritavo. Volevo solo avere mia madre.

Mi alzo dal letto e raggiungo la libreria, scorrendo gli occhi con aria stanca tra la moltitudine di testi che colleziono giorno per giorno. Mi piace leggere. Posso permettermi di sentirmi qualcun altro, di provare emozioni nuove, di capire diversi punti di vista, vivere altre vite. Allungo la mano verso "Cercando Alaska", di John Green. Faccio un profondo respiro e lo prendo, dirigendomi verso il davanzale della finestra. Ho un legame particolare con questo libro, l'ho letto così tante volte da saperne le parole a memoria. Eppure, mi piace immergermi dentro quelle pagine, sperare che la fine di Alaska sia diversa, nonostante so che non è così. Lei non era mai stata capita. Miles credeva che fosse uscita dal suo labirinto, invece ci era rimasta intrappolata fino al punto di perdere sè stessa. Io credo che dal labirinto non puoi uscirne, perché in un modo o nell'altro ci tornerai sempre. Io la capivo Alaska, doveva solo capirsi lei. Non l'ha fatto e ciò ha avuto la sua conseguenza. Mi ha fatto incazzare tantissimo questo libro, soprattutto lei. C'era una soluzione Alaska, dovevi solo cercarla, avere la forza per combattere. Sei stata una codarda.

Mi siedo sul davanzale della finestra e apro il libro, accarezzando le pagine e sorridendo appena. Ciao ragazzi, è un piacere rivedervi. Leggo le prime righe, più e più volte, sbuffando. Non riesco a capire ciò che leggo, è uno schifo avere la testa invasa dai pensieri. Volto leggermente il capo verso la finestra di Maddison, sentendo un pugno invisibile che mi colpisce in pieno petto. Nathan è seduto sul cornicione della finestra, con l'espressione assorta, una sigaretta stretta tra le labbra, gli occhi leggermente chiusi per via del fumo, i capelli come al solito scombinati, dei pantaloni neri che gli fasciano perfettamente le gambe e il petto nudo. Sta guardando nella mia direzione, sta guardando me. Rimango a fissarlo senza battere ciglio, sentendo il respiro che si accelera in modo anomalo. Ti odio, Nathan. Detesto il fatto che tu mi faccia provare tutte queste cose messe insieme. Assumo un'espressione contrariata, che spero che lui non noti. È un folle, potrebbe rischiare di cadere da lì. Sposto lo sguardo sulle sue gambe penzolanti e sospiro, voltandomi di scatto e tornando al mio libro. La mia finestra è chiusa, sento di poter soffocare da un momento all'altro. Mi alzo nervosa e la apro, chiudendo gli occhi per la frescura primaverile che mi accarezza il corpo. Ritorno al mio posto e appoggio il libro sulle gambe, cercando di ignorare lo sguardo di Nathan che continua a scrutarmi senza problemi. Sospiro, provando a concentrarmi sulle parole, sentendomi nervosa. Chiudo di scatto il libro e appoggio la testa sul muro, facendo un profondo respiro. Stringo le labbra e muovo la gamba freneticamente, voltandomi di scatto verso di lui.

«Cosa diavolo ci fai qui?» dico nervosa.

Il ragazzo aggrotta la fronte, schiarendosi la voce. «Ci abito.» risponde serio.

Annuisco freneticamente, stringendo i pugni e guardandolo male. «Dio, ti odio da morire. Sei un tormento.» replico tremando dalla rabbia e scendendo dalla finestra, per poi chiuderla di scatto. Mi volto di nuovo verso di lui, che sta ancora guardando dentro la mia stanza con espressione confusa e triste allo stesso tempo. Raggiungo la luce e la spengo, per poi gettarmi sul letto con i pugni ancora serrati.

Prepariamoci ad un'altra notte insonne. 

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