Capitolo 7
Nessuna notte dura mai davvero per sempre, si ritrovò a pensare Rosalyn, dopo chissà quanti altri giorni come quello appena passato e altrettante notti rischiarate unicamente dalla luminescenza argentea del plenilunio, intaccata solo di tanto in tanto dall'oscurità pungente delle rade nubi che con i propri merletti di pizzo nero adornavano quasi per vezzo la volta del cielo.
Ma prima o poi una luce, per quanto flebile e remota, arriva sempre a irradiare il sentiero sotto i nostri passi.
Doveva solo resistere, si ripeteva di continuo, più e più volte, fino a perderci la testa. Stringere i denti, fracassarsi l'anima fino a perderci il cuore.
La realtà era che quanto sarebbe riuscita a resistere, con i morsi della fame che la divoravano da dentro e le continue intemperie a cui era incessantemente esposta e che le mortificavano le tenere membra, Rosalyn non avrebbe saputo dirlo.
La voce scarnificata dai continui gettiti di disperazione a cui era sottoposta, gli occhi distrutti continuamente dal pianto, almeno quanto l’anima devastata che portava nel petto, tutto la indusse a pensare che avrebbe anche potuto non farcela mai.
Non sarebbe più tornata a casa.
Rovesciò il capo all'indietro, esasperata, sollevando gli occhi velati dal pianto che sulla superficie delle proprie iridi catturavano il riverbero di luce delle stelle che iridavano il cielo.
Dopotutto la morte non poteva essere peggiore del destino toccatole in sorte.
Una stella graffiò il cielo nel lampo della propria caduta.
Un ultimo desiderio prima della fine, si disse, trascinando via con sé i rimpianti di una intera esistenza.
Quando socchiuse gli occhi, lasciandosi andare al buio velato dietro le palpebre e allo sfinimento straziante che le distruggeva le tenere membra, lasciandosi andare alla fine, avvertì la presa salda di braccia forti e sicure scivolare fin sotto la trama carezzevole delle vesti, cingendola per la vita e sollevandola. Per stringerla a sé, con forza, tirandola contro un corpo che non aveva neppure la forza di vedere.
***
Quando i sensi tornarono a manifestare la loro presenza dando percezione di sé e il sentore di morte che l'aveva avvolta fino a qualche istante innanzi si dissipava come nulla fosse stato, la ragazza avvertì un piacevole torpore risalirle la schiena, rampicando con il proprio formicolio fino alla base della nuca, dove dita esperte indugiavano con dolcezza, per poi scivolare fin sul volto, sui lineamenti compromessi degli zigomi, senza quasi permettersi di toccarli.
Mani accoglienti la invitavano a reclinare indietro la testa, a lasciarsi andare alla carezza tacita delle dita dischiuse ad accogliere il viso, promettendo custodia e protezione.
Tentò di dischiudere gli occhi, l'oscurità assoluta nascosta dietro le palpebre dissipata da un fiotto di luce improvviso che trafilava da sotto la corolla di ciglia scure in modo quasi accecante, rendendo torbidi i lineamenti della figura che le stava accanto e rendendo impossibile capire chi l'aveva strappata dal destino crudele toccatole in sorte.
«Milady vi prego, abbiate misericordia di voi».
Dolci sussurri corsero in risposta ai continui tentativi in cui insisteva a dibattersi; le parole, a tratti incomprensibili per l’eccessivo sfinimento, la invitavano a cessare ogni affanno per recuperare le forze perdute, mentre qualcosa di odoroso e caldo le scivolava giù per la gola, riscaldandola da dentro.
«Risparmiate le forze Milady» riprese poco dopo. «Bevete questo, vi restituirà quanto vi è stato preso». Il mormorio soave di un angelo, giunto ad intonare un canto di speranza in cui ormai non confidava più. L’ardore della sua voce faceva invidia al tepore della brezza primaverile, quella solita a sedurre i fiori anzitempo, invitandoli a sbocciare non curandosi del gelo appena passato e che potrebbe ritornare da un momento all’altro.
«Perché…»
Un fiotto di voce improvvisa, la vibrazione di un sussurro appena percettibile, destinato a disperdersi tanto rapidamente così com’era arrivato.
Mani gentili si sollevarono sul volto, il dorso delle nocche che, lasciandosi scivolare contro di esso, indugiava sugli zigomi mortificati dal pianto, dissipando le lacrime che ancora inumidivano la pelle; il contatto carezzevole delle dita premute sulla superficie delle labbra per tacitare qualsiasi tentativo di proferir parola, per un attimo le fece mancare il respiro.
«Non angustiatevi Milady, vi prego, date seguito alle mie suppliche» si sentì dire, dopo un istante che era parso interminabile. «Recuperate le forze, ritempratevi l'anima. Tornate in voi».
Poi il fremito di un respiro prima di riprendere.
«Dobbiamo fuggire da qui, in un modo o nell'altro, e non potrò sostenere il peso di entrambi se non vi aggrappate».
«Perché mi è stato fatto questo» insisté la ragazza, in quella che non era nemmeno una domanda ma una mera constatazione, una volta libera dalla pressione appena percettibile dei polpastrelli premuti contro.
«Non tutto necessariamente ha un motivo, anzi, alcuni fatti non ce l'hanno per nulla. Le calunnie, ad esempio, non trovano alcun fondamento nella ragione, ma sono a esclusivo compiacimento del proprio tornaconto». Per istante infinitesimale le parve di vederlo esitare, la rabbia trattenuta a stento almeno quanto il senso di disprezzo che aleggiava percettibilmente nella sua voce. «Strappata al tuo mondo, rapita dai loro adepti che spiano di continuo la vita sulla terra, per le sirene le tue minute fattezze sono state strumento di nuove crudeltà, per terminare il ritratto di sangue che già ristagna sui fondali dell’oceano. Lì, dove ogni orrore viene occultato agli occhi. Ma tu non crogiolarti su quanto capitatoti in sorte, né sulla tua diversità».
«È dunque sempre stato questo il problema? La mia diversità?»
«Onorabile Rosalyn, mi domando quali angherie vi abbiano indotto a pensare a questo, a pensare anche solo per un istante che la vostra diversità sia la causa di tutto. Certo, quelle subdole creature hanno sfruttato le vostre esigue fattezze ed il vostro gradevole aspetto per il proprio tornaconto, ma c'è della perfidia gratuita in ciò che vi hanno fatto che esula da ciò che siete». Poi il fremito di un respiro ad infrangergli le parole, lasciando trasparire quanti battiti gli sarebbero costati quanto stava per dire. «Ciò che ci rende diversi è ciò che ci rende unici, speciali così come siamo. E voi lo siete, Onorabile Rosalyn. Voi siete speciale così come siete».
Rosalyn, si ritrovò a pensare improvvisamente la ragazza, ancora stranita e al tempo stesso infervorata dalle emozioni struggenti che si era ritrovata a gestire, il respiro che venne meno non appena realizzò che quello avrebbe potuto essere il nome con cui, con ogni probabilità, erano stati soliti chiamarla nella sua vita precedente.
Attorno, nonostante gli occhi ancora socchiusi, era possibile percepire un vento impalpabile slittare via nell'aria e soffiare sulla superficie dell'acqua in quel momento apparentemente placida, per poi gettarle i capelli in volto e rendendo difficile continuare anche solo a percepire la carezza delle dita che ancora indugiavano all'altezza degli zigomi.
Avrebbe voluto chiedergli di tutto, ma non ne ebbe il tempo.
L'eccessivo sfinimento ebbe il sopravvento; le braccia di Morfeo, il dio del sonno, si erano già spalancate per trarla nuovamente a sé, le palpebre ancora socchiuse in una corolla di ciglia scure sugli zigomi delicati presero ad accogliere sotto di sé l’accendersi di mille sogni contrastanti, lasciandola precipitare in un riposo tormentato e combattuto.
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