3. Torna a casa, capitano.
Quel pomeriggio la spiaggia della baia era immacolata, del tutto priva di tracce: era giorno di mietitura.
Le impronte di sabbia sporcavano il piazzale dove i giovani del Distretto 4 si erano raccolti: erano orme appena accennate, mescolate a qualche pietruzza. Impronte ben calcate, di adolescenti fieri, e altre nervose, pasticciate, di ragazzini sperduti.
C’erano anche delle orme rassegnate, di sabbia bianca, accostate alla porta del palazzo di giustizia: impronte di un giovane capitano che stava per ormeggiare e abbandonare il porto.
Vivianne spalancò la porta, frugando la stanza con sguardo atterrito. Trovò Finnick intento a camminare avanti e indietro, con gli occhi spauriti che fissavano il vuoto e le mani serrate a pugno in un evidente tentativo di mantenere la calma. I sandali sporchi del ragazzo seminavano granelli di sabbia per terra a ogni suo movimento.
Quando la madre gli andò incontro per abbracciarlo, ricambiò la stretta con energia.
“Non possono portarmi via anche te” mormorò la donna, aggrappandosi alla sua camicia. “Non possono farlo, Finn, non possono…”
“Mamma…” mormorò il quattordicenne, cercando di calmarla. “…Mamma, guardami.”
Si ritrasse con gentilezza dalla presa della donna, per poter incrociare il suo sguardo.
“Mags si prenderà cura di me” promise infine, sforzandosi di controllare il tremito nella propria voce. “Andrà tutto bene, te lo prometto.”
Vivianne incominciò a scuotere la testa, dapprima lentamente, poi sempre più in fretta.
Specchiò i suoi occhi chiari in quelli verdi del figlio, altrettanto umidi di lacrime, e gli sfiorò con tenerezza il volto.
“Sei solo un bambino…” mormorò infine, accarezzandogli una guancia: era così bello, suo figlio.
Assomigliava a Gannet, ma c’era qualcosa nei suoi modi fare scanzonati che apparteneva solo a lui, e che lo rendeva ancora più attraente. Attirava spesso l’attenzione delle coetanee per via del suo bell’aspetto, ma agli occhi di Vivianne quella di suo figlio era una bellezza ancora pura, da ragazzino. Il suo sorriso era quello di un bambino e i suoi occhi verdi si facevano più vispi, quando lei gli nominava scherzosamente il suo eroe d’infanzia, Capitan Sebastian; proprio come quando era piccolo.
Lo guardò a lungo, scuotendo più volte la testa; la paura di perderlo le attanagliò tutto a un tratto lo stomaco.
“Oh capitano, mio capitano…” mormorò a quel punto, abbozzando un sorriso triste.
Il figlio ricambiò, concedendosi per un istante l’espressione malandrina che l’aveva caratterizzato sin da ragazzino.
“Il nostro viaggio tremendo è terminato” recitò poi, cancellando con l’indice la riga che una lacrima aveva lasciato sul volto della madre.
In un angolo della stanzetta uno dei pacificatori incominciò a dare segni d’irrequietezza, lasciando intuire a Vivienne che il tempo a sua disposizione stesse per finire. La donna strinse a sé il figlio ancora una volta, decisa a non lasciarlo andare fino a quando non gliel’avessero più permesso.
“Torna a casa, capitano” mormorò, accarezzandogli il viso un’ultima volta.
Finnick annuì, chinandosi in avanti per darle un bacio sulla fronte.
“Tornerò” promise, stringendole le mani.
I due pacificatori presenti nella stanza si scambiarono un cenno d’intesa, prima di chiedere a Vivianne di uscire.
La donna rifiutò, ma uno degli uomini l’afferrò per le spalle, intimandole di separarsi dal ragazzo. Vivianne lottò per liberarsi, ignorando le rassicurazioni di Finnick, trattenuto dal secondo pacificatore.
“Guarda le impronte!” le gridò dietro infine il ragazzo, mentre la madre veniva condotta fuori dall’edificio. “Le mie impronte sulla baia, come facciamo sempre con quelle di papà!”
La donna si arrese alla presa del pacificatore, che la spinse all’esterno del palazzo di giustizia, facendole perdere l’equilibrio; cadde in ginocchio, graffiandosi le mani sul cemento. Percepì all’istante il contatto ruvido dei granelli di sabbia sotto i polpastrelli e se li lasciò scorrere lungo i palmi, mentre le lacrime tornavano a rigarle gli zigomi.
Una serie di impronte sfatte, a mala pena riconoscibili, si inseguivano fino all’ingresso del palazzo: le orme di suo figlio.
Versi sparsi di una poesia incominciarono a risuonarle nella testa, accentuando il dolore che avvertiva all’altezza del petto; era la preferita di suo marito, la stessa che Finnick si era sforzato così tante volte di imparare a memoria, da piccolo. Non era mai riuscito a memorizzarla per intero, ma lei l’aveva fatto.
Ed erano proprio gli ultimi versi di quella poesia che le rimbombavano nella mente in quel momento.
“O gocce rosse di sangue,
là sul ponte dove giace il Capitano,
caduto, gelido, morto.”
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