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8. Benvenuta nel mio regno

Siamo tutti e tre in piedi, uno di fianco all'altro, con la neve che ci sputa in faccia la sua rabbia. Se possibile il vento si è fatto ancora più forte di prima e io dondolo a destra e a sinistra a ogni raffica, troppo stanca per oppormi alla sua volontà.

Intanto l'uomo comincia ad armeggiare con il marsupio da cui ha precedentemente estratto le bende e ne tira fuori uno strano oggetto tondo e metallico. Mi sporgo per vedere di cosa si tratta, ma all'improvviso una folata di vento più forte delle altre mi fa cadere addosso alla sua spalla forte e dura.

— Ehi, ce la fai a stare in piedi? A camminare? — mi chiede con un tono che non capisco se sia preoccupato o derisorio. Mi rimetto in piedi il più in fretta possibile, contraendo i muscoli del volto in un'espressione decisa: non devo mostrarmi debole. Non sono debole. Gli ho già dato abbastanza motivi per dubitare della mia forza e non voglio che si faccia un'idea sbagliata di me.

Lui mi sta ancora fissando, forse per controllare che io non crolli in terra priva di vita. Raddrizzo la schiena e, a testa alta, punto i miei occhi nei suoi, pungenti come il fuso di un arcolaio. Lui distoglie per primo lo sguardo e torna a osservare attentamente l'oggetto metallico.

— Cos'è? — chiedo dopo infiniti attimi di silenzio, visto che lui non accenna nessuna spiegazione.

— Una bussola.

— Una... bussola?

Torna a guardarmi dritta in viso. — Non sai cosa sia?

— Certo che lo so, ho letto qualcosa al riguardo in alcuni libri — ribatto, stizzita dal fatto che lui mi consideri un'ignorante. — Mi chiedevo solo... una bussola all'inferno? Qui esiste il nord?

— Ovviamente non è una bussola normale: l'ho costruita io e indica casa.

Gira l'oggetto metallico verso di me e io lo osservo, curiosa. In realtà a prima vista non è niente di che, una placca lucida con ancorata al centro una freccia rossa che ruota.

— Come pensi che ci si possa orientare altrimenti in questo nulla mutevole? — mi chiede cominciando a incamminarsi. Io raccolgo in fretta le mie cose e gli corro dietro con andatura zoppicante, temendo di perderlo di vista nella bufera. Non ho ancora deciso come agire da ora in poi, ma ho capito che da sola non ho alcuna possibilità di farcela quindi seguirlo è l'unica soluzione.

— Cosa intendi per mutevole?

— Che cambia. Ogni volta che sbatti le palpebre l'inferno ha modificato la sua forma.

Per istinto mi viene da fare proprio come ha detto lui, chiudo gli occhi e li riapro in fretta, ma il mondo mi pare uguale a com'era un attimo prima. Lo guardo scettica. Lui non alza gli occhi al cielo, ma sono abbastanza sicura che sia tentato di farlo.

— Ovviamente intendevo nella sua geografia più generale, non nei dettagli. Dove nessuno guarda, è lì che l'inferno cambia forma.

— Il Principe si diverte a prendersi gioco dei suoi prigionieri.

— Cosa hai detto, scusa? — ribatte lui, fermandosi di scatto e aggredendomi con voce tagliente. I suoi occhi, adombrati dalle sopracciglia basse e spesse, sono fissi su di me e devo ammettere che visto così fa quasi paura.

— Il Principe, sì, insomma, il demone... a lui piace prendersi gioco di noi — rispondo, balbettando più di quanto vorrei e sentendomi un'idiota per questo. Alle mie parole lui pare rilassarsi, il suo volto si rischiara e tutto in lui dà l'idea di scampato pericolo.

— Certo, il demone — sussurra tra sé e sé, con sguardo pensoso e perso. Poi si riscuote e, richiamata l'attenzione del lupo con un gesto della mano, riprende di nuovo a camminare. Mi tengo un paio di passi dietro di lui, abbastanza vicina da non perderlo di vista ma abbastanza lontana da non correre il rischio di fare conversazione. In realtà sono curiosa di sapere cosa ci faccia qui all'inferno, ma so che, se glielo chiedessi, dovrei poi raccontare la mia storia e non ne ho alcuna voglia. Non mi piace far sapere in giro i fatti miei.

— Voi ninfe lo chiamate Principe? — mi chiede l'uomo d'un tratto, girando un po' la testa verso di me e distogliendomi dai miei pensieri. Nonostante abbia tutta la stoffa del guerriero ogni suo gesto pare intriso di eleganza e raffinatezza innate, caratteristiche che in realtà lo rendono ancora più inquietante, in un certo senso.

— Sì, ma non so perché. In realtà non ne parliamo mai.

Facciamo in silenzio qualche altro passo.

— Come lo chiamate invece voi... aspetta, ma tu cosa saresti?

Lo sento sbuffare, il suono di qualcuno che trattiene a stento una risata.

— Cosa ti sembro?

— Non saprei. Uno gnomo gigante?

— Sono un mezzelfo. Il mio popolo era esperto nell'arte della guerra; i migliori spadaccini crescevano nelle nostre case e i nostri fabbri forgiavano le spade più affilate e resistenti mai portate sui campi di battaglia.

Parla con voce malinconica e assente, come se mi stesse raccontando non della sua vita, ma di un sogno lontano e quasi dimenticato.

— Non ricordo di averne mai sentito parlare.

— Non fatico a crederlo — ribatte lui, tornando al suo normale tono, deciso e tagliente. — È passato tanto tempo da allora. — Poi tace e non mi rivolge più la parola finché il mio stomaco non comincia a gorgogliare tanto forte che temo possano sentirlo anche i mostri morti che sballottano sulla sua schiena.

— Fermati un attimo a mangiare qualcosa — afferma. Lo dice con un tono tanto altezzoso che quella che forse era nata come una gentilezza mi pare ora un ordine. Temo che non sia più abituato ad avere a che fare con le persone. Comunque non ribatto, perché sto veramente morendo di fame.

Mi accovaccio in terra e cerco di sciogliere il nodo del mio fagotto per estrarre il poco cibo che contiene, ma le mie mani sono talmente martoriate che l'unica cosa che riesco a fare è bagnare il tessuto con l'acqua che trasuda dalle ferite aperte. Il mezzelfo, che mi si è avvicinato fino a incombere alle mie spalle, mi strappa il bagaglio improvvisato dalle dita e lo apre al mio posto. Prima di restituirmelo dà una sbirciata al suo contenuto.

— Tutto qua? Ti sei portata dietro solo questo? — Il tono con cui pone la domanda lascia benissimo intendere cosa pensi di me in questo momento, anche se lui non lo dice apertamente.

— La cosa non dovrebbe importarti — replico stizzita. Non sopporto quando la gente mi giudica.

— Insomma, stai facendo un viaggio all'inferno. Cosa pensavi, che questo posto fosse pieno di botteghe e mercati?

Botteghe e mercati, anche su questi devo aver letto qualche paragrafo nei vecchi libri della biblioteca della Comunità. In ogni caso non credo che sia opportuno fargli notare che, se non fosse per il fato che mi ha fornito la sacca magica, io all'inferno ci sarei venuta senza niente.

Lui mi ridà il mio fagotto, porgendomi anche qualcosa preso dal suo marsupio e che ha tutta l'aria di essere un pezzo di carne essiccata, ma io prontamente la rifiuto, arricciando il naso disgustata. — Noi mangiamo solo vegetali — affermo decisa.

— È un vizio che dovrai farti passare, se vuoi sopravvivere — ribatte lui, continuando ad allungarmi la carne.

— No, grazie. Chissà quale tuo simile hai ucciso per procurarti quel pezzo.

— Mangiala.

— Ho detto di no.

Ci guardiamo in cagnesco per un po', finché non concentro l'attenzione sul fagotto aperto, lasciando il mezzelfo con il braccio allungato e il pezzo di carne che pende dalla sua mano tesa verso di me. Ignorandolo, mangio le bacche e un po' di frutta secca e cerco di illudermi che basti. Quando ho finito tento di richiudere il bagaglio, ma ho le dita congelate e la stoffa continua a sfuggire alla mia presa.

— Da' a me — esclama lui, autoritario.

— Non ho bisogno di aiuto — dico tra i denti, infastidita da questo suo continuo considerarmi un'incapace. So che seguirlo è stata la scelta più saggia che potessi fare, ma sopportare i suoi ordini senza rispondergli male mi costa un'enorme forza di volontà.

Ci metto un'eternità, ma alla fine riesco a richiudere il fagotto e mi rialzo in piedi. Lo guardo vittoriosa e lui non ribatte nulla, fissandomi con espressione buia e contrariata. Si incammina a passo svelto e io barcollo nel tentativo di stargli dietro. Gordost, che si è mangiato il pezzo di carne riservato a me e pare esserne molto soddisfatto, mi si affianca e mi dà dei leggeri colpetti con il muso ogni volta che sbando, come se volesse infondermi coraggio e forza. Ogni tanto guarda il suo compare con sguardo dolce e, quando poi riporta gli occhi su di me, pare quasi chiedermi di perdonarlo per il suo modo di fare brusco e arrogante.

Sono sorpresa di quanto mi sia più facile comprendere il lupo piuttosto che il mezzelfo che mi sta facendo da guida, ma d'altra parte non sono mai stata brava a capire le persone.

— Siamo quasi arrivati — mi informa lui quando davanti a noi comincia a intravedersi l'ombra di qualcosa molto grande e scuro. Strizzo gli occhi cercando di capire di cosa si tratti, ma solo quando dista da me appena un paio di braccia mi rendo conto che è un muro di pietra. È immenso e sembra abbracciare lo spazio fin dove riesce a spingersi lo sguardo, sia a destra che a sinistra. In realtà è il primo muro in pietra che vedo in tutta la mia vita, dato che nel mio villaggio preferiamo usare altri materiali, e mi fa sentire annichilita. Non mi piace per niente.

Il mezzelfo vi si avvicina fino a posarvi sopra una mano e, per un attimo, mi sembra che accarezzi la pietra. Lo guardo perplessa finché lui non comincia a camminare tenendo il palmo sul muro, come se gli servisse una conferma tattile di stare seguendo la strada giusta. Ogni tanto si ferma, credo quando percepisce crepe o insenature irregolari sotto la mano, e analizza minuziosamente la superficie cercando qualcosa che non riesco a comprendere, ma evidentemente non è mai quello che gli serve perché ogni volta sbuffa e ricomincia a camminare.

Costeggiamo il muro per un bel po' di tempo senza che lui si prenda la briga di spiegarmi cosa stiamo facendo e la cosa comincia a irritarmi parecchio. Non che io non glielo abbia chiesto a un certo punto, ma evidentemente lui era troppo concentrato per degnarsi di rispondermi. La mia irritazione è inoltre accresciuta dal fatto che sono sempre più stanca, tanto che a un certo punto i bagagli mi sono scivolati di mano e Gordost, in un atto di pietà, li ha tirati su al posto mio azzannando la stoffa e si è rifiutato in ogni modo di ridarmeli. Devo essere uno spettacolo davvero pietoso se faccio compassione persino a un lupo.

Sto cominciando a perdere la speranza di arrivare da qualche parte quando l'uomo, all'ennesima analisi del muro, sussurra con tono soddisfatto: — Eccolo.

Mi fermo anch'io, smettendo di ciondolare di qua e di là, e in un attimo mi sento sveglia e attenta. Lo vedo che schiaccia qualcosa nel muro, una piccola incisione di una spada scolpita nella pietra, ma non faccio in tempo a concentrarmi su quel dettaglio che tutto comincia a tremare.

— Che succede? — chiedo con una nota di panico nella voce, fissandolo a occhi sbarrati. In compenso lui sembra tranquillissimo, come se tutto fosse perfettamente normale. E forse è davvero così, forse all'inferno non c'è nulla di preoccupante se la terra su cui si cammina viene scossa all'improvviso da potenti tremiti.

Seguo il suo sguardo, che è rimasto puntato sul muro, e all'inizio non riesco a dare un significato a ciò che vedo. Un'intensa luce dorata sembra nascere direttamente dalla pietra e si espande, diventando sempre più grande, da semplice baluginio a nuovo sole. Si muove nell'aria in filamenti e riccioli e piano piano va a comporre un immenso cancello d'oro di squisita fattura che non posso che ammirare a bocca aperta.

— Eccoci arrivati — esclama l'uomo spingendo il cancello con una mano e aprendolo. Ci sono così tante domande che si affastellano nella mia mente che non so da quale cominciare e così non ne faccio nemmeno una. Mentre passo in mezzo ai due battenti dorati mi perdo a guardare i minuziosi disegni che li decorano: valorosi guerrieri su cavalli possenti, fiori e piante che non ho mai visto, spade, battaglie e, in mezzo a tutte queste dettagliate incisioni, una sigla intorno a cui tutto sembra ruotare: RTT.

Mi volto verso l'uomo per chiedergli cosa significhi e quasi gli vado a sbattere contro. Mentre io mi sono persa ad ammirare il cancello lui è rimasto fermo a solo un braccio da me, appena oltre l'uscio, e ora guarda davanti a sé con aria fiera e triste al tempo stesso. Mi metto al suo fianco, cercando di capire cosa stia succedendo.

— Ninfa, benvenuta nel mio Regno — afferma lui solenne, allungando un braccio davanti a sé come a voler inglobare in un gesto tutto l'orizzonte. Davanti a noi si estende un territorio brullo, fatto interamente di rocce e sassi di tutte le tonalità di grigio. A spezzare la monotonia c'è solo un castello appuntito sulla cima di una piccola collina pietrosa, anch'esso monocromatico come tutto ciò che riesco a distinguere.

— Il tuo Regno? — chiedo perplessa. — Quindi sei una specie di re?

Riprendo a scrutare l'orizzonte, sorpresa da come sia bastato superare il cancello perché nebbia, bufera e neve si dissolvessero in un attimo.

— Ma qui non c'è nessuno da governare.

— Il Principe si diverte a prendere in giro i suoi prigionieri — risponde lui, ripetendo le mie parole e addentrandosi in quel mare di pietra.

La distanza che ci separa dall'ingresso del castello non è poi molta, ma a me pare infinita. Forse dipende anche dal fatto che il paesaggio è tutto uguale a sé stesso e, per quanto avanziamo a passo abbastanza spedito, mi sembra di non muovermi affatto.

— Ma sei un re solo all'inferno o lo eri anche nel mondo vero? — non riesco a trattenermi dal chiedergli.

— Il mondo vero! Perché, non è abbastanza vero l'inferno per te? — ribatte lui senza rispondere alla mia domanda, ma, nonostante la curiosità, non me la sento di insistere perché temo di diventare troppo invadente.

— Quasi non ricordo nemmeno più com'è il mondo fuori di qui — sussurra tra sé e sé un momento dopo, rompendo di nuovo il silenzio assoluto che permea l'aria in modo innaturale, tanto intenso da inghiottire anche il suono dei nostri passi. Mentre camminiamo, mi perdo a scrutare le rocce che scorrono al mio fianco e a un certo punto mi pare quasi di vedere un volto con la bocca aperta in un grido emergere dalle ombre create dalla luce bianca che ci circonda e che sembra non venire da nessuna parte. Mi ritraggo, spaventata, ma quando il mio sguardo torna sulla pietra l'effetto è svanito.

— Da quanto sei qui? — domando, guardando il più possibile la sua nuca davanti a me piuttosto che il paesaggio inquietante che stiamo attraversando.

— Da talmente tanto tempo che tu non saresti nemmeno in grado di capire quanto è veramente.

Sbuffo, irritata dalla sua risposta sibillina.

— Un po' più nello specifico?

— Quanti anni hai? — mi chiede lui.

— Ho appena compiuto ventidue primavere.

— Ecco, immagina di vivere venti volte la tua vita fino a oggi e saprai da quanto sono qui.

Lo guardo con tanto d'occhi, stupita dalla piccola eternità che ha speso in questo posto infernale.

— Non guardarmi così — dice lui, duro e brusco.

— Così come?

— Con pietà.

Le sue parole mi stupiscono, soprattutto perché non pensavo di poter provare pietà per qualcuno che non fossi io stessa.

— Tu invece? Da quanto sei qui? — mi chiede lui mentre arranchiamo per l'ultimo tratto di salita. Guardo il mio braccio, dove noto con orrore che anche il secondo cerchio è ormai nero per metà.

— Un giorno e mezzo.

Lui rallenta, in modo da mettersi al mio fianco e poter sbirciare il mio avambraccio.

— Quei cerchi ti contano i giorni?

Annuisco controvoglia, perché so quale sarà la prossima domanda.

Lui esita un attimo, come se avesse timore a intromettersi nei fatti miei. Poi però dice: — E perché ne hai solo dieci? Cosa succede quando anche l'ultimo sarà finito?

Un brivido mi attraversa la schiena e il mio cuore manca un battito. Non era proprio così che mi aspettavo la domanda, soprattutto perché in questo modo mi obbliga a concentrarmi su un quesito che io stessa non avevo ancora avuto il coraggio di esaminare. Cosa succederà se io dovessi fallire? Cosa ne sarà di me? E di Alveus? Non posso assolutamente considerare questa possibilità, non posso pensarci perché altrimenti rischierei di soffocare.

— Se tutto va bene, tornerò di nuovo a casa mia.

— Fuori di qui? — esclama lui stupito e io mi fermo a guardarlo perché la sua autentica sorpresa è tanto grande da spezzare la maschera di durezza e indifferenza che ha indossato finora. Lui mi fissa a sua volta con gli occhi spalancati e nella sua espressione leggo incredulità e un pizzico di qualcosa che non riesco a definire bene. Speranza, forse?

— Sì — rispondo io. Il suo volto ritorna serio e pensoso e non dice più niente finché arriviamo al portone d'ingresso.

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