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17. La prova del fuoco

Quando riapro gli occhi mi ritrovo sdraiata supina su una superficie dura e fredda, sopra di me solo un cielo nero rischiarato appena da una luce azzurra, lieve e soffusa, proveniente dal basso. Mi basta tirarmi a sedere per riconoscere il lago celeste e il basamento di ossidiana su cui si innalzano minacciose le due porte. Siamo di nuovo all'inferno.

— Avete superato la prova? — domanda incredula la fatina azzurra dalla voce sibilante che ci aveva aiutato all'inizio, facendomi sobbalzare. Come allora emerge appena dall'acqua e ci fissa coi suoi grandi occhi bianchi, ora atteggiati in un'espressione speranzosa.

— Avete trovato Laality?

Abbasso gli occhi, non voglio guardarla in volto mentre le do la notizia. — No, mi dispiace.

Un sospiro di delusione fa eco alla mia risposta.

— Non importa, me lo aspettavo — sussurra con voce triste, anche se è palese che non è affatto vero che non le importa. Scuote la testa, come a voler scacciare il pensiero, e poi esclama, forzando un tono più allegro: — E qual è la soluzione dell'enigma?

— Una lacrima — risponde secco Rohkeus, in piedi accanto alla bilancia nera e lucida. Il suo volto ha ancora un aspetto orribile, tumefatto e nerastro. Spero che le erbe facciano effetto in fretta.

— E ora dovete metterla nel primo piatto?

— Immagino di sì. Ninfa, vieni qui — mi chiama il mezzelfo e io mi avvicino, già rimpiangendo quell'unica volta che mi ha chiamata per nome. — Piangi di nuovo.

— Cosa? — esclamo, fermandomi a metà di un passo. — Cosa credi? Mica lo faccio a comando. Perché non usiamo le tue, di lacrime?

— Non siamo sicuri che funzionino — risponde pragmatico. — È la tua che ci ha riportati qui.

— Una lacrima è pur sempre una lacrima.

— Suvvia, non litigate, è così semplice piangere — ci interrompe la fata, con gli occhioni lucidi. — Basta un pensiero, un ricordo del passato, un verso di una ninnananna.

Le sue parole si spengono in un sussurro, trasformandosi in note dolci e malinconiche che narrano di una principessa che tanto tempo fa, in un bosco, ha smarrito il proprio amore ed è tuttora lì a cercarlo, perché senza amore non vuol vivere. È una ballata tristissima, i cui versi si susseguono come se fossero lacrime che cadono inarrestabili, gocciolando nel cuore di chi ascolta. Mi fa pensare a tutte le cose che ho perduto e che forse non ritroverò mai più.

Non so se sia una magia, ma a un certo punto comincio a piangere per davvero, singhiozzando disperata. Vorrei smetterla, non sopporto che Rohkeus mi veda in questo stato, ma non ci riesco e me ne vergogno. Poi, d'un tratto, Gordost comincia a ululare in modo straziante ed è così che alzo lo sguardo, che finora ho tenuto basso, per scoprire che anche il mezzelfo sta piangendo silenziosamente, le calde lacrime che gli scorrono sul viso e la mano che stringe l'elsa della spada a cercare conforto. Mi colpisce vederlo così vulnerabile, lui che mi è sempre parso invincibile e inattaccabile come una fortezza.

Mi avvicino alla bilancia e, dopo aver raccolto le lacrime con una mano, le lascio gocciolare nel primo piatto. La terra comincia d'improvviso a tremare e mi devo aggrappare all'oggetto di ossidiana al mio fianco per non essere sbalzata in acqua. Il piatto comincia a scendere lentamente e, quando si ferma a una spanna dal suolo, anche la terra torna immobile.

La fata intanto ha smesso di cantare e ci guarda, le piccole braccia appoggiate alla piattaforma nera, mentre grandi gocce luccicanti continuano a scenderle lungo le guance.

Con uno scatto deciso Rohkeus si asciuga gli occhi, forse mettendoci troppa energia perché quando si passa la mano su quello destro, ossia dal lato tumefatto, un gemito involontario gli sfugge dalle labbra.

— Stai attento — lo ammonisco, allungando una mano verso il suo viso, ma lui la scaccia subito con un movimento brusco.

— Va tutto bene — afferma frettoloso, stringendo la cinghia della bisaccia. — Stiamo perdendo tempo, la seconda prova ci aspetta.

Arresa, lascio ricadere la mano lungo il fianco e mi avvicino alla seconda porta, che reca incisa la scritta "Prova del fuoco".

— Che la buona stella sia con voi — ci augura la fatina, mentre il mezzelfo spinge la lastra nera. Subito una luce intensa ci investe ed è così bollente che mi sembra che il sole stesso ci stia soffiando addosso. Non riesco a tenere gli occhi aperti e comincio a brancolare nel buio, se di buio si può parlare, senza avere la più pallida idea di dove stia andando, mentre una voce roboante mi esplode nelle orecchie: — Trovate la goccia di fuoco.

Poi d'un tratto un'altra mano, grande e ruvida, afferra la mia e io la stringo senza fare domande. In qualche modo ci trasciniamo l'un l'altro fuori da questo tunnel di luce, finché a un certo punto la temperatura cala e vedo, attraverso le palpebre, il lucore sbiadire.

Soltanto a questo punto oso aprire gli occhi. Ci troviamo in un bosco di betulle, alberi molto diversi da quelli a cui sono abituata, ma riesco a intravederli appena alla luce della luna. È notte fonda e alzo lo sguardo a cercare le stelle tra le alte fronde. È solo quando Rohkeus mi lascia andare la mano che mi accorgo che eravamo ancora allacciati. Imbarazzata, sento le guance diventarmi bollenti e comincio a cercare Gordost per non dover guardare in faccia il mezzelfo al mio fianco. Forse intuendo le mie intenzioni, il lupo mi si avvicina con passo leggero, leccandomi poi la mano incriminata.

— Dovremmo fermarci a dormire un po' — afferma Rohkeus, come se nulla fosse. — È più di un giorno che non chiudiamo occhio.

Nel momento esatto in cui lo dice sento una stanchezza immensa piovermi sulle spalle.

— Però non mi sembra una buona idea accamparci in questo posto sconosciuto che, per quanto ne sappiamo, potrebbe essere pieno di draghi pronti a divorarci — ragiono ad alta voce, mentre cerco di trattenere uno sbadiglio.

— Non abbiamo scelta — afferma categorico il mezzelfo. Fa una lunga pausa e poi aggiunge: — E comunque temo di sapere dove siamo.

— E dove siamo? — chiedo stupidamente, prima che un'idea mi si accenda in testa. Oh, stavolta siamo a casa sua. Tuttavia intorno non vedo nessuna città e l'ambiente non sembra coincidere assolutamente con quello descritto nel libro che ho letto ieri. Un sacco di domande mi si accavallano sulla lingua, ma Rohkeus si è inginocchiato a terra raccogliendo foglie secche per farne un morbido giaciglio e non sembra intenzionato a continuare il discorso, motivo per cui decido di tacere.

— Domani partiremo alle prime luci dell'alba — afferma, sedendosi e saggiando la comodità dello spartano materasso appena creato.

— Tu non vieni, ninfa? — mi domanda indicando le foglie ammucchiate accanto a lui. Non ho mai dormito così, all'aperto, e, sebbene mi vergogni solo a pensarlo, ho un po' di paura di cosa potrebbe succedermi intanto che sono incosciente. Mentre mi sdraio al fianco del mezzelfo cerco di convincermi che, se lui è così tranquillo, significa che non c'è nulla da temere. In fondo, conosce la zona.

Anche Gordost si accuccia sull'altro lato di Rohkeus e i due si addormentano in un attimo. Infine, nonostante i continui scricchiolii degli alberi e i lamenti degli animali che turbano il silenzio della foresta, scivolo anch'io nel mondo dei sogni, cullata dal loro respiro regolare.

Quando Rohkeus mi sveglia scuotendomi per la spalla mi sembra di avere appena chiuso gli occhi. Mi guardo intorno con aria confusa e sperduta, dimenticando per un attimo dove mi trovo. Dietro le palpebre ho ancora vivida l'ultima immagine lasciata dalla notte: Iris che vaga nel bosco come la principessa della ballata in cerca di Alveus, ma senza la speranza di ritrovarlo perché io gliel'ho portato via per sempre.

Cercando di scacciare la brutta sensazione che quel sogno mi ha lasciato, analizzo alla luce del giorno il paesaggio che ci circonda. Ora che è chiaro e illuminato, il bosco di betulle fa un effetto completamente diverso, con le foglie fruscianti che creano giochi di luci e ombre che corrono sul terreno come acqua mossa dal vento. È tutto tremendamente calmo, una parentesi inaspettata nel nostro viaggio.

Appena sveglio Rohkeus parla addirittura meno del solito e così facciamo colazione in silenzio, godendoci la tranquillità del bosco. Poi, una volta messi a tacere i morsi della fame, si alza, spazzola via le foglie dai vestiti e si lega in spalla la bisaccia, pronto a rimettersi in cammino.

— Sai la strada o devo interpellare l'anello? — domando, pronunciando le prime parole della giornata. Lui si guarda intorno, apparentemente analizzando gli alberi uno a uno, per poi riportare lo sguardo su di me.

— Non serve, so dove dobbiamo andare.

Mentre lo seguo in mezzo a un'infinità di alberi che mi sembrano tutti uguali, mi chiedo come faccia a ricordare così bene la strada nonostante tutti gli anni passati all'inferno. Me lo immagino seduto da solo nel suo grande e deserto castello a pensare e ripensare ossessivamente alla sua casa, rivivendo ogni scena della sua vita ancora e ancora, imprimendosi nella mente ogni dettaglio per evitare di dimenticarlo.

Quando anche il settimo cerchio è nero per un quarto, gli alberi cominciano finalmente a diradarsi, aprendosi come un sipario su una città arrampicata sui fianchi di una collina brulla e rocciosa. Non è molto alta, ma le sue pendici sono ripide e le case vi stanno appollaiate come rapaci pronti a scattare sulla preda. Sono anch'esse di pietra, fatte della stessa roccia su cui sorgono, e con le loro facciate appuntite indirizzano lo sguardo verso il castello dalle torri pungenti che sorge austero sulla cima della collina. Nell'insieme, se immagino di eliminare le case, mi ricorda terribilmente la residenza del mezzelfo all'inferno.

Rohkeus si immobilizza di colpo e rimane fermo a fissare la città, come se avesse bisogno di tempo per metabolizzare che è davvero qui, davanti alla sua patria, dopo così tante primavere.

— Tutto a posto? — gli domando infine, visto che non accenna a muoversi. Lui si riscuote di colpo e porta la mano alla spada, di cui accarezza l'elsa in quella che immagino sia un'azione istintiva che lo tranquillizza.

— Sì, siamo quasi arrivati — risponde subito con voce tesa, riprendendo a camminare a passo svelto. Arriviamo infine a una vera e propria strada in terra battuta, molto più larga di qualsiasi sentiero io abbia mai visto, e che porta a un grande portone di legno che si apre nelle spesse mura di pietra che circondano la città.

— Non ho idea di come siano ora le cose lì dentro — afferma serissimo il mezzelfo, girandosi a guardarmi. — Tenteremo di entrare dalla porta principale, ma da lì in poi dovremo improvvisare.

Annuisco nel modo più convincente possibile, mentre lui continua ad accarezzare l'elsa con movimenti nervosi.

Non appena arriviamo dinnanzi al portone, due uomini armati escono da una porticina ricavata nella pietra a lato dell'ampio ingresso, bloccandoci. Uno dei due, guardandoci con durezza, ci pone una domanda in una lingua dai suoni aspri e spezzati, che non comprendo. Presa alla sprovvista mi volto verso Rohkeus, ma lui ha raddrizzato la schiena assumendo un aspetto ancora più altero del solito e pare non essere per nulla sorpreso dallo strano suono delle parole pronunciate dalla guardia. Infatti risponde subito nello stesso idioma e io mi ritrovo a spostare lo sguardo alternativamente dall'uno all'altro cercando di seguire una conversazione di cui non capisco nulla.

La guardia non sembra convinta delle parole del mio compagno di viaggio e continua a fissare me e Gordost, forse non sapendo bene come interpretare la nostra presenza. Il tono di Rohkeus però è tremendamente serio e autoritario, tanto che alla fine l'altro mezzelfo non trova più nulla da ribattere e acconsente a lasciarci entrare, seppur a malincuore. Aiutato dal compagno apre uno degli ampi battenti del grande portone e poi lo richiude alle nostre spalle con un inquietante stridio metallico.

— Ma in che lingua parlava? E cosa ti ha detto? — domando non appena siamo dentro le mura.

— È la lingua dei mezzelfi.

— Ma tu non l'avevi mai usata prima.

— No, perché tu sei una ninfa, motivo per cui ho deciso di usare il vostro idioma.

— E perché tu lo parli?

— Un tempo, quando i due popoli erano in contatto, tutti i mezzelfi parlavano la lingua delle ninfe e tutte le ninfe parlavano quella dei mezzelfi.

Non posso fare a meno di pensare a quanto tempo è passato da quando Rohkeus camminava su questa terra e a come debba sembrargli strano e diverso il mondo adesso.

— Cosa ti ha detto? Perché non voleva lasciarci passare?

— A quanto pare attualmente i lupi non sono ben visti, mentre le ninfe non sono viste proprio. Quell'uomo non aveva idea di cosa fossi.

— Voi mezzelfi siete sempre stati così isolati e sospettosi? — chiedo, aprendo le braccia a indicare le mura e il portone chiuso.

Lui li guarda in silenzio per un attimo, come soppesandoli, e poi ribatte: — Le mura ci sono sempre state, ma un tempo la porta era aperta e i mercanti potevano entrare e uscire liberamente dalla città.

Scuote la testa, forse per scacciare i ricordi che sicuramente gliela stanno invadendo.

— Andiamo — afferma, incamminandosi. Le case non sono state costruite direttamente attaccate alle mura e ora ci troviamo in una specie di terra di nessuno, vuota e desolata.

— Qui un tempo si teneva il mercato — mi informa, forse notando che mi sono soffermata a guardare ciò che ci circonda. Tuttavia, non è la cosa che più mi preme sapere.

— Dove stiamo andando? — gli domando, seguendolo.

— Cerchiamo una persona che conosco.

— Ma tu sei stato all'inferno quasi quattrocento primavere! Quanto possono vivere i mezzelfi?

— Non più di ottant'anni.

— È impossibile che qualcuno che conoscevi sia ancora vivo.

— Infatti non è un mezzelfo.

— No? — esclamo stupita.

— È una strega.

Mi maledico per aver saltato quel paragrafo del libro, che ora mi pare così importante.

— Come fai a sapere che è ancora qui? O che non è morta?

— Non lo so.

Appena superiamo le prime case veniamo inglobati nella vita della città, incontrando sempre più persone man mano che ci addentriamo nelle viuzze ritorte che risalgono i fianchi della collina. Al nostro passaggio tutti si immobilizzano, sospendendo qualunque cosa stessero facendo per guardarci a bocca aperta, incuriositi. Bisbigli e mormorii ci seguono come il velo di una sposa, mentre dita callose da lavoratori indicano alternativamente i miei capelli bianchi e il pelo nero di Gordost.

Fabbri sudati escono apposta dai loro antri di fuoco per vederci passare, le donne si attardano alle finestre stendendo i panni più lentamente del dovuto e i bambini più piccoli ci fissano con i loro grandi occhioni spalancati, tra le gambe delle madri. In realtà anche Rohkeus attira l'attenzione della gente, seppur mezzelfo, a causa della leggera armatura che porta sul busto e sugli avambracci, ma soprattutto per colpa dell'atteggiamento altero e fiero che lo fa assomigliare a un comandante sul campo di battaglia. Cammina veloce, forse per sfuggire alle chiacchiere della gente, e io devo correre per mantenere il suo passo.

— Non credi che siamo un po' troppo appariscenti? — gli domando appena riesco ad affiancarlo, sentendomi un po' in soggezione.

— Non abbiamo tempo per essere discreti — risponde lui, con tono definitivo.

All'improvviso si ferma davanti a un bivio, guardando alternativamente le due strade.

— Questo non c'era — sussurra, come a voler giustificare la sua indecisione, ma poi imbocca la strada di sinistra senza neanche darmi il tempo di ribattere. Va talmente veloce che credo stia cercando di togliersi dalla strada il più in fretta possibile, come se fosse intimorito dagli sguardi e dai giudizi degli altri mezzelfi. La sua mano continua a stringere l'elsa della spada, tanto che le nocche sono ormai diventate bianche.

Sbaglia strada un paio di volte, ma alla fine si ferma davanti a una casetta a due piani con la biancheria stesa ad asciugare fuori dalle finestre. Esita prima di avvicinarsi alla porta, esortato da Gordost con un colpetto del muso.

Bussa due volte e poi aspettiamo, tesi allo spasimo. Ad aprire è una signora anziana, molto più bassa di noi e con la faccia tonda ricoperta di rughe. Si pulisce le mani sul grembiule macchiato e poi ci rivolge la parola, perplessa. È lei che cerchiamo?

A giudicare dall'espressione stupita e delusa di Rohkeus direi di no, infatti dopo un rapido scambio di battute la vecchietta richiude la porta con un colpo secco, come se non vedesse l'ora di liberarsi di noi.

— Non abita più qui — mi spiega il mezzelfo prima ancora che io gli domandi cosa sia accaduto. — Da molto tempo, pare.

— E ora che facciamo?

— Però la vecchia ne ha sentito parlare e ci consiglia di cercarla dalla parte della collina che guarda verso il Polttaa.

— Verso cosa?

— Il vulcano, forse prima non lo hai notato perché nascosto dalla città.

Mentre rincorro Rohkeus nelle stradine tortuose cerco di ricordare se l'ho visto in lontananza, ma devo ammettere che non ci ho fatto minimamente caso. E poi, d'improvviso, eccolo. Si staglia alto e massiccio, più vicino di quanto pensassi. Mi fa venire in mente un nonnino tranquillo, con la scorza solcata da mille rughe.

— La zona è questa, ora dobbiamo chiedere in giro. Voi due aspettate qua — ci ordina autoritario, lasciando me e Gordost in mezzo alla strada, mentre lui si avvicina a un uomo tarchiato e dalle spalle squadrate, che guarda Rohkeus con aria vagamente intimorita. Lo vedo ascoltare la sua richiesta e scuotere la testa, indicando poi un punto con il dito. Appena il mio compagno di viaggio si volta verso di noi per farci cenno di avvicinarci, l'uomo si chiude in tutta fretta nella sua bottega, sbarrando la porta.

— Perché tutti hanno paura di noi? — gli domando.

— Non lo so, quando io vivevo qui i mezzelfi erano un popolo molto più coraggioso. Comunque ha detto che la sua casa è una di quelle — afferma avviandosi con noi al seguito.

— Huba! — urla a un certo punto, facendo balzare in aria sia me che il lupo. — Huba Allayl!

Una donna sbatte le imposte di una finestra, probabilmente infastidita dal rumore, mentre una porta alla nostra destra si socchiude, permettendoci di scorgere il viso di due bambini dai capelli rossi. Sto per indicarli al mezzelfo, quando una voce alle nostre spalle ci coglie alla sprovvista.

— Rohkeus!

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