XXX. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Note d'autrice: salve. Io non abbandono mai ciò che devo portare a termine. È passato un (bel) po' di tempo, ma non ho smesso di scrivere. Spero che questo capitolo soddisfi le persone che mi hanno aspettata... e che ringrazio tantissimo. Senza i lettori, le storie nemmeno esisterebbero.
Il titolo viene dall'omonima poesia (e raccolta di poesie) di Cesare Pavese.
Nulla... buona lettura ♥
Folie à Deux
XXX.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
A Eleanor è sempre piaciuto ballare.
Tra la fine delle medie e l'inizio del liceo aveva frequentato un corso di danza classica, per un anno e mezzo. Non era mai stata alla pari delle altre ragazze, certo, a causa dei suoi problemi di equilibrio, ma tutto sommato aveva abbandonato con grande dispiacere.
Qualcosa di quella effimera passione personale, però, le è rimasta e non risiede tanto nella voglia di dar spettacolo o di apparire più brava di altri. È più legata a ciò che suscita la musica in lei. Quando la musica è quella giusta, il suo corpo vorrebbe cominciare a muoversi, a espandersi, a riempire ogni angolo di ogni stanza, a piegare la gravità. Il modo più naturale di soddisfare questo desiderio di connessione con quello che la circonda è danzare.
Quello che la circonda è arte. E lei ne è diventata parte integrante. Il teatro, Mozart, le vetrate, le luci dei lampadari antichi, l'abito che indossa.
Eleanor si sente arte allo stesso modo. Il suo esistere. Il suo legame con Alistair. Se tutto questo non è arte, non lo è nient'altro.
Nella sala ristorante della Royal Opera House si diffonde in quel momento il suono di una chitarra acustica. I primi accordi di un brano che ricorda lo stile di Astor Piazzolla, latino, pizzicato prima dolcemente e poi sempre più con veemenza. Segue presto una fisarmonica, mossa da un corpo anonimo eppure esperto. Mani leggermente callose, con peli sottili sulle falangi. Tutti i musicisti di quella piccola orchestra allestita per la cena di beneficenza hanno volti e storie dimenticabili. Non è importante chi sono, ma ciò che suonano. Suonano per il pubblico borghese che si ridesta dal dessert appena servito. Suonano invece di parlare: è così che si raccontano.
Un tango argentino.
Alcune coppie si alzano dai tavoli e cominciano a ballare, in un muto accordo. La maggior parte di esse non conosce i passi reali di quella danza, ma approfitta dello spazio antistante al palchetto dell'orchestra per ravvivare l'atmosfera pacata e composta, tra posate che tintinnano appena contro i piatti e brindisi silenziosi. Godono di ciò che hanno pagato, perché sono ricchi e non si aspettano di essere delusi da un biglietto alla Royal Opera House che comprende lo spettacolo de Il flauto magico e cena a base di pesce all'interno del prestigioso ristorante, riservato generalmente a eventi come quello. Beneficenza per i bambini in Medio Oriente, a quanto Eleanor ha capito.
Lei rimane seduta al suo tavolo per due, con le mani intrecciate in grembo. Guarda le coppie che ballano, squadra la loro evidente incapacità mascherata da qualche risata genuina, i vestiti delle donne, dalle più giovani - trenta, quarant'anni - alle più anziane. Alcune di esse, all'ingresso del ristorante, l'hanno osservata con insistenza, forse con invidia. Così giovane e così ammirabile. Quella pelle candida non intaccata nemmeno da una ruga. Quegli occhi che chiamano altri sguardi.
Sorride lievemente, al pensiero di essere tanto desiderabile, non solo per Alistair, nel bene e nel male.
Il duo di violinisti alle spalle dell'uomo con la fisarmonica si aggiunge alla melodia, rendendola ancora più accattivante e malinconica allo stesso tempo.
Alistair si alza dalla propria sedia, di fronte a lei, e la raggiunge porgendole la mano.
« Balliamo. »
Non è nemmeno una domanda. È un'esortazione al limite dell'impazienza. Lo capisce dal suo tono e dalle sue sopracciglia, basse e corrugate.
« Davvero? » chiede, senza riuscire a nascondere la sorpresa.
Lui in risposta le afferra il polso e la fa alzare, attirandola a sé bruscamente. « Non ha servito ai tavoli » le dice tra i denti, mentre raggiungono le altre coppie. « Forse è addetto alle pulizie finali o è stato messo in cucina a lavare i piatti. Se entro la fine della canzone non l'abbiamo individuato lo aspettiamo all'uscita e continuiamo con il nostro piano. »
Eleanor annuisce, guardandosi intorno. « Già. Stanotte o mai più. »
Alistair la attira di nuovo a sé passandole un braccio dietro la schiena. Lei invece si aggrappa al suo collo, e con la mano libera stringe la sua. Cominciano a muoversi contemporaneamente verso destra, usando gli stessi passi incrociati, a pochi respiri l'uno dall'altra, le dita di Alistair che sfrigolano sulla sua pelle, nella curva lombare. La gonna semitrasparente dell'abito ondeggia tra le loro gambe, in sinergia. Tacco sul pavimento, cambio di direzione, una piroetta improvvisa.
Nonostante i lunghi mesi trascorsi insieme Alistair riesce ancora a coglierla alla sprovvista. Non è un esperto, ma se la cava. La guida, quasi con prepotenza, in ogni sua mossa, e senza mostrarsi troppo innaturale getta delle occhiate alle sue spalle, sempre vigile, sempre determinato.
La gente comincia a guardarli. Soprattutto le persone che non si sono alzate dai tavoli, hanno piantato gli occhi sulle loro figure eleganti più eleganti di tutti quei borghesi, e non per il prezzo dei loro vestiti. Sono raffinati e ultraterreni, divinità scese in terra per qualche mero attimo di masochismo. Danzano e fanno sparire gli altri. Resta solo la musica: in particolare gli archi, via via più alti, rappresentanti della drammaticità intessuta nel sottofondo di quella scena.
Nessuno, tra loro, immagina di star contemplando con estasi due assassini.
E anche se lo sapessero... non li ammirerebbero lo stesso, nel profondo, al di là delle dita puntate e delle parole di costruita, obbligata giustizia sociale?
Eleanor si lascia trasportare da quelle note orgiastiche, così tanto che per qualche istante crede di essere finita in una nuova dimensione, calda e ferocemente accogliente, fatta di volti senza volto, di due braccia che la tengono forte, di luce solida, mentre i piedi proseguono in quella danza senza sofferenza. Sarebbe un bel momento, si dice, per morire, per morire per sempre.
La giacca di Alistair sotto le dita, il suo respiro familiare, la sua presa salda - se si lasciasse andare, adesso, lui non la farebbe cadere - però la riportano alla realtà. La sua presenza è troppo incombente per essere dimenticata o sfumata insieme a quella di tutti gli altri sconosciuti esseri umani. Ciò che stanno per fare è troppo importante per essere surclassato da qualsiasi altro bisogno.
In un altro momento, nella stessa situazione, Eleanor gli avrebbe chiesto di ucciderla. Davanti a tutti, sì, in qualche modo. In qualche modo spettacolare. Tanto poi mi risveglierei. Una fontana di sangue zampillante, lei, che suscita orrore e raccapriccio nei presenti, quello stesso sangue sulle loro facce, sulle loro posate, sulle chitarre e le fisarmoniche e i violini che forse non smetterebbero nemmeno di suonare. Tutto quello è una necessità curiosa che si costringe a reprimere.
E la repressione, forzata e indigesta in quanto la morte è diventata quasi una dipendenza, avviene più facilmente, automaticamente, di quanto avesse sperato: a sollecitarla è un guizzo del suo stesso sguardo, verso una chioma di capelli maschile castano chiaro che oltrepassa una delle colonne che reggono il secondo piano del ristorante e che poi, come se fosse stata un'allucinazione, scompare.
Eleanor s'irrigidisce. I suoi passi incespicano e Alistair capisce e, attento, pronto, volta subito lo sguardo nella sua stessa direzione. A trovare gli occhi di lui, però, è solo l'immagine della colonna.
« L'hai visto? » le chiede.
La musica non si ferma, altre coppie continuano a danzare intorno a loro. Qualcuno li guarda, di nuovo. Perché si sono fermati lì in mezzo?
« Era lui. » Ne è spaventosamente sicura. L'ha riconosciuto per i capelli - lo stesso, disordinato taglio - e il fisico longilineo. È più alto di Alistair, ma molto più magro. Qualcosa nei suoi tratti colti di sfuggita, la linea delle spalle, la curva dei polpacci, le ha fatto capire che Ivan Radivilov è lì, a qualche metro da loro, che è lui, è lui.
Alistair la porta in disparte. « Ne sei sicura? »
« Sì. »
« Bene. » Fa una pausa, un sospiro profondo. « Vai in quel punto e aspetta che passi di nuovo. Non bloccarti. Fa' tutto ciò che ci siamo detti. »
« Sì. »
Il suo corpo si muove quasi spontaneamente in quella direzione. Lascia Alistair alle proprie spalle, ma smette di guardarsi indietro. È subito come se Alistair non esistesse più. Lui non è più la sua vittima. Ora ne ha una nuova, sebbene antica, e non può lasciarla andare. Non può esitare.
Raggiunge la colonna poco lontana e scorge in fondo a destra, oltre l'uscita di sicurezza, le due porte che conducono alle cucine. Non fa nemmeno in tempo a soffermarcisi, che Ivan Radivilov ricompare da una di queste, con una divisa da lavapiatti leggermente sporca di unto sul torace. È rilassato e tiene una sigaretta spenta tra le dita. Probabilmente ha chiesto una pausa o si è dato il cambio con un collega.
Il cuore di Eleanor quasi le esplode nel petto, le orecchie le ronzano a tal punto da diventare sorde a qualsiasi altro suono estraneo ai propri battiti e al proprio respiro irregolare, suoni interni, musica di se stessa, di un nuovo, decisivo omicidio da compiere. L'eccitazione e la paura sono imparagonabili a tutte le volte in cui ha pensato di averle provate.
Alistair che le spara in camera sua. Cancellato.
Alistair che la porta via nelle Highlands. Cancellato.
Le notti di urla, di pianti, di voglia di vendetta. Cancellate.
Quel momento è tutta la sua vita.
Avanza di qualche passo, e lo chiama, con una stonata vibrazione nella voce: « Ivan. »
In un primo momento Ivan sembra non riuscire a credere che l'abbia chiamato proprio lei, quella ragazza elegante in mezzo al corridoio tra le cucine e la sala, ora curiosamente vuoto. La guarda con uno sguardo interrogativo, senza averla riconosciuta.
Eleanor avanza di qualche altro passo, la gonna dell'abito le ondeggia tra le caviglie. « Sei Ivan Radivilov? » gli domanda, per non allarmarlo subito.
« Ci conosciamo? »
Non sa bene cosa rispondere. Si è immaginata tante di quelle cose da potergli dire che ora la sua mente si è svuotata. Non sa nemmeno individuare degli insulti che possano ferirlo.
Insultarlo? Insultarlo è troppo poco, troppo stupido. A cosa servirebbe?
Le sembra stupido anche mentirgli adesso. Lui deve temerla. Deve essere terrorizzato da lei. Deve rimpiangere il suo stesso essere al mondo. « Non so se ti ricordi di me. » Ancora quella maledetta vibrazione nella voce che la fa sembrare una maledetta cerbiatta indifesa. Lei vuole essere un predatore.
Si è avvicinata tanto a lui. Pochi metri li separano. Pochi attimi. Incredibile che non senta le stesse sensazioni di quando si avvicina ad Alistair. Quella vendetta non è guidata dal risveglio, quella vendetta è sua e basta. Umana. Orribilmente umana. Non sente una connessione con lui, solo l'immensità di una rabbia che ha sopito per troppo tempo e che stranamente sta riuscendo a domare. Perché lei è diventata forte. Perché quei mesi con Alistair l'hanno resa indistruttibile.
« No, non credo... »
« Ma come? »
Sa che Alistair è da qualche parte, indietro, ad origliarli. Sa che sta seguendo la scena, è fondamentale per i loro piani. Eppure vorrebbe essere completamente sola con lui. Non ha paura di Ivan, del resto, quanto più di essere scoperta... ha paura che la vendetta e il piacere di ucciderlo le siano sottratti.
« Guardami bene » aggiunge. « Non puoi avermi dimenticata. »
È in quel momento che lui si sofferma davvero sul suo viso, osservando inconsapevolmente le cicatrici invisibili che le ha inflitto: dei lineamenti gentili, puliti, ma rovinati da occhi così contaminati che lo intimoriscono per un istante. « In effetti mi ricordi... »
« Sono Eleanor Gayre. La ragazza che hai stuprato ormai cinque anni fa. »
Dirlo ad alta voce ha un effetto rigenerante. La vibrazione del tono è scomparsa. Ha ignorato volutamente il suo vecchio nome. Ivan dovrà ricordarsi di Eleanor, non di Nadja.
Lui irrigidisce la mascella e sbianca visibilmente. La sigaretta gli cade dalle dita arrossate dal detersivo per piatti. « Eleanor. » L'ha riconosciuta. « Certo... t-ti ricordavo con i... con i capelli rossi. »
Eleanor agisce d'istinto. Si toglie immediatamente la parrucca e la retina, rivelando la coda di cavallo rossa che ora le penzola sulla nuca. Questa mossa non era prevista. Ma non ha importanza.
Il riconoscimento, così, è davvero completo.
« Cosa vuoi? » le chiede lui tra i denti. « Sei venuta per minacciarmi? Cazzo, sei venuta apposta... la parrucca... Aspetta... aspetta, ma non eri scomparsa? Ti ho vista al telegiornale. Non mi dire che sei scappata da mammina e papino. »
« Devi venire con me sul retro. »
« Senti, sto lavorando. Possiamo parlare dopo il turno da persone civili. »
« No, devi venire adesso, se non vuoi che mi metta a urlare che mi stai molestando. Vedrai come lavoreresti dopo, da licenziato. »
Lui tentenna.
Eleanor si sente improvvisamente investita da una determinazione calcolata. L'adrenalina è sempre viva e bollente nelle sue vene, ma riesce a controllarla.
« Ma non possiamo parlare qui? »
« No. »
Ivan si passa una mano nei capelli e impreca sottovoce. Come comportarsi, del resto, quando la persona di cui hai abusato si ripresenta dopo qualche anno al tuo cospetto, con tanta ostinazione, per parlarti? « D'accordo. Ma ho solo cinque minuti. »
Oh, basteranno, credimi.
« Fammi strada » ribatte lei, allora, tenendo ancora stretta la parrucca in pugno. Lui raccoglie la sigaretta da terra prima di accompagnarla all'uscita di emergenza, che dà sul retro del teatro.
Quando la pesante porta si richiude, si ritrovano sui gradini che conducono al parcheggio. Eleanor sente un leggero brivido di freddo percorrerle la schiena lasciata nuda dal vestito. Dalle vetrate della struttura le luci gialle e arancioni della cena illuminano le loro sagome nella notte. Forse dentro stanno ancora danzando.
Eleanor adora il fatto che le persone siano così ignare. La fa sentire potente. Paranoica, anche, perché non vuole essere scoperta: ma ciò che conta è che lei è la regina del proprio mondo.
« Allora? Quali sono le tue minacce? » domanda Ivan accendendosi la sigaretta. « Se avessi voluto denunciarmi l'avresti già fatto. »
Eleanor lancia uno sguardo alla porta, prima di tornare a concentrarsi sul ragazzo. Presto Alistair sarà lì. « Voglio solo chiederti una cosa. L'hai fatto perché mi trovavi desiderabile? »
Ivan non riesce a sostenere né i suoi occhi né le sue parole e si muove nervoso, picchiettando ogni tanto il filtro della sigaretta per far crollare la cenere. Aspira e rilascia il fumo, a ripetizione. « Ero fatto, quella sera. È questa la verità. E mi servivano i soldi per pagare altra roba. Eroina, ok? » comincia a spiegare, alzandosi le maniche della divisa per farle vedere i lividi violacei nella piega dei gomiti che vanno scomparendo. « Sto cercando di smettere. Sono stato in riabilitazione. Ero venuto dall'Ucraina con qualche amico per cercare lavoro, ma ce la siamo vista brutta. »
« Non m'interessa perché sei venuto. Perché me? Perché mi hai fatto... quello? »
« Ero fatto, te l'ho detto. Non capivo niente. Ricordo a stento gli eventi precisi... ricordo solo che avevo voglia di scoparti, eri così spaventata... »
Eleanor si accorge che le sono spuntate delle lacrime tra le palpebre. Non vuole piangere per quello che le sta raccontando, lo ricorda fin troppo bene da sola - adesso che l'amnesia è sparita. Vuole piangere perché... non sa bene perché. O forse sì. Ivan non le ha rovinato la vita perché era ossessionato dalla sua persona, dal suo corpo, dalla sua verginità. Per lui non contava niente. Era solo un drogato violento, come tanti altri. La sua vita è stata rovinata da una persona insignificante, come tante altre. Un inetto che combatte per vivere in ortodossi metodi eterodossi. Gli servivano i soldi, gli serviva l'eroina, gli serviva il suo grembo per soddisfare la lussuria di quel momento. Anche il ricatto che le aveva fatto ora le appare privo di senso, a tratti grottesco. Lei era stata così ingenua da rendere il suo scarso potere su di lei immenso, oceanico. Il suo cervello incrinato aveva ceduto alle sue parole. Semplicemente perché sapeva che prima o poi qualcuno l'avrebbe cercata e punita per la morte di una bambina.
E guai, in questo mondo, se tocchi i bambini. Anche se diventeranno pessimi adulti. Anche se sei tu stessa bambina.
Oh, la paranoia, la sua migliore amica, che la accompagna da sempre, anche se di fatto Eleanor non è mai stata scoperta da nessuno. La paranoia, c'è da dire, insieme a un ego spropositato.
Anche in quella violenza, lei aveva creduto di essere importante.
L'unico che invece le ha davvero dato importanza è Alistair. È sempre stato lui. Lui e solo lui. Non creerà mai quella connessione con qualcun altro. Per un attimo ha persino sperato che Ivan possa risvegliarsi... ampliare quella follia, non ci sarebbe stato nulla di più perfetto.
Alistair le ha fatto del male per un motivo. Meritava di ricevere la sua vendetta. Così come l'ha meritata lui, tutte le volte che è morto.
« Allora non posso dire alla polizia che ti ho vista? Sei scappata? »
Eleanor si asciuga le lacrime prima che possano cadere, come se avesse qualcosa in un occhio. Non vuole che lui la veda così debole, ancora una volta.
Si ritrova le nocche imbrattate di mascara. Perché si è truccata? Ha sempre odiato truccarsi.
La sua rabbia si è improvvisamente sciupata. Vuole ancora ucciderlo. Ma non ne ha le forze. Si pente di aver pensato che l'omicidio di Ivan possa cambiare la sua vita. È consapevole, già da ora, che non cambierà niente. Si pente di avergli dato tanta importanza, di averne tolta ad Alistair.
Prima che possa rispondere, Alistair compare dalla porta sul retro puntando la sua pistola sul ragazzo, che si gira di scatto verso di lui quando sente la canna appoggiarsi tra le scapole. « E questo chi cazzo è? » esclama con un tono subito più acuto.
« Il proprietario della ford focus che hai rubato » replica lei laconicamente. Sa già che Alistair non vuole parlargli. Si scambiano un'occhiata d'intesa. Ivan non immagina nemmeno cos'hanno passato.
« Non l'ho rubata io! » protesta lui, fissando la pistola e tremando. « È stato Fedor, io l'ho solo usata un paio di volte! E poi qualcuno degli altri l'ha rottamata... »
Non provare a giustificarti.
Non parlare.
Non urlare.
Abbiamo già deciso che devi morire.
Eleanor cerca di trarre un respiro più profondo. « Hai paura solo di lui, allora? » È delusa. Si è dimostrato spaventato solo da un uomo armato, da un suo pari. In realtà, è di lei che deve avere paura. « È di me che devi avere paura. »
Minacciato dalla pistola, lo costringono a raggiungere la macchina con cui sono venuti a teatro, parcheggiata lì, anonima, in mezzo alle altre, mentre la sigaretta gli cade di nuovo sull'asfalto.
*
« Non dovremmo tornare in albergo troppo tardi. » Si sfila il vestito con la stessa cura con cui l'ha indossato e lo appoggia sul tavolo da lavoro di legno ruvido del magazzino. Il vestito stesso non le ha permesso di indossare un reggiseno per la profonda scollatura sulla schiena: resta così, seminuda, di fonte a due uomini, mostrandosi senza vergogna alla luce di una lampadina giallastra e tremolante. Non avrebbe mai pensato, qualche anno prima, di poterlo fare con tanta disinvoltura. « Sarebbe... non so, sospetto. »
« Non importa. Basta non farci ritrovare coperti di sangue. » La voce di Alistair è monocorde. È concentrato su ciò che sta facendo, anche se i versi disperati di Ivan che si agita appeso al soffitto potrebbero star mettendo a dura prova la sua pazienza.
La bocca è silenziata da due strati di nastro adesivo. Mani e piedi sono legati da delle corde: quella delle mani è stata collegata a un gancio che Alistair aveva preparato sul soffitto qualche giorno dopo aver affittato quel magazzino, nella zona industriale di Londra, desolata a quell'ora.
Alistair è ugualmente seminudo. Indossa solo dei boxer scuri ed Eleanor vede i suoi muscoli contratti, in tensione per il freddo e per la situazione. È convinta che se non ci fosse stata lei, non avrebbe agito in questo modo. Arriva alle sue spalle e si avvolge intorno al suo braccio destro, baciandogli la pelle tesa sopra il bicipite. È il suo modo di ringraziarlo.
Lui la guarda da sopra la spalla per un secondo, corrugando le sopracciglia. « Sei stranamente tranquilla. »
« Alistair, è... diverso da quello che succede a noi » gli sussurra. « Non c'è dolore, non c'è bisogno fisico. Dobbiamo farlo perché è giusto. »
« Non credo sia giusto. »
« Non pensare come penseresti nella società. Pensa a noi due, nelle Highlands. Pensa a me. Hai detto che sono rimasta l'unica cosa importante della tua vita. »
« È così. »
Ivan manda altri mugugni soffocati dal nastro adesivo, dimenandosi invano.
Alistair si libera presto dalla presa gentile di Eleanor. « La tua è nell'angolo vicino al tavolo » dice, alzando la propria motosega elettrica.
« Ok. »
Eleanor è un fantasma nella penombra avvolto dalla puzza di benzina; muove qualche passo in direzione di quell'arma tanto spaventosa, trascinando i piedi nudi sul pavimento umido. La raggiunge e la raccoglie, soppesandola. È più piccola e leggera di quella di Alistair, con l'impugnatura rosso acceso e la barra di guida più sottile. Osserva la catena tagliente, ancora immobile, e ci passa due dita sopra, senza ferirsi.
Prima di azionarla, si avvicina a Ivan, che ha il volto inondato di lacrime e sudore freddo. Sembra supplicarle qualcos'altro, ma le sue parole sono indistinguibili. Nemmeno le ascolterebbe, del resto. Lui si arrende nella sua smania di liberarsi, non tocca neanche con i piedi a terra. Piange più disperatamente, con i capelli che gli cadono ai lati delle tempie e sulle guance ispide. Le sta chiedendo scusa? Le sta augurando una fine tremenda?
« Sai, alla fine credo di doverti ringraziare » gli dice, con la testa all'altezza del suo petto. Lui la guarda finalmente negli occhi. E lei si scopre a non provare alcuna pietà. Sociopatica senza cuore. « Grazie per avermi fatta crescere... in tutti i modi in cui si possa crescere. Grazie a te non sono più un'ingenua ragazzina che è uscita da un orfanotrofio. Grazie a te sono immortale. »
Gli strappa via il nastro adesivo dalle labbra e lo bacia alzandosi in punta di piedi. Delicatamente, dolcemente. Più crudele di ogni insulto, più crudele persino della morte.
Quando si separa da lui, Ivan biascica qualcosa in ucraino. E il suo nome, che non è più il suo nome: « Nadja... » Trascinato, avvilito, incredulo.
Eleanor gli rimette il nastro adesivo sulla bocca. Alistair la sta guardando. Poi, le fa cenno di cominciare. Si sta facendo tardi.
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