XXVIII. Alice in Wonderland
Note d'autrice: ho faticato a far nascere questo capitolo, da come si sarà capito dalle tempistiche di aggiornamento. Il punto è che ci tenevo a renderlo esattamente come me l'ero immaginato... e non è stato facile.
Finalmente la Verità.
Era ciò che avevate immaginato? Vi aspetto nei commenti ♥
Grazie ancora per tutto il vostro supporto.
Folie à Deux
XXVIII.
Alice in Wonderland
« Non è giusto che tra tutti abbiano deciso di prendere proprio te! Tu sei il diavolo! »
La bambina con i capelli rossi gonfiò le guance e le si avvicinò di un paio di passi. Non aveva paura di lei. « E tu sei solo invidiosa. Non ti vogliono perché hai già undici anni e perché sei più brutta delle altre. »
Kateryna Buryak - questo, il suo nome completo, da Buryak padre che non l'aveva voluta, dallo stesso Buryak padre che aveva indotto la madre della neonata al suicidio, lo stesso di cui non ricordava nulla e di cui eppure sapeva tutto, perché le voci circolano e arrivano anche alle orecchie di chi dovrebbe restare ignaro - non ebbe la reazione che l'altra si aspettava. Lei era la più brava, la più diligente, la più precisa, la più puntuale, la più ordinata, la più responsabile, la più brillante bambina dell'orfanotrofio. Ma di certo non era la più bella. La bambina con i capelli rossi aveva puntato sulla più grande debolezza: era alta, troppo per la sua età, minuta come un giunco, con il viso schiacciato e lo spazio tra i denti. La sua debolezza era la non-bellezza, la perfezione non raggiunta, l'essere migliore in un contesto in cui non importava niente e, infine, la solitudine.
Le suore l'avevano cresciuta bene. Prega, fai i compiti, credi in Dio, mangia molte verdure, vinci le partite di pallavolo, va' a letto presto, non dire bugie, non pensare alle impurità, puoi fare la capoclasse, controlla che gli altri bambini facciano i bravi.
Controllare la bambina con i capelli rossi era il suo passatempo preferito, perché faceva sempre qualcosa di sbagliato e doveva sempre essere punita. Una volta aveva visto una delle educatrici alzarle la gonna e sculacciarla.
Kateryna Buryak, alle sue parole cattive, senza nemmeno esitare, la spinse con forza contro la ringhiera, facendole perdere l'equilibrio.
La bambina con i capelli rossi cadde all'indietro e precipitò dal tetto dell'orfanotrofio.
Rumore di ossa, di carne e di sangue: splash, nel cortile sul retro.
La bambina con i capelli rossi non capì cos'era accaduto. Sbatté le palpebre e rinunciò a gridare quando scoprì che tutto quel dolore che le aveva strizzato le membra si era completamente dissolto.
Si sentì più leggera, come se stesse nascendo di nuovo: non da un ventre materno, ma da se stessa. Genitrice di se stessa. Natura che si ricomponeva.
Per qualche assurda ragione, seppe prevedere cosa stava per succedere. Vide Kateryna avanzare bruscamente verso di lei per spingerla e si scostò d'istinto, alle sue spalle, prima che l'acciuffasse.
Fu la bambina con i capelli rossi, questa volta - la seconda volta? -, a spingerla contro la ringhiera. La forza non fu nemmeno necessaria, Kateryna aveva perso l'equilibrio, era troppo alta e la ringhiera troppo bassa per lasciar giocare dei bambini sul tetto.
Urlò, quando cadde nel vuoto sotto di lei.
La bambina con i capelli rossi sentì, lontano, un rumore di rottura.
Si affacciò e, senza nemmeno sapere perché, le sue labbra si incurvarono verso l'alto.
E si sentì, di nuovo, incredibilmente, vittoriosamente, più leggera.
Quella sensazione di leggerezza durò poco.
La bambina si estraniò subito e cominciò a pensare a se stessa in terza persona. Cos'ha appena fatto? E perché non è spaventata?
« Ehi... Nadja... »
Si voltò di scatto verso il suono di quella voce. Non si era accorta che qualcuno era entrato dalla porta tramite cui si poteva accedere al tetto. Del resto, Kateryna l'aveva lasciata aperta.
Quel qualcuno aveva assistito alla scena.
Quel qualcuno era Ivan.
La bambina con i capelli rossi trattenne il respiro. Era certa, più certa che mai, che avrebbe pagato per quello che aveva fatto. Era certa che lui avrebbe riferito tutto alle suore. E lei non sarebbe stata più adottata. Sarebbe stata picchiata, cacciata, lasciata sulla strada al freddo.
Cominciò a piangere, meccanicamente, a quella consapevolezza, a singhiozzi, cadendo a terra in ginocchio.
Ivan Radivilov - questo, il suo nome completo, da Radivilov padre mai conosciuto e da madre tossicodipendente, dalla stessa madre da cui i servizi sociali lo estirparono, dagli stessi servizi sociali da cui scappò all'età di undici anni cominciando a rubare ai turisti di Odessa, una città così grande e così lucente, dove infine suor Ruslana lo trovò - le si avvicinò con una strana espressione, turbata e determinata al tempo stesso. « Che cosa hai fatto, Nadja? »
« I-io... n-n-non... non v-v-vo-volevo » balbettò tra i singhiozzi, impazzita in quelle lacrime bugiarde che non riusciva più a fermare.
« Lo so » le disse Ivan, circondandole le spalle minute con un braccio. « Vieni, alzati. Dobbiamo andare giù. »
Giù. Giù dalle suore.
La bambina cominciò a piangere ancora più ferocemente e quando Ivan provò a tirarla su protestò, dimenandosi con tutte le proprie forze.
« No, vieni, vieni con me. Ti prometto che non dirò niente a nessuno. Dirò che è stato un incidente. Anzi... faremo finta di nulla, come se non avessimo visto niente. Forza, alzati. »
La bambina non voleva fidarsi di lui. Sapeva che avrebbe detto tutto alle suore prima o poi. Tuttavia, capì che non poteva restare lì a terra. Se c'era una possibilità di farla franca, doveva scendere con Ivan e insieme agli altri bambini, che in quel momento si stavano riversando in cortile, con le suore e gli educatori.
Sentì delle urla e si convinse ad alzarsi quando si rese conto che tra poco qualcuno sarebbe salito sul tetto a controllare.
Smise di piangere presto.
Ivan, dall'alto dei suoi sedici anni, la prese per mano e la incitò a scendere le scale di corsa. Gradini, gradini, quarto piano, terzo, secondo...
« Vai, Nadja, corri in cortile! » le disse a un certo punto, separandosi da lei. « Tu fa' come gli altri bambini, come se non sapessi cos'è successo. Io farò finta di arrivare dal mio dormitorio. Corri! »
La bambina con i capelli rossi non se lo fece ripetere e corse, corse, corse e infine arrivò al cortile, spuntando un po' ritardo, ma nessuno si accorse di lei.
Tutti gli occhi, terrorizzati, tristi, spalancati, curiosi, sconvolti, erano puntati su una Kateryna informe in mezzo al prato, che ricambiava il loro sguardo fissando il vuoto che gli altri non vedevano.
Anche la bambina con i capelli rossi la osservò per un po'. Lei era viva e Kateryna no. Lei aveva il potere di rendere una cosa viva non più viva.
« Bambini! Tornate dentro! » urlò un'educatrice, trascinando via uno dei più piccoli per il polso.
Perché non dovevano vedere?
La bambina con i capelli rossi non riusciva a capirlo.
Capì, però, che nessuno avrebbe mai ricondotto l'accaduto a lei. Nessuno credeva che potesse arrivare a tanto, la piccola Nadja. Era al sicuro finché Ivan Radivilov non avesse parlato.
*
« Una firma qui, signor Gayre, per favore. »
Suor Ruslana sedeva dietro la propria scrivania insieme a un'assistente sociale che l'aiutava a tradurre in inglese. Di fronte a loro, i nuovi genitori della bambina con i capelli rossi, composti sulle sedie, vestiti di abiti semplici ma evidentemente costosi.
La bambina era in piedi e in disparte. Ascoltava tutto senza dire una parola, perché non aveva idea di cosa stessero dicendo. Osservava attentamente ogni particolare, ma era catturata soprattutto dalla figura della mamma: la gonna, le rughe sottili intorno ai suoi occhi, il modo elegante di tenere le mani intrecciate, il rossetto rosato, i capelli di un biondo spento che le sfioravano le clavicole. Le avrebbe voluto bene?
Il papà firmò una serie di documenti chiacchierando pacatamente con la suora.
« Nadja sembra una bambina così dolce. »
Erano felici di adottarla?
« Lo è. Un piccolo angelo mandato dal Signore. »
Lo sapevano, che in quel posto non vedevano l'ora di liberarsi di lei?
« Sa, abbiamo aspettato tanto... »
Parlavano di lei come se non fosse presente. Come se fosse sorda.
Lei non era sorda. Semplicemente, non conosceva l'inglese. Aveva voglia di piangere. Come avrebbe fatto, una volta in Scozia? La sua vita stava per cambiare e improvvisamente tutto le faceva paura, nonostante fosse quello che aveva sempre desiderato.
Suor Ruslana sorrise. « Dio premia sempre chi sa aspettare. »
Parlarono ancora per un po'.
La bambina con i capelli rossi si stancò presto di provare ad ascoltarli. Guardò fuori la finestra, osservando quello scorcio di cortile che costituiva l'unico panorama possibile. Ricordò l'esatta posizione di Kateryna Buryak caduta dal tetto. Ricordò il sangue intorno alla sua testa, appiccicato tra i capelli e tra i fili d'erba. Ricordò di come era scivolata all'indietro dalla ringhiera.
Era scivolata? No, in realtà non lo ricordava più.
E lei che ci faceva, esattamente, sul tetto?
Era stato un incidente.
« Ho sentito che c'è stato un incidente con una bambina, il mese scorso. »
Suor Ruslana si fece il segno della croce, con gli occhi lucidi. « Una delle nostre bambine più sveglie e responsabili... poteva essere lei, vostra figlia. Abbiamo cantato una canzone popolare al suo funerale... si sono commossi tutti. »
Il papà annuì mestamente.
Altre parole incomprensibili, in cui intervennero quelle dell'assistente.
L'assistente poco dopo si accostò alla bambina, parlandole nell'unica lingua che conosceva. « Nadja, è quasi tutto pronto per partire. I tuoi genitori volevano sapere se ti piacerebbe cambiare nome. Potresti avere un nome inglese come loro. Potreste sceglierlo insieme, se non ne conosci nessuno. »
Nadja... chi è Nadja, dopotutto? Nadja non esisteva, era una bambola di porcellana dimenticata in quelle mura da qualcuno che non aveva più voglia di giocare con lei.
« Sì... »
*
Quel giorno le faceva incredibilmente male la testa.
Le sembrava di avere uno spillo piantato tra le tempie. Stava cominciando a pensare di soffrire di emicrania.
La campanella della prima ora non fece che accentuare questo suo malessere. S'incamminò per il corridoio verso la lezione di letteratura inglese con un'espressione stanca e nervosa, tenendo la cartella in bilico su una spalla e, sottobraccio, il suo Alice nel paese delle Meraviglie, concluso quella mattina prima di colazione.
Fu una delle prime a entrare in aula e prese posto al solito banco laterale della seconda fila, vicino al mappamondo. Una volta seduta e senza cappotto, si aggiustò la gonna blu della divisa scolastica. Il resto dei suoi compagni si riversò in classe in un fitto chiacchiericcio, senza badare molto a lei. Del resto, Eleanor non aveva fatto amicizia con nessuno in quel corso.
Si appoggiò con i gomiti al banco e si massaggiò le tempie. Il professore non era ancora arrivato. Di norma sarebbe stata molto più entusiasta per la lezione imminente, perché Carroll era un autore che aveva esercitato su di lei un certo fascino, ma il mal di testa non la aiutava a concentrarsi.
In quel momento avrebbe voluto che tutte le voci e tutte le facce sparissero. Voleva stare da sola. Sola con il silenzio.
Immaginava che il professore le avrebbe fatto qualche domanda e si preparò già a giustificare una sua eventuale e non brillante risposta: so di essere sempre impeccabile in questa materia, ma non mi sento proprio bene, mi dispiace. Arrogante, ma sincera.
I suoi voti nelle altre materie erano discreti, ma in letteratura rasentavano l'eccellenza. Un giorno le sarebbe piaciuto studiare lettere all'università. Era l'unica certezza che aveva sul proprio futuro.
Il professore era in ritardo.
Eleanor tirò il cellulare fuori dalla borsa per controllare l'orario, ma si accorse di non aver spento la connessione dati. Non fu l'icona a segnalarglielo, bensì l'unica notifica che le spuntava sullo schermo, con l'anteprima di un messaggio facebook.
Il cuore cominciò a battere selvaggiamente nella sua piccola cassa toracica quando Eleanor riconobbe i caratteri cirillici. E il nome, in alto. Ivan Radivilov.
"Ciao, Nadja, spero davvero che tu ti ricordi di me. Mi piacerebbe molto parlarti... dal vivo, visto che sono a Londra! Che ne dici di vederci per un caffè?"
Presentarsi a quell'appuntamento fu la peggiore delle idee che potesse venirle in mente.
Era un mercoledì pomeriggio, un tranquillo mercoledì di fine gennaio, distante pochi giorni dal suo compleanno. Fu in quel giorno che la sua vita si accartocciò su se stessa: dalla stasi, un'improvvisa, inaspettata e rapida discesa verso l'abisso.
Eleanor sapeva che non ci sarebbe dovuta andare. Era una sensazione, un presentimento, un ronzio nelle orecchie. Non - ci - andare.
Non seppe mai cosa la spinse a ignorare quell'avvertimento della propria indole paranoica. La curiosità, probabilmente, la stessa curiosità che aveva spinto Alice a seguire il Bianconiglio giù nella tana.
Quando arrivò alla caffetteria vicino ad Hyde Park che gli aveva consigliato per messaggio, Eleanor non si stupì di trovarlo già lì, ma ne rimase comunque turbata. La stava aspettando. Aveva urgenza di parlare con lei. Faccia a faccia.
Era seduto a un tavolino rotondo di legno scuro accanto alla vetrina e appena la vide la salutò con la mano da dietro il vetro.
Entrò in quel locale caldo che profumava di caffè e cioccolata, con la pelle della nuca accarezzata da un guanto invisibile d'ansia. Il piccolo campanello della porta tintinnò.
Ivan le sorrise.
« Oh, Nadja, guardati! » Si alzò dalla sedia e le afferrò le spalle dolcemente. « Quanto sei cresciuta! Ora hai... quindici anni? »
« Li compio domenica. »
Le parole le uscirono più fredde di quanto avesse messo in considerazione.
Alzò gli occhi sul ragazzo e squadrò il suo viso. Anche lui era cresciuto: il fisico alto e smilzo non era cambiato, ma i suoi tratti erano diventati decisamente più adulti. C'era qualcosa, nella sua fisionomia spigolosa, che lo rendeva attraente. Qualcosa, nel suo modo di stare in piedi. Qualcosa... qualcosa che, inspiegabilmente, la inquietava. I capelli biondo scuro erano un po' unti e gli scendevano in ciocche filiformi fino alla mandibola. Il cappotto di renna che indossava era vecchio, forse acquistato in un negozio dell'usato. L'alito emanava un pungente odore d'erba.
E le mani... Le dita, le dita che affondavano nelle sue spalle e non si erano ancora staccate.
Le venne voglia di correre via, ma alla fine si sedettero entrambi al tavolo, uno di fronte all'altra.
Parlarono per un po' del più e del meno, ordinarono un caffè americano per lui e una cioccolata calda per lei. Il resto dei tavoli era occupato da persone serene che chiacchieravano pacatamente.
« Avresti mai pensato che ci saremmo rivisti, Nadja? »
« Mi chiamo Eleanor adesso » precisò lei, più di una volta nel corso di quella conversazione, ma Ivan non adottò mai il suo nuovo nome, come se non l'avesse nemmeno ascoltato.
Il disagio di lei crebbe senza picchi, in una curva larga, insinuandosi teneramente.
C'era... c'era qualcosa... nella sua voce, nelle sue parole, nel suo insistente sorriso amichevole.
E, infine, arrivò al punto. « Mi dispiace chiedertelo, Nadja, ma mi servirebbero dei soldi. »
Fu quasi un sollievo scoprire che non si era sbagliata: non avrebbe dovuto presentarsi. Le gambe le si fecero molli. « Cosa? »
« È successo un casino. Sei la mia ultima speranza. Tanto sei ricca, adesso, no? »
« Ma... quanto? »
« Per adesso mille sterline. »
« Per adesso? »
« Ti prometto che te li restituirò. Devo solo... pagare dei tizi. Non posso spiegarti. »
« E io non posso darteli, mi dispiace. » Si alzò e indossò il cappotto velocemente, senza nemmeno finire la cioccolata.
Stava per allontanarsi, quando Ivan ribatté: « Non andartene. Dobbiamo ancora parlare di Kateryna. »
« Io non ho niente da dirti. »
« Oh sì, invece » disse lui, con un piccolo ghigno nervoso. « Se non vuoi collaborare farò in modo che si venga a scoprire la verità su Kateryna Buryak: spinta dal tetto da una bambina di nove anni, una bambina che ora è stata adottata e si fa chiamare Eleanor Gayre. »
Ad Eleanor si ghiacciarono i pensieri. Non poteva farle quello. Non poteva farle quello! Era stato in silenzio per sei anni, perché proprio adesso? Perché parlare? Perché farle del male così, dopo che aveva provato a guadagnarsi uno spiraglio di felicità?
Eleanor uscì dal locale di corsa, il campanello tintinnò di nuovo, la porta sbatté.
*
Si era fidata di lui, sei anni prima, e aveva sbagliato. Si era fidata di lui. Si era fidata di lui. Si era fidata di lui. Si era fidata di lui. Si era fidata di lui. Si era fidata di lui. Si era fidata di lui. Si era fidata di lui.
Ingenua. Stupida.
Si cancellò da qualsiasi pagina internet esistente, per non ricevere più suoi messaggi. L'aveva minacciata così tante volte, nei giorni successivi all'incontro in caffetteria, che ne aveva perso il conto.
"Nadja, rispondi!"
L'avvicinò fuori scuola, un paio di volte, ma lei riuscì a nascondersi tra la gente.
Un'altra volta lei scoppiò a piangere nei bagni per la tensione.
Tutto quello la stava indebolendo.
Ivan la stava indebolendo.
E quando si verificò la sua assenza - una meravigliosa, sonora assenza - per più di un mese, Eleanor pensò di essersi liberata di lui. Non poteva parlarne con nessuno perché le minacce di rivelare ciò che era accaduto sul tetto dell'orfanotrofio pesavano ancora sulla sua schiena, ma in quel mese cominciò a pensare di non avere nemmeno bisogno, del dialogo. Avrebbe accantonato quei giorni della sua vita con un po' di volontà, così come aveva fatto con i ricordi legati a Odessa (era stata davvero lei a spingere giù Kateryna?).
E poi, e poi. Un giorno si ritrovò invischiata in un gruppo di studio per un progetto di scienze. Andò nel pomeriggio a studiare a casa di una compagna di classe insieme ad altre due ragazze. Lei fu l'unica a rimanere fino a tardi, sperando che suo padre venisse a prenderla. Ma a suo padre si era bucata una ruota della macchina. Nessun problema, chiamo un taxi, le disse a telefono.
Il taxi si fermò all'incrocio e lei dovette percorrere la via perpendicolare per raggiungerlo. Villette a schiera, zona tre di Londra, ore ventidue. Cento metri per raggiungere la salvezza.
Cento metri che non vennero mai percorsi tutti.
A metà strada, un'ombra spuntò dal cortile di una casa disabitata, l'afferrò e le premette un fazzoletto umido sul naso e sulla bocca.
Sballottata su un'auto.
Priva di sensi.
Priva di sensi a metà.
Le ruote sull'asfalto ancora bagnato della pioggia di quel pomeriggio.
Le luci dei lampioni che s'insediavano nella cortina delle sue palpebre appiccicate.
Stop.
Fermi in un vicolo, delle mani che cercavano... dove? Nello zaino, nel portafogli, sotto la sua gonna. Via il cappotto. Via la pelle. Freddo di febbraio, riusciva a stento - a stento - ad aprire gli occhi.
Una voce che arrivava ovattata, una voce che parlava in una lingua che lei, Eleanor Gayre, avrebbe voluto non capire.
E lui, poi, sintonizzato sulla sua stessa frequenza, cominciò a parlare la lingua universale, aggressiva e spietata, la violenza, il dolore, una lingua che non ha bisogno di vere parole.
Come si grida?
Spinte, spinte dentro di lei, dentro, dentro, in un'anima già annerita in principio, in un corpo fragile ma eterno.
Ah. Respiro. Ah. Respiro.
Buttata a terra tra i sacchetti della spazzatura. Puzza di marcio, puzza di alcool, puzza di ti farò pentire persino di essere nato.
Un pensiero ossessivo.
Sì, sì, sì, finché non sarà finito, finché non si sarà esaurito nella sua viltà.
E, d'improvviso, fugge via, verso l'auto.
Lei si volta piano strisciando sull'asfalto che le graffia le braccia. L'auto... c'era anche lei prima, su quell'auto? Ford focus, legge. Una targa gialla sfocata. Due lettere - due numeri - tre lettere.
*
« Ti dispiace se accendo il ventilatore? Non immaginavo facesse ancora così caldo ad agosto. »
« No, no, faccia pure. »
« Ecco, così va meglio. »
« Sì, va meglio. »
« Dunque... sono contenta che tu abbia ripreso a parlare con i tuoi genitori. Il tuo mutismo li preoccupava davvero molto. »
« Ho... ho finalmente trovato qualcosa da dire. »
« A loro non hai raccontato quello che hai raccontato a me, giusto? »
« Solo il necessario per la denuncia. »
« Va bene. Non devi sentirti obbligata nemmeno a parlarne con me. Parla solo quando vuoi. »
« Con lei non mi sento obbligata, dottoressa Munro. »
« Questo è un ottimo passo avanti. Per quanto riguarda la memoria, invece? »
« Non ricordo nulla di lui. » A cosa serve mentire, stavolta? Che ci sia un grande buco nero nella mia mente è vero. Ricordo solo: due lettere - due numeri - tre lettere. E il nome che finalmente ho ottenuto.
« Non preoccuparti. È normale per molti pazienti, rimuovere ciò che fa particolarmente male. »
« Ma io non voglio rimuovere. Io voglio ricordare. Passo le giornate chiusa nella mia stanza, a guardare il soffitto e penso a quanto... » a quanto mi piacerebbe assistere al momento in cui viene ammazzato insieme alla sua famiglia, Alistair Lane, « ... a quanto vorrei che fosse consegnato alla giustizia. »
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