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IV. La mort de Marat

Note d'autrice: Questo capitolo è stato un vero parto per me. Se volevate un assaggio della violenza presente in questa storia, qui ne avrete in abbondanza. Sarà più o meno sempre così. 
Il titolo del capitolo si riferisce al famoso quadro di Jacques-Louis David e la lettura vi chiarirà il motivo dell'accostamento (una questione puramente... grafica, diciamo, più che concettuale).
Spero davvero che diate una possibilità a questa storia e che possiate lasciarmi dei pareri sinceri su ciò che pensate, ne sarei felicissima. Da qui in poi si entra definitivamente nel vivo... e se le cose non vi sono ancora chiare, non temete, presto verrà spiegato bene tutto: l'effetto iniziale di lasciare disorientato il lettore è voluto.




Folie à Deux

IV.

La mort de Marat



Stanno parlando. Le fanno domande. La dottoressa Munro, in particolare, è quasi più invasiva del solito. Sempre con quel finto buonismo negli occhi, sempre con quel finto desiderio di volerla aiutare.

Forse il problema principale della sua vita è che Eleanor non si è mai voluta far aiutare.

Sfrega i palmi delle mani sulle ginocchia esili e guarda un punto fisso e impreciso davanti a sé per tutta la seduta. Una volta distolti gli occhi dal suo assassino, non gli ha più rivolto alcuno sguardo.

Lui, invece, continua a guardarla. Sente le sue occhiate fredde pungerle sulla pelle. Di tanto in tanto vorrebbe ricambiarle, quelle occhiate, ma si impone di riuscire a resistere.

Risponde a monosillabi. Non sa nemmeno cosa stiano dicendo o cosa stia dicendo lei. Sente il suo corpo pulsare di energia, da quando è entrata nello studio, mentre tutto il mondo fuori si è ovattato di colpo.

L'unico punto di focalizzazione resta lui.

Quell'uomo, Andrew, è il centro del suo sguardo anche se non lo sta guardando. È il centro doloroso di ogni pensiero, la causa di ogni angoscia.

Da quando è morta lui è diventato l'unico essere dell'universo. Da quando si è risvegliata lui è diventato la sua unica ragione d'esistenza.

Perché - non se n'era accorta prima di quell'incontro - Eleanor sta vivendo per ucciderlo.

Quando l'ha visto, pochi minuti prima, entrando dalla porta dell'appartamento, ha creduto che il cuore avesse smesso di pomparle il sangue nelle vene. E poi, una scarica di energia, lungo i propri arti, lungo le proprie dita. Non si era mai sentita così viva. Fino a quel momento non si era resa conto che rivederlo era diventata per lei la cosa più importante al mondo. La cosa che bramasse di più in assoluto.

Rivederlo. Rivederlo per ammazzarlo.

« ... di Andrew, la prima volta che l'hai visto? »

Non sta ascoltando. Deve smetterla di non ascoltare.

« C-come? »

La dottoressa Munro sorride, gentile. « Ho detto: cosa ti ha colpito di più di Andrew, la prima volta che l'hai visto? » Non smette di sorridere. « Ci ha concesso di chiamarlo per nome, no? » Quel. Maledetto. Sorriso.

Eleanor vorrebbe strapparglielo dalle labbra. Sorride come se avesse compassione di lei.

Eleanor la odia.

Stavolta, però, non può fare a meno di voltarsi verso il suo assassino. È un gesto quasi meccanico, una liberazione. Moriva dalla voglia di guardarlo.

Lui ha appoggiato il gomito sul bracciolo del divanetto e il mento tra il pollice e l'indice. Si sostiene in quella posizione con la schiena un po' piegata di lato. E non riesce a smettere di guardarla. E lei nemmeno, ora che ha incatenato nuovamente il proprio sguardo al suo.

È così indecifrabile che potrebbe perdere interi anni per capirne anche solo qualche misera sfumatura.

« Mi ha ricordato... » Deglutisce, Eleanor. « Mi ha ricordato... quell'uomo. »

Ovviamente sta mentendo. Sta cercando un modo per giustificare la propria crisi. Non può di certo dirle che Andrew le ha sparato un colpo dritto in fronte in camera sua, lasciandola morta sulle lenzuola sgualcite.

Così la manderebbero in manicomio seduta stante.

« Quale uomo, Eleanor? »

Eleanor risponde guardando lui, non la psichiatra. « Lo sa quale uomo. » Una risposta secca.

« L'uomo... di quattro anni fa? »

Lei non la vuole più guardare. Sa già che il suo sorriso in quel momento le farebbe venire voglia di strangolarla. Lui invece è così...

« Sì, dottoressa Munro. »

... così meritevole di morire.

« Hai avuto quella reazione, quindi, perché eri convinta fosse... quell'uomo? »

Eleanor comprende che la dottoressa debba mantenere un certo segreto professionale davanti a qualcun altro e da un lato gliene è grata: non sopporterebbe di rivelare la storia di quattro anni prima alla persona che attualmente le ha rubato più di quanto possa aver fatto chiunque altro.

Anche più dell'uomo che le ha rubato l'innocenza e una vita normale, quattro anni prima. Anche più degli educatori in orfanotrofio, quando era bambina.

« Sì. Totalmente. È stato un momento di panico. » Lo dice con una sicurezza tale da allarmare se stessa: no, no, deve mostrarsi più spaventata, più fragile.

La dottoressa Munro si appunta qualche nota sul fascicolo che tiene tra le mani. « Vedi, Eleanor... il signor Peterson... volevo dire, Andrew... vuole aiutarti. Vuole far capire a te e alla tua famiglia che non aveva alcuna intenzione di farti del male. »

Eleanor sbatte appena le palpebre e se non fosse per quella situazione scomoda si metterebbe persino a ridere.

Non aveva intenzione di farmi del male. Come no.

« Lo so. »

La donna fa una breve pausa. « I tuoi genitori mi hanno spiegato che, quando l'hai attaccato, hai cominciato a urlare frasi senza senso. »

Non sa perché, ma si sente tradita dai suoi genitori. Ora non stanno ascoltando quella conversazione. Anzi, sono fermi nell'anticamera in attesa. Se fossero lì e la sua attenzione non fosse concentrata sull'uomo di fronte a lei, Eleanor scoppierebbe a piangere, com'è già accaduto in altre occasioni: è l'ennesima volta che loro si rivolgono ad uno psichiatra piuttosto che direttamente a lei. Potrebbero parlarle e non lo fanno mai.

Lei sarà la prima tra i bugiardi, ma loro - i rispettabili signori Gayre - non sono da meno. Dicono che lei è il miracolo della loro vita, eppure la trattano come una bambola di porcellana da isolare dal resto del mondo. Dicono che la loro felicità dipende soltanto da lei, eppure sono lontani e irraggiungibili quando lei sta bene, presenti e comprensivi solo quando sta male.
Ipocriti e bugiardi.

Da un lato non riesce a biasimarli del tutto: neanche lei saprebbe come comportarsi con una figlia così.

Eleanor non ribatte e aspetta che la dottoressa continui.

« Perché quelle frasi? » domanda, allora. « Perché gridavi che lui ti ha... uccisa? »

Eleanor abbassa lo sguardo sulle proprie ginocchia. Respira a fondo, prima di rispondere. « Le ho detto chi mi aveva ricordato... non è evidente il motivo di quelle frasi? »

La psichiatra sta per replicare, ma Andrew decide di rispondere al posto suo. « Mi dispiace molto per tutto quello che può esserti accaduto, Eleanor. »

Non la ricordava così calda la sua voce. In perfetto contrasto con gli occhi antartici. Sentir pronunciare il proprio nome da lui è una scarica elettrica lungo le vertebre. D'un tratto quei due metri di pavimento che li separano cominciano a sembrarle chilometri.

Basterebbe un secondo per alzarsi dalla poltrona, un secondo per estrarre qualsiasi lama a portata di mano, un secondo per salire a cavalcioni su di lui e un altro per ficcargliela in gola.

Quattro secondi...

Andrebbe in manicomio, in carcere, all'inferno, ma non avrebbe alcuna importanza, perché avrebbe raggiunto quello che al momento le sembra l'unico scopo della sua vita. In quattro secondi.

Se solo la psichiatra l'anno prima non l'avesse scoperta a portare sempre una lametta con sé in caso di suicidio. Se solo non l'avesse costretta a non portarla mai più - quella volta ebbe davvero paura di ciò che le disse, era la prima volta in cui le parlò del rischio di finire in una clinica psichiatrica. Se solo non fosse stata tanto ingenua a seguire davvero le sue parole, però, ora avrebbe quella lametta con sé.

Deve pensare a un piano alternativo. Un'occasione del genere potrebbe non capitarle più anche per mesi... o anni. E lei non riuscirebbe a vivere con quello struggente desiderio di vendetta sepolto nella cassa toracica per tutto quel tempo.

Con cosa posso ucciderlo... ?

Si guarda intorno, cercando di non destare alcun sospetto, anzi, fingendo di cercare un suggerimento nell'ambiente per una risposta concreta da dare. Non c'è nulla di contundente. Maledettamente nulla, se non la penna tra le dita della Munro, ma non riuscirebbe a sfilargliela.

Restano soltanto le sue mani, ma non sarebbe mai capace di soffocarlo, non con la dottoressa Munro accanto e i suoi genitori nell'anticamera. E poi lui è almeno due o tre volte più forte di lei, qualche settimana prima gliene ha dato prova.

« In ogni caso, con me puoi parlare quando vuoi, anche se non sono la persona più adatta, immagino. »

Eleanor sente la collera aumentare e pizzicarle la pancia. Si sforza di rispondere nel modo più neutrale possibile. « Lei non sa niente di me. »

Andrew alza un sopracciglio, forse colpito da quella risposta. « Hai ragione. Ma sappi che- »

In quel momento Eleanor si alza in piedi di scatto, serrando i pugni lungo i fianchi e bloccando il discorso dell'uomo. « Posso andare in bagno? » biascica.

La dottoressa Munro la guarda perplessa. « Certo, Eleanor, non devi chiedermi il permesso. »

Eleanor non dice altro, lasciando entrambi senza parole e raggiungendo la scialba porta color ospedale del bagno - non esistono altri colori per definirla. Entra all'interno e gira un paio di volte la chiave nella serratura, chiudendosi dentro.

Comincia a respirare più velocemente, appoggiando le spalle alla porta, e poi scivola giù seduta a terra, tremando come se fosse esposta ad una bufera di neve. Sente il panico insidiarsi tra le tempie, ma tenta di controllarlo. È ancora presto per esplodere.

Bastardo bastardo bastardo bastardo

Una parte di lei si chiede se lui ricordi tutto: Beethoven, la camicia da notte, la pistola col silenziatore, gli schizzi di sangue sulla parete. Non le è ancora ben chiaro se è... resuscitata... o se ha riavvolto il tempo. Qualcosa deve pur essere successo. Non se l'è immaginato.

Il punto è che non sa se Andrew è al corrente di tutto quello che è accaduto. In realtà non dovrebbe nemmeno importarle, ma non può fare a meno di addensare tutti quei quesiti senza risposta nella sua mente. Nocivi e superflui.

Vorrebbe parlargli, parlargli per ore e cercare di spiegarsi. Non sa bene come, ma sa che è l'unico che potrebbe capirla. Ma sa anche che alla fine la voglia di ucciderlo prevarrebbe lo stesso.

Dopo qualche minuto passato a terra a cercare di calmarsi, Eleanor si rialza con un unico intento: cercare qualcosa di appuntito. Qualsiasi cosa.

Il bagno è piccolo ma accogliente, di una tonalità di rosa molto tenue. C'è un gabinetto a sinistra della porta, di fronte un lavandino con un mobiletto a due ante sotto di esso e un lungo specchio rettangolare sopra, infine una vasca contornata da mattonelle che richiamano quelle del pavimento. Eleanor apre il mobiletto, ma è praticamente vuoto se non per alcuni detersivi o disinfettanti, un paio di pezze per pulire e uno sturalavandini. Nemmeno un paio di forbicine, una pinzetta per le sopracciglia... doveva aspettarselo, quell'appartamento è soltanto lo studio della Munro e con tutti i pazienti particolari con cui ha a che fare sarebbe quasi controproducente riempirlo di... oggetti pericolosi.

Ricorda che dopo l'episodio della lametta sequestrata dalla psichiatra anche sua madre si era fissata con gli oggetti pericolosi in casa e nascondeva tutte le posate quando non erano riuniti a tavola. Come se non ci fossero tanti altri modi per suicidarsi...

La verità era che Eleanor non aveva mai davvero pensato alla morte come a qualcosa di raggiungibile. Le era sempre sembrata una bella favola. E basta. Era qualcosa di lontano a cui nemmeno i pensieri suicidi l'avevano avvicinata. In fondo, Eleanor non si era mai causata neanche un piccolo taglio: l'idea di porre fine alla sua vita era una pura formalità per se stessa e la psichiatra dopo quel primo anno infernale sembrava averlo capito. Sua madre stava persino cominciando a comportarsi di nuovo normalmente.

Ma poi è arrivato l'assassino e ha rovinato tutto.

Le ha concesso di morire, ma non era ciò che voleva. Non per mano di altri.

Un improvviso bussare delicato alla porta la riscuote dai suoi pensieri.

« Eleanor, tutto bene? » È la voce della dottoressa.

« ... sì. Esco tra un minuto. »

« D'accordo » risponde l'altra. « Nel frattempo parlo con i tuoi genitori, va bene? Per oggi abbiamo finito. »

« Va bene. »

Eleanor comincia a sentire lo stomaco contorcersi. Sta sprecando la sua unica occasione. Si guarda ancora una volta intorno, imprecando tra sé, finché il suo sguardo non ricade sulla sua immagine riflessa nello specchio. Se solo avesse una collana, potrebbe provare a strozzarlo...

Eleanor detesta le collane, le hanno sempre dato un senso di claustrofobia. Il suo collo, infatti, come le ricorda anche lo specchio, è nudo ed esposto. La camicetta a quadri beige e verde militare le scende morbida finché non incontra la gonna nera a vita alta in cui è infilata.

Nemmeno lei indossa qualcosa di utile.

Sta per arrendersi alla rabbia, quando improvvisamente si accorge - si ricorda - di avere un paio di forcine per capelli nel piccolo taschino della camicia. L'idea per un istante le sembra assurda. Cosa può mai fargli con una forcina?

Ne prende una e comincia a rigirarsela tra le dita: è abbastanza lunga e sottile, di ferro, non particolarmente appuntita, anche se... con una forza adeguata...

La sua mente - la parte più perversa di lei - prende ad elaborare una lista di ipotesi. 

Non è sicura di star ragionando lucidamente. Se quell'uomo non fosse stato il suo assassino non le sarebbe importato nulla di lui. Affascinante, certo, ma pur sempre un collega di suo padre una quindicina d'anni più vecchio di lei. Se non ci fosse stato alcun assassino in assoluto, Eleanor non si sarebbe mai sognata di uccidere qualcuno.

... più o meno.

Le tornano in mente gli eventi di quattro anni prima, come una secchiata d'acqua gelida. E il nome che aveva tormentato e che tormenta ancora i suoi incubi ogni notte.

Alistair Lane.

Quel nome è la spinta decisiva che le serve per proseguire con la sua idea disperata. Rigira la chiave nella serratura per sbloccare la porta del bagno e la apre, sperando che Andrew sia rimasto nel salotto mentre i suoi parlano con la psichiatra nell'anticamera.

Nell'aprirla, però, si ritrova subito di fronte a lui e sobbalza leggermente, colta di sorpresa.

Mi stava aspettando. È una constatazione che le fa ghiacciare il sangue nelle vene.

Lui, nel vederla, ha una velocissima vibrazione nell'espressione impassibile del volto, poi senza batter ciglio la spinge subito nel bagno e richiude la porta dietro di sé. Il rumore secco della chiave che rigira nella toppa le provoca una violenta ondata di panico.

Loro due, soli, nella stessa minuscola stanza.

Eleanor si aspetta di vederlo cacciare di nuovo la pistola con il silenziatore, invece non è così veloce e preciso come la volta precedente. Stavolta la spinge contro il muro tra la vasca e il lavandino e si preme contro di lei, per evitare di farla fuggire e per bloccarla, mettendole le mani tra collo e spalle nella maniera più ferma possibile.

Il respiro di Eleanor incespica pericolosamente e una parte di lei vorrebbe urlare fino a lacerarsi le corde vocali, ma capisce che può ancora ucciderlo, appena abbasserà la guardia, allora rimane zitta per non attirare l'attenzione.

« Prima che tu possa urlare o fare qualsiasi altra cosa » le dice a bassa voce, « sappi che so esattamente cosa ti è successo. »

Eleanor si sente mancare, il respiro non vuole saperne di tornare regolare. Non riesce a dire niente, vorrebbe solo farla finita. Perché la vicinanza di quell'uomo le causa il dolore fisico più grande che abbia mai provato in tutta la sua vita.

Già quei due metri tra il divanetto e la poltrona erano insopportabili, ora sono premuti l'uno contro l'altra e il dolore le dilania lo sterno e il seno, esattamente dove la sua pelle incontra quella di Andrew. È come se della carta vetrata la stesse lacerando dall'interno. Ogni organo. Ogni cellula. Si sente esplodere.

« Hai detto che ti ho uccisa » continua lui, con quel tono sempre basso che però tradisce comunque l'ira soffocata e l'impazienza. « Come ti ho uccisa? Te lo ricordi? »

Eleanor sgrana gli occhi e per un secondo si affloscia sotto di lui.

Cosa mi sta chiedendo Cosa vuole da me Perché Perché

« Dimmelo! »

« ... mi hai... mi hai sparato nella mia... nella mia stanza... »

Andrew per un attimo allenta la presa sulle sue spalle e sembra vacillare. « Descrivimi la scena. Subito. »

Delle lacrime le bruciano negli angoli degli occhi. È una tortura. Così vicini. Così arrabbiati

Scuote la testa, fermando a stento un singhiozzo a metà gola.

« Subito! » alza appena la voce, scuotendole le spalle.

Eleanor tira su con il naso, ricacciando indietro le lacrime, e si sforza di parlare. Possibile che lui sia in grado di crederle? « ... e-ero sul mio letto a g-gambe incrociate, ad ascoltare l-la musica... Beethoven... » balbetta leggermente, inchiodata dal suo sguardo severo oltre che dal suo corpo. « Poi... poi hai aperto la porta... e... e.... »

« Ti ho sparato? »

« ... sì. »

Lui sembra crederle, perché distoglie lo sguardo e socchiude appena le palpebre, come se avesse avuto una rivelazione fondamentale. Eleanor non può fare a meno di soffermarsi su quell'espressione così diversa dalle precedenti. Sembra che tutto il mondo gli sia di colpo crollato sulle spalle.

« Allora... allora ti sei risvegliata » dice infine, con la voce ridotta ad un sussurro rauco. « Puoi farlo anche tu. »

Anche tu...?

Quell'ultima frase la fa andare nel panico più totale.

« Cosa signifi- » Non ha nemmeno il tempo di concludere la domanda, che lui le avvolge con forza le mani intorno al collo e comincia a stringere. Nella sua gola non passa più aria e il dolore le piove addosso brutalmente.

Le escono dei suoni strozzati dalla bocca, mentre lui tenta di strozzarla con uno sguardo che è diventato quasi disumano. Ultraterreno.

Eleanor reagisce prima che sia troppo tardi, più guidata dall'istinto che dalla mente: in uno scatto gli pianta la forcina che teneva ancora stretta in una mano nel collo, cercando di beccare la carotide. In un primo momento non si accorge di essere riuscita nell'intento, perché pensa soltanto a riprendere a respirare.

Andrew, con gli occhi sgranati, le lascia il collo con un gorgoglio indistinto per portare le mani al suo, di collo, dove spunta la coda di ferro della forcina e dove il sangue ha preso a spruzzare copiosamente, macchiandogli la giacca e macchiando anche la camicia di lei. Per un attimo Eleanor sente riecheggiare un grido di vittoria nella sua testa, prima, però che accada tutto ancora più velocemente.

Andrew si tira con uno scatto la forcina dalla gola, non facendo altro che peggiorare la situazione: il piccolo ferretto cade a terra in un tintinnio lieve, il sangue comincia a scorrere dalla gola con maggiore velocità e densità, tanto che l'assassino barcolla per qualche secondo, prima di cadere all'indietro. Eleanor, però, non si accorge che lui le ha afferrato i capelli. La tira giù, strappandole un grido, e mentre lui finisce steso nella vasca, lei, perso l'equilibrio, sbatte violentemente la testa contro lo spigolo del lavandino.

E tutto diventa freddo e incolore, sospeso in un limbo. Di nuovo.

Il pavimento del piccolo bagno nello studio della dottoressa Munro è ormai ricoperto del sangue di entrambi.

L'uomo è riverso nella vasca con un braccio fuori, il petto inzuppato di rosso scuro e la bocca semiaperta in un verso di sofferenza, la ragazza a terra in una posizione innaturale e gli occhi spalancati nel vuoto.

Nessuno va ad aprire alla porta quando pugni ignoti cominciano a bussare con insistenza.

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