Foglia d'oro
Quando quel giorno ricevetti l'interessante telefonata di una donna francese che si presentò senza troppi indugi come Liliane Moreau avrei dovuto intuire sin da subito il calibro di importanza che l'imminente viaggio a Parigi che mi avrebbe proposto di lì a poco avrebbe assunto nella mia vita.
«Ho visto i suoi lavori, signor Volegov. Voglio lei e nessun altro» affermò con fermezza una decina di minuti dopo essersi presentata e avermi spiegato il motivo della sua telefonata.
Appoggiato alla balaustra in cemento del mio appartamento, sorrisi divertito dalla sicurezza che il tono della sua voce sfoggiava senza troppe remore in quanto cullata dalla consapevolezza che non avrei potuto darle una risposta negativa.
Stringendo con l'indice e il medio la sigaretta che mi aveva accompagnato per tutta quella conversazione, me la portai alla bocca per aspirarla un'ultima volta poi, prendendo tempo, la spensi facendo una leggera pressione sul posacenere in ceramica bianco lì appoggiato.
«Interessante» commentai monocorde lasciando in sospeso la frase «... come noi esseri umani pretendiamo di ottenere ciò che più bramiamo ardentemente. È una logica interessante» rimarcai quell'ultima parola una seconda volta.
«Non si tratta di logica, signor Volegov. È lo sviluppo naturale della vita: voglio una cosa? Me la prendo perché posso.»
«E quale circostanza la mette nelle condizioni di ottenerla?» domandai seriamente incuriosito dalla banale risposta che mi avrebbe rifilato.
«I soldi. Risolvono tutto e questo lei lo sa anche se deve vestire i panni giornalieri dell'artista ribelle e anticonformista che considera la propria arte invalutabile in quanto frutto di un io interiore che solo voi sapete di possedere e che nonostante lo inseriate costantemente nelle vostre opere, tra una pennellata e un'altra, rimanete dell'idea che gli spettatori non ne possano raggiungere il picco più elevato.»
Con lo sguardo fisso sugli alti palazzi che si stagliavano imperiosi sul paesaggio di Mosca spalancai leggermente le labbra, positivamente impressionato e stupito dalle parole della signora Moreau.
«L'ho colpita, non è forse così? Non si aspettava che fossi in grado di tenere testa alle sue idee da artista, convinto di trovarsi davanti all'ennesimo committente dalle tasche bucate che altro non vuole che ottenere un pezzo artistico da aggiungere alla collezione d'arte che possiede solo per potersi vantare con i conoscenti altrettanto ricchi. Ma gliel'ho detto: la tela che lei produrrà...»
«Se la produrrò...» mi affrettai a correggerla.
«Oh, ma la produrrà» asserì con convinzione lei «E quando lo farà non sarà direttamente per la sottoscritta come già le ho ampiamente spiegato.»
Il sole stava tramontando e l'irreale silenzio di quel momento, quando le persone rincasavano dal lavoro per ricongiungersi alle loro famiglie, sembrò pervadermi e immobilizzare i miei stessi pensieri.
«Non si faccia pregare. Non mi sembra il caso di contrattare cifre esorbitanti via telefono, non crede? Le ho già prenotato un volo per Parigi tra due giorni e... ovviamente alloggerà qui all'hotel. È tutto pagato. Non deve preoccuparsi di nulla» ci tenne a precisare infine.
Sospirai «Preoccuparmi? Oh, non si tratta di questo ma sa...» lasciai in sospeso la frase voltandomi appena per dirigere uno sguardo furtivo alle mie spalle.
Dalla porta finestra che avevo lasciato appena spalancata intravedevo il lenzuolo del letto che, celando una figura minuta dormiente, si abbassava e si alzava ritmicamente.
Mi voltai tornando sullo skyline russo per poi affrettarmi a riprendere «Ho delle questioni molto importanti di cui occuparmi qui a Mosca...»
«Più importanti di un incarico come questo?» mi chiese cinica.
Una risata amara mi percosse il petto «Con tutto il dovuto rispetto, signora Moreau, ma dipingere una tela inedita da destinare all'immagine delle nuove locandine pubblicitarie del suo hotel... non lo definirei un incarico così prestigioso. Ho avuto di meglio di cui occuparmi.»
Ora fu lei a lasciarsi andare ad una risata acuta che fece durare una buona manciata di secondi facendola poi smorzare gradualmente fino a tornare seria. «Lei è una persona così divertente, signor Volegov. Io credo, e spero caldamente, che stia facendo questo teatrino solo per ricevere il giusto corteggiamento che un artista del suo calibro esige di ottenere. Sono convinta che sia così. Come sono convinta del fatto che sappia perfettamente l'importanza che l'Hôtel Feuille D'or abbia per la città di Parigi da oltre vent'anni... oltre a rappresentare un grande centro di accoglienza per turisti provenienti da ogni parte del mondo che scelgono di alloggiare qui e qui soltanto.»
Deglutii leggermente, sentendomi bacchettare su qualcosa contro la quale non potevo ribattere non avendo argomentazioni plausibili per poter mettere in piedi una risposta per tenerle testa.
«Ma certo» dissi soltanto con una lieve sfumatura di disagio nel tono della mia voce che sperai fortemente la signora Moreau non fu in grado di cogliere.
«Ci pensi, signor Volegov» mi consigliò rimarcando ancora una volta il mio cognome erroneamente, accentuando la "e" con il suo forte accento francese.
«Con "ci pensi"... devo dedurre che lei intenda che ho le prossime ventiquattro ore a disposizione per preparare i bagagli e raccattare tutti gli strumenti utili per iniziare a buttare giù qualche idea in sua presenza.»
Un breve riso mi giunse dalla cornetta senza fili che sorreggevo stretta tra la spalla e il viso mentre mi concentravo per accendere una seconda sigaretta. La seconda degli ultimi venti minuti. L'undicesima, forse, della giornata appena passata.
«Sapevo che, alla fine dei conti, io e lei non avremmo avuto gravi problemi di comunicazione. E sapevo anche di non dovermi fidare delle voci che mi sono giunte sul suo conto.»
Riappoggiai l'accendino vicino al posa cenere e chiusi gli occhi inspirando a fondo il fumo che ora mi pervadeva i polmoni «E cosa si dice sul mio conto?» le domandai, più per carineria che per curiosità, in quanto era esattamente il genere di domanda che voleva sentirsi fare in quel momento.
«Che è uno spocchioso arrogante.»
«E... invece?» le chiesi, questa volta realmente incurioso dalla sua risposta.
Lasciò trascorrere qualche secondo prima di decidersi a dirmi «E invece è uno spocchioso, arrogante, saccente anticonformista.»
Rimasi a contemplare la città, dall'alto del palazzo in cui alloggiavo, ancora per qualche minuto dopo aver chiuso la telefonata con Liliane Moreau. Non so quale strana assurda sensazione mi rendesse così titubante nell'accettare quell'incarico a seduta stante. Tuttavia, mi conoscevo fin troppo bene da sapere che il viaggio a Parigi non avrebbe rappresentato solo una mera gita inconcludente. Il cigolio della porta finestra mi fece risvegliare dai miei pensieri e, voltandomi di scatto, notai la presenza di una figura stante avvolta dal lenzuolo bianco, che prima la proteggeva nel sonno, fissarmi con viso ancora insonnolito.
«Ehi, darling» accennai un sorriso che lei non tardò a ricambiare.
«Telefonata di lavoro?» mi chiese stringendo con un pugno il lenzuolo ancorato al petto.
«Mm... qualcosa di più simile a una nuova scocciatura» le risposi prendendo a parlare in inglese.
«Una scocciatura francese?» mi chiese sorridendo e facendo un passo verso di me uscendo sul piccolo terrazzo dove mi trovavo.
Le annuii «Mi dispiace averti disturbata. Sarei dovuto scendere in strada.»
«Non mi hai disturbata, Vladimir. Come mai ti ho sentito così restio a riguardo? Dovresti accettare...»
«Ma non sai neanche di cosa si tratta» risposi divertito cingendole i fianchi con entrambe le mani.
«Beh, ma tu sì. E se non vado errata eri sempre tu a sostenere che la vita è come una giostra che compie una rivoluzione molto veloce su se stessa e che bisogna cogliere quei rari momenti di lentezza per correre sul primo seggiolino disponibile e raggiungere la vista più alta di questa rivoluzione.»
Norah Berg. Probabilmente era lei il reale motivo della mia titubanza. Un concentrato norvegese di bellezza e intelligenza racchiuso nel corpo di una modella dai lunghi capelli biondi, tendenti quasi al bianco, che le incorniciavano un viso ovale impreziosito da due occhi blu zaffiro. Perché di donne ne avevo avute molte. Alcune tanto stupide quanto belle, altre tanto furbe da volersi pavoneggiare in giro per essere riuscite a passare la notte con il rinomato artista russo. Ma Norah... lei era diversa dalle altre. Erano almeno tre settimane che ci frequentavamo assiduamente nel mio appartamento. Lei si trovava a Mosca per un'imminente sfilata di moda alla quale avrebbe preso parte, quanto a me... Avevo semplicemente scelto di prendermi una pausa in un luogo familiare dalla frenesia del mio lavoro che mi obbligava a spostarmi senza fissa meta girovagando come se fossi alla perenne ricerca di una panchina confortevole sulla quale fermarmi. Amavo quello che facevo ma, si sa, l'animo dell'artista è in perenne lotta con sé stesso. L'arte può provare ad essere un mezzo attraverso cui è possibile stemperare questo conflitto. Se non che, talvolta, rischia di farlo emergere e di fortificarlo maggiormente.
«Potrebbe essere che sia tu il motivo della mia titubanza» le confidai senza troppe remore «Ti spavento se dico questo?»
Lei si staccò delicatamente dalla mia presa arretrando per potermi vedere dritto in viso «Credi che io possa metterti il bastone tra le ruote?» mi chiese perplessa, sollevando appena un sopracciglio.
Risi «Pensavo fossi più perspicace, darling. Non mi sento pronto a lasciare Mosca... adesso. Non in questa situazione... non sapendo che tu sei qui mentre io dall'altra parte dell'Europa.»
«Oh», commentò lei semplicemente, spalancando di poco la bocca.
Rimase in silenzio a riflettere sulle mie parole per un po', poi smorzando la tensione che si era creata si lasciò andare ad un sorriso tirato «Ma lo sapevi che era questione di un mese, Vladimir. Tra una settimana non sarà solo qualche paese europeo a tenerci separati... ma un intero oceano. Lo sapevi che sarei tornata negli Stati Uniti dopo la sfilata. È lì che io lavoro» mi ricordò con una nota di malinconia nella voce.
Le annuii consapevole «Sì, certo. È solo che...» lasciai in sospeso la frase non sapendo esattamente come continuarla. Così mi voltai dandole le spalle e, appoggiando la braccia sul parapetto in cemento, volsi nuovamente lo sguardo a Mosca.
«Cosa, Vladimir?» mi incalzò lei con voce appena sussurrata.
«Non mi aspettavo questo. Tra me e te intendo» le risposi sincero senza esitare.
Udii il rumore dei suoi piedi nudi che a contatto delle piastrelle del terrazzino si avvicinavano alle mie spalle. «Nemmeno io, darling» e, alzandosi in punta di piedi, mi lasciò un bacio dietro al collo. Il sole era ufficialmente tramontato. E, a quanto sembrava, non solo quello.
Qualche ora più tardi, a sera ormai inoltrata, mi ritrovai a rimuginare sulla delusione ricevuta davanti ad una vodka liscia sul bancone del bar spalleggiato da Dimitri, un vecchio amico di Mosca.
«Così ti ha salutato con un cenno della mano e se n'è andata senza aggiungere altro?»
Sorseggiai la mia vodka annuendo irritato per il fatto che mi stesse ponendo sotto forma di domanda un'affermazione che gli avevo fatto appena due secondi prima.
«E che cosa ti aspettavi, amico? La promessa eterna che vi sareste aspettati a vicenda non appena i vostri rispettivi pianeti si fossero allineati?»
Appoggiai il pesante bicchiere in vetro sul bancone scoccandogli un'occhiata truce «A volte mi chiedo per quale assurda ragione io continui a chiamarti per uscire.»
Lui, alzando le spalle, continuò a far girare con un gesto sinuoso del polso il liquido ambrato all'interno del suo bicchiere «Dubito che la risposta possa farti sentire meglio.»
«E quale sarebbe?» gli chiesi alzando un sopracciglio.
Bevve un sorso veloce per poi dire «Che semplicemente sono l'unico vero amico che hai.»
«Questo è assurdo! Conosco moltissime persone.»
Mi squadrò perplesso per qualche secondo «Conoscere una persona non è la diretta conseguenza che questa sia anche tua amica. Di quante persone puoi dire di conoscere ogni dettaglio della sua vita?»
Non gli risposi.
«Lo vedi?» mi fece notare.
«Non ho risposto perché non ho voglia di farlo» precisai cinico.
Dimitri rise di gusto «Sei un pessimo bugiardo, Vladimir! Non hai risposto perché non sai rispondere. Anche se...» continuò infine lasciando la frase a metà «... dovrei sentirmi profondamente offeso perché la tua risposta avrebbe dovuto includere come minimo il sottoscritto.»
Alzai gli occhi al cielo «Andiamo! Chissà quante cose non conosco sul tuo conto, Dimitri. Non si può mai affermare di conoscere una persona a trecentosessanta gradi. È del tutto impossibile.»
«Sei un vero idiota» affermò risentito appoggiando il suo bicchiere sul bancone con impeto «Sei consapevole del fatto di essere stata la prima persona con la quale ho fatto coming out, vero?» mi ricordò con tono di rimprovero.
«Non fare l'isterico! Certo che lo so. Sono stato io a convincerti di parlarne alla tua famiglia, o sbaglio?»
«Oh, lascia perdere» disse sbrigativo, volendo distogliere il discorso dalla sua sessualità «Qui non stavamo parlando di me. In fondo... per quanto l'hai frequentata questa Norah? Una ventina di giorni? Come puoi esserne preso in questo modo?»
«Queste cose non si comandano, Dimitri» gli dissi allargando le braccia come per accentuare l'ovvietà della mia risposta «E poi... e poi lei era diversa» ammisi infine guardandolo dritto negli occhi.
Lui in tutta risposta alzò un sopracciglio, contrariato «L'hai detto anche delle ultime cinque donne con cui sei stato.»
Sospirai esasperato «Okay basta. Sai una cosa? Non ne voglio più parlare. Restiamo semplicemente in silenzio, avvolti dall'aura depressiva che questo tugurio trasmette ad ogni singolo individuo qua dentro.»
«Sei tu che ti ostini a venire qui» mi ricordò Dimitri.
«Perché sono depresso.»
«Risposta scontata da artista scontato» mi canzonò.
«Come vuoi» gli risposi brusco con un gesto della mano come a voler lasciar perdere.
«Possiamo tornare sull'argomento Parigi, invece? Mi allettava molto di più dell'argomento modella norvegese ma non ho detto niente perché, in qualità di tuo migliore amico...»
«Non sei il mio migliore amico» precisai interrompendolo.
«... in qualità di tuo migliore amico» proseguì lui imperterrito «Sono tenuto ad accogliere i tuoi problemi di cuore e ad offrirti una spalla su cui piangere.»
«Primo: io non piango. Secondo: mi passerà. Terzo: non andrò a Parigi.»
Dimitri, dal canto suo, prese a rispondermi anche lui tramite elenco «Primo: sì, eccome se piangi. Non lasciarmi tirare fuori aneddoti che potrebbero imbarazzare tutta l'ambasciata russa. Secondo: conoscendoti, ti è già largamente passata. Terzo: sì, eccome se andrai a Parigi. Lo devi alla Tour Eiffel e a Vincent Cassel.»
Lo guardai storto «Ho già visto Parigi, sono già salito sulla Tour Eiffel e... e non ho la minima idea di chi sia quel Vincent Castel.»
Dimitri, spalancando gli occhi scioccato, mi guardò con orrore come se avessi appena pronunciato una bestemmia ad alta voce «Tu... tu... Oh, sei una causa persa, Vladimir. Sul serio! È ora che inizi a farti una vita. Una vita vera, intendo! Che non presuppone il fatto di rimanere chiuso nel tuo studiolo a dipingere e a creare arte. Devi uscire e conoscere il mondo.»
«È una vita che giro il mondo per lavoro!» gli ricordai.
«Appunto! Per lavoro! Esci dallo studio di Mosca e prendi un aereo dritto per la Grande Mela per poterti rintanare nel tuo studio newyorkese... Esci da quello, prendi un aereo per Madrid e...»
«D'accordo, ho capito l'antifona. Quindi che cosa dovrei fare? Ti rammento che se dovessi andare a Parigi lo farei ancora una volta per lavoro e non per andarmi a vedere Le Moulin Rouge.»
«E invece questa volta è proprio questo che dovrai fare... conciliare lavoro e vita. Esci, osa e conosci persone nuove. Sono mesi che sei a Mosca affermando di voler staccare e fare qualcosa per te stesso. Ma da quando sei tornato dal tuo ultimo viaggio siamo sempre rintanati in questo diavolo di bar che cade a pezzi! Sei entrato nel bagno? Hanno finalmente aggiustato il pavimento dove mancavano quelle quattro piastrelle bianche. Le hanno sostituite con quattro piastrelle nere. Nere!»
«Non mi interessa niente delle piastrelle del bagno, Dimitri! Mi basta che ci sia da bere, la tranquillità di cui ho bisogno e... della buona compagnia, se ne ho voglia» dissi infine scoccandogli un'occhiata implicita.
«Di cosa si tratta questa volta?» mi chiese all'improvviso ignorando quanto gli avevo appena detto.
Feci spallucce e ripresi a sorseggiare dal mio bicchiere. Poi dissi, con poca importanza «Una tela da dedicare all'immagine dei nuovi manifesti per la promozione di un vecchio hotel datato...»
«Quale hotel?» mi domandò curioso.
Alzai nuovamente le spalle «Hôtel D'or... o qualcosa del genere.»
Dimitri spalancò gli occhi «Hôtel Feuille D'or?»
Gli annuii, sorpreso che lo conoscesse.
«Hôtel Feuille D'or?» ripeté ancora una volta tutto concitato «E la donna con cui mi hai detto di aver parlato era Liliane Moreau, per caso?»
Lo squadrai per qualche secondo «Come puoi conoscerla?»
«Come puoi non conoscerla se sei stato a Parigi? È una delle imprenditrici più ricche e famose della città. E il suo hotel oltre alle persone comuni ospita ogni anno celebrità di grande calibro. Tu... oh...» disse poi fermandosi a riflettere «Oh, no. Tu non l'avrai mica snobbata, vero? Dimmi che non l'hai fatto...»
«Partiamo dal presupposto che non ho idea di chi sia lei... così come quel Castel. E... sì, potrei essermi leggermente mostrato di indole difficile.»
Dimitri mi riservò uno sguardo affranto iniziando a scuotere la testa con vigore «Tu devi assolutamente andare.»
«Fammi indovinare... è perché lo devo alla Tour Eiffel, a Castel e adesso anche alla Moreau?»
«Tu lo devi alla tua carriera, Vladimir. Non puoi neanche immaginare l'impatto che un incarico come questo può avere sul tuo lavoro. Quell'Hotel ha la sua sede più grande a Parigi ma si sta sviluppando in tutta Europa! Italia, Spagna, Germania...»
«Quindi ora dovrei farlo per il mio lavoro? E tutto quel discorso sull'incominciare a vivere veramente?»
Dimitri abbassò lo sguardo, consapevole di essere andato contro alle sue stesse parole, poi dopo qualche attimo riprese «Beh, hai passato quarant'anni anni a lavorare... potrai attendere ancora per quando completerai questa tela, no?»
Feci un sorriso furbo «Ma certo» commentai squadrandolo.
Poi prima di terminare la vodka nel mio bicchiere aggiunsi «Devo partire tra due giorni... il che vuol dire che dovrò passare la giornata di domani a studiare la storia di questo "rinomato" hotel» dissi mimando le virgolette «e di questa Liliane Moreau. Pensi di potermi dare una mano?»
«Ho alternative?»
«Poche.»
«Ci sto. Insegnamento numero uno...»
«No, no no. È tardi e non mi resterebbe nulla in mente...»
Dimitri sollevò una mano per invitarmi al silenzio «È di primaria importanza. Ne va del tuo incarico all'hotel.»
«Di che si tratta?»
Dimitri si sporse un poco dalla mia parte poi, guardandomi dritto negli occhi mi disse lentamente «È Vincent Cassel. Cassel. Non tirare fuori il suo nome davanti alla Moreau se pensi di non riuscire a pronunciarlo.»
«Per quale assurdo motivo dovrei farmi problemi a sbagliare il nome di questo tizio?»
«Vladimir. Questo tizio è uno degli attori francesi più conosciuti e le donne lo considerano come una sorta di dio. Come dar loro torto... La Moreau potrebbe licenziarti in tronco solo per questo. Mi prefiguro già la scena.»
Le tre ore e mezza di viaggio per Parigi trascorsero piuttosto velocemente e in tranquillità, nonostante alcune piccole turbolenze che facevano sobbalzare sul sedile la signora seduta al mio fianco, in preda al panico.
«È un po' di vento» avevo cercato di tranquillizzarla io al dodicesimo balzo sul sedile.
Lei, bianca come un cencio, si era messa ad annuire cercando di autoconvincersene mentre continuava a soffiare con impeto dentro un sacchetto bianco di carta.
Atterrammo a Parigi verso le dieci del mattino e senza troppo stupirmene, come mi aveva avvisato la signora Moreau tramite una e-mail informativa ricevuta il giorno prima della partenza, trovai ad attendermi Laurent, il personale chauffeur di Liliane Moreau. Era un uomo alto, incravattato e tirato a lucido. Probabilmente era più giovane di me, ma un leggero accenno di calvizie regalava qualche anno in più al suo viso.
Lo intercettai subito dopo aver recuperato il bagaglio, in quanto, come in quelle assurde commedie americane, reggeva un cartoncino bianco tra le mani con su riportato il mio nome. Mi avvicinai cauto verso di lui, il quale notando il mio arrivo abbassò il cartoncino, consapevole che non servisse più.
«Bonjour, monsieur Volegov» mi salutò accentuando erroneamente, anche lui, il mio cognome «Sono Laurent.»
«Non era necessario» gli risposi scontroso in francese, senza ricambiare il saluto, gesticolando con il polso e indicando il cartoncino che aveva abbassato.
Laurent sorrise in tutta risposta «La signora Moreau aveva scommesso che l'avrebbe detto.»
«Si» dissi solo a denti stretti. Adesso Liliane Moreau era in grado di prevedere le mie mosse? Questa cosa mi infastidiva.
«Se vuole darmi il bagaglio...»
«Fortunatamente godo ancora del totale uso di entrambi gli arti.»
«Come vuole» rispose lui aggrottando la fronte «Da questa parte.»
Non impiegammo molto a raggiungere il centro di Parigi, dove si trovava il "rinomato", da quanto avevo potuto intuire dalle parole di Dimitri e dalle ricerche in rete, Hôtel Feuille D'or.
Quando l'auto si fermò lungo la strada sulla quale si stagliava l'edificio, non rimasi troppo sorpreso dalla maestosità di quella costruzione. La sorpresa invece mi pervase il giorno precedente, quando avevo avuto occasione di vederlo attraverso le fotografie sparse per internet.
Una lunga facciata in marmo bianca si presentava bucherellata da numerose finestre scandite da timpani triangolari, ognuna di queste caratterizzata da un piccolo balconcino dal parapetto in ferro battuto incorniciato da paraste corinzie che ne arricchivano l'immagine finale, sostenuto inoltre da una coppia di elaborate mensole marmoree.
L'enorme portone ligneo d'ingresso, capeggiato alla sommità dalla scritta d'orata in corsivo "Hôtel Feuille D'or" seguita subito sotto da quattro stelle, era spalancato e conduceva in una sorta di zona filtro protetta da una porta a vetri automatica attraverso la quale si intravedeva l'ampio corridoio in granito che conduceva alla reception.
Laurent mi scortò fin dentro l'edificio verso un'ala secondaria del corridoio principale che conduceva all'ufficio personale di Liliane Moreau, così come riportava la targhetta in acciaio zincato accuratamente posizionata sul battente della porta bianca. Laurent bussò al posto mio e, senza attendere risposta, abbassò cauto la maniglia affacciandosi di poco sulla soglia.
«È qui, signora Moreau» la avvisò lui.
Lei dovette fargli un cenno di consenso perché Laurent, voltandosi dalla mia parte mi annuì facendomi segno di entrare. Quando varcai la soglia Laurent richiuse la porta alle mie spalle ed io mi trovai di fronte ad una larga scrivania in legno scuro sommersa da pile di libri dietro alla quale, per poco non la vidi, sedeva su una comoda poltrona Liliane Moreau che reggeva con una mano il telefono e con la sinistra scarabocchiava qualcosa sul plico di fogli davanti a lei.
Alzò gli occhi per una breve frazione di secondo dedicandomi un'occhiata furtiva facendomi segno con un rapido movimento del volto di sedermi. Ubbidendo senza proferire parola cercai di districarmi dal lieve imbarazzo che mi pervase all'improvviso iniziando a guardarmi attorno.
I libri non caratterizzavano solamente la sua scrivania ma ricoprivano interamente anche due delle quattro pareti, ordinatamente impilati all'interno di librerie alte fino al soffitto. Sulla parete alla mia sinistra si apriva una porta a vetri a due ante che conduceva a quella che doveva essere la corte interna dell'edificio: un giardino primaverile si estendeva sino all'ala opposta del fabbricato, attraversato da viali alberati coperti da ghiaia colorata e caratterizzato al centro da un'enorme fontana di pietra che, da quello che potei intravedere, sembrava rappresentare il fulcro della corte.
«Capisco...» asserì la signora Moreau rivolgendosi al suo interlocutore telefonico e risvegliandomi dalla mia contemplazione «Le assicuro che verrà assicurata la massima privacy a riguardo. Certo... assolutamente» annuì all'improvviso in risposta a ciò che probabilmente le stavano comunicando.
Nel frattempo, allungai il collo verso il plico di fogli sul quale stava scarabocchiando per poi accorgermi che quello che stava facendo era tutt'altro che uno scarabocchio bensì dei veri e propri schizzi a penna.
Su quella carta dalla filigrana liscia aveva disegnato quelle che sembravano essere delle foglie autunnali nelle varie configurazioni possibili: nell'atto di staccarsi dal ramo di un albero, mentre svolazzavano librandosi in aria, accasciate al terreno accerchiate da pigne e castagne...
Un colpo di tosse mi obbligò a sollevare gli occhi sul suo viso. Mi aveva scoperto spiare i suoi disegni. Inarcai un sopracciglio come se non ci trovassi nulla di sbagliato, d'altronde ne ero rimasto piacevolmente colpito.
«Adesso devo proprio lasciarla. Ho... un ospite molto importante qui all'hotel» disse lanciandomi un'occhiata, poi lasciando passare qualche secondo rispose «Oh, no, non posso fare nomi, davvero. È... una questione ufficiosa quindi non ci tengo si sparga la voce e... ma certo, sono convinta che lei non direbbe nulla a riguardo...» disse alzando gli occhi al cielo e sventolando la mano per aria con fare teatrale «Buona giornata anche a lei» lo salutò infine riagganciando il cordless.
«Mi perdoni, signor Volegov. Questione di primaria importanza» chiarì lei per giustificarsi «Suppongo di doverle dare il benvenuto a Parigi» affermò infine accennandomi un sorriso.
La guardai bene per qualche secondo. Una donna decisamente elegante, senza dubbio, probabilmente tanto quanto le raffinerie dell'hotel che dirigeva. Aveva più anni di me, circa una decina, ma li portava sicuramente con orgoglio. Si poteva assaporare la sua soddisfazione soltanto osservandole il viso compiaciuto che aveva: quello di una donna che nella vita ce l'ha fatta solo con le sue forze. I capelli castani erano raccolti ordinatamente in uno chignon lasciando scoperte le orecchie tempestate da due perle bianche come il tailleur che indossava.
«Bentornato sarebbe più opportuno. Sono già stato qui parecchie volte per lavoro.»
«Ma certo» asserì lei chinandosi sulla scrivania appoggiando le mani sulla superficie lignea «Ed ostenta anche un'ottima padronanza della lingua» si complimentò «Lei... parla molte lingue?»
«Quelle necessarie» risposi incurante.
«Necessarie a guadagnarsi da vivere» sorrise lei. In quel momento gli occhi mi caddero sulla foto incorniciata che sfoggiava sulla scrivania e che la ritraeva in compagnia di due giovani ragazze. Con rapidità i miei occhi saettarono sulla sua mano che, potei appurare, era priva di anello.
Tornai su di lei.
«Le mie figlie» mi informò «Vedova» aggiunse poi in maniera del tutto sconnessa.
«Cosa?»
«Non se lo stava domandando mentre vagava con lo sguardo dalla foto al mio anulare?»
Una risata soffocata mi percosse il petto «È attenta ai dettagli...» notai sempre più incuriosito da quella donna «Pensavo che Sherlock Holmes fosse famoso in Inghilterra...»
«La Francia non è fuori dal mondo, signor Volegov. Come suppongo non lo sia neanche la Russia. E poi la cultura non conosce confini... questo è il vero motivo per cui lei è qui ora.»
Mi sistemai sulla poltrona raddrizzando le spalle «La ascolto.»
Liliane Moreau fece scorrere dalla mia parte il plico di fogli su cui qualche attimo prima stava disegnando «La nuova locandina. Deve essere assolutamente rappresentativa dell'Hotel e della sua storia.»
Presi ad analizzare i disegni «Ha una buona mano. Sono... impressionato.»
«Ho frequentato l'Accademia di Belle Arti di Parigi prima...»
«Prima di scegliere un futuro più concreto nel mondo dell'imprenditoria e dirigere una catena di hotel?»
«Che risposta banale, signor Volegov. E per giunta errata. Sa bene che nulla è certo quando si investono delle cifre con troppi zeri in un progetto ambizioso.»
«Touchè» concordai «Ma mai banale quanto questi disegni, se mi permette.»
«Non mi sta dicendo nulla di nuovo. Buona tecnica e zero creatività... che futuro triste poteva promettermi questa assurda combinazione?»
Risi di nuovo «Quindi lei... mette la tecnica, ossia la strategia comunicativa, ed io...»
«E lei realizzerà una tela assolutamente perfetta per l'immagine del mio hotel. Io ho pensato al mezzo... lei ci mette la sostanza.»
«Che, la avviso già, non ricadrà nella pura banalità di rappresentare delle foglie dorate solo per richiamarne il nome.»
Una risata le attraversò il petto «Oh, lo spero caldamente. A lei l'inventiva. Ho pensato che può rimanere qui per una settimana per poter attingere dall'atmosfera di questo posto. Oppure potrà fermarsi per quanto sarà necessario. Ogni suo spostamento sarà a mie spese.»
La guardai riflessivo per poi domandarle «Quando deve essere pronta la tela?»
«I lavori dei nuovi hotel in cantiere non termineranno prima di un anno circa. Consideri che devo approvarne i bozzetti per prima cosa e che, una volta terminata, andrà digitalizzata per poterla stampare su milioni di manifesti. Oltre al fatto che l'opera originale verrà poi esposta nell'androne di ricevimento.»
«Chiaro» commentai.
«E tenga presente inoltre che, per una fortuita coincidenza, la sua permanenza qui coincide con la settimana di chiusura dell'hotel.»
Spalancai gli occhi «Cosa? Nessuna persona nell'edificio? Ho bisogno di entrare in contatto con qualcuno per poter cogliere le sensazioni che questo posto suscita nell'animo umano.»
La Moreau sollevò un sopracciglio «Se vuole posso dirle le mie impressioni.»
«Un po' troppo di parte, non crede?»
Fece un gesto della mano come a lasciar perdere «In ogni caso non sarà l'unico essere vivente all'interno dell'edificio. L'hotel rimane chiuso a causa di alcune riprese cinematografiche.»
«Oh...» commentai sorpreso «D'accordo.»
«Lei potrà spostarsi indisturbato dove meglio crede. Le zone soggette alle riprese saranno accerchiate dal personale della produzione. Non avrà problemi da quel punto di vista.»
«Perché sarebbe stato terribile per me comparire come comparsa in una pellicola cinematografica» ironizzai.
Liliane Moreau mi squadrò «Lo sarebbe di certo stato per il pubblico... vederla con indosso abiti del ventunesimo secolo e accerchiata da uomini e donne in abiti di fine Ottocento.»
«Una pellicola storica? Interessante» commentai iniziando a sentirmi crescere l'adrenalina per l'arrivo dell'ispirazione artistica.
«Perfetto» disse infine come per porre un punto a quella conversazione «Le mostro la sua stanza... non prima di aver discusso di cifre e... ah, mi chiami pure Liliane. Mi sento già abbastanza vecchia di mio senza aggiungere il fatto che per giorni sarò circondata da persone ottocentesche.»
«Signorina Moreau potrebbe farla sentire meglio?» azzardai io, provocandola.
Lei, in tutta risposta, mi guardò acida «No. Liliane.»
Non mi ci volle molto per ambientarmi al lusso che quel posto emanava da ogni angolo in cui mi imbattevo. Per i primi due giorni perlustrai le stanze per poterne cogliere la raffinatezza, l'eleganza degli arredi e riportarli a matita sul mio taccuino, così come gli ambienti comuni, la sala da pranzo, il grande corridoio d'ingresso tappezzato da tarsie dorate...
L'unico luogo però che più mi attraeva e che non riuscivo ad avvicinare era il giardino, l'ambiente più poetico e probabilmente il più rappresentativo dell'hotel. Era perennemente costellato dal personale della produzione, telecamere e attori che interpretavano personaggi datati. Non fui in grado di sbirciare molto purtroppo... le persone che vi lavoravano e gli strumenti cinematografici creavano una sorta di fitta barriera attraverso la quale era quasi del tutto impossibile penetrarvi persino con lo sguardo.
Il terzo giorno però che mi trovavo lì, dovetti cogliere velocemente l'opportunità. Me ne stavo seduto su un vaso di pietra del giardino riguardando gli schizzi prodotti nei primi giorni quando, dalla folla poco distante da me, sentii provenire la voce del regista che urlava «STOP! Perfetto! Concedetevi una pausa mentre spostiamo l'attrezzatura di sopra per le riprese al piano superiore. Ottimo lavoro, ragazzi!»
Alle sue parole il silenzio che prima capeggiava nella tranquillità del giardino iniziò ad essere spezzato da un vocio sempre più crescente con attori, assistenti, produttori che raccattando gli strumenti necessari si spostavano via via abbandonando il giardino.
Era la mia occasione per poter imprimere finalmente su carta la fontana che avevo intravisto appena dall'ufficio di Liliane Moreau. Una dopo l'altra le persone si muovevano dalla fontana verso l'interno liberandomi via via la vista di quel piccolo monumento di pietra.
Il giardino tornò presto ad avvolgersi della quiete che meritava accompagnata solo dallo scroscio dell'acqua che scorreva nella vasca circolare. Finalmente la fontana scolpita si mostrava interamente ai miei occhi e facendo qualche passo per raggiungerla presi a girarvi attorno per scegliere la migliore angolazione e ritrarla.
Nel girarvi attorno ad un tratto mi bloccai all'improvviso quando mi accorsi che in realtà non ero solo là fuori.
Una ragazza dai capelli castani raccolti in un'elegante capigliatura, con indosso un abito di un arancione acceso che le arrivava alle caviglie sedeva sul piccolo muretto in pietra che delimitava la vasca della fontana nella quale scorreva l'acqua cristallina.
Mi bloccai letteralmente sul posto ad osservare quella creatura femminile tutta intenta e concentrata a leggere il plico di fogli che teneva saldamente stretto con una mano. Il copione. Era un'attrice.
Feci qualche passo in avanti e, silenziosamente senza farmi notare, mi sedetti al suo stesso modo e riaprendo il mio taccuino iniziai ad abbozzare quella dolce figura. Avevo dimenticato la fontana, la ricca decorazione scultorea che la caratterizzava e tutto il resto. Ora la mia attenzione era totalmente diretta verso di lei.
Presi a schizzare i suoi lineamenti, intervallando le volte in cui alzavo il viso per poterne cogliere ogni singolo dettaglio che ne caratterizzava l'espressione, la capigliatura, l'abbigliamento. Quanti dettagli è in grado di perdersi l'essere umano nel vedere qualcosa dedicandogli un primo sguardo fugace... Se solo vivessimo sufficientemente a lungo da poterci permettere di fermarci quella manciata di secondi in più, necessaria a farci cogliere l'essenza più profonda di tutte le cose che meritano il nostro tempo lungo il nostro cammino. Forse non saremmo così animali, dopotutto. Forse non ci fermeremmo alla sola superficie se solo potessimo dedicare più tempo alle cose che davvero contano.
I boccoli castani le ricadevano morbidi sulle spalle, mentre ciocche di capelli erano raccolti dietro la nuca dove un fiore rosa che intravedevo appena enfatizzava l'acconciatura. Il vestito arancione le risaltava le sinuosità aderendosi perfettamente al suo corpo, mentre un fiocco verde acqua le circondava la vita ricadendole morbido lungo un fianco. Due piccoli orecchini di perle le impreziosivano il viso rilassato, due gote rosate le donavano colore, e lo sguardo vigile era immerso nella lettura del copione.
Ogni tanto coglievo le sue labbra aprirsi appena e ripetere silenziosamente le battute che avrebbe dovuto mettere in scena davanti alla telecamera. Il torace le si abbassava ritmicamente scandendo il respiro calmo mentre un braccio steso e poggiato sulla superficie del muretto sorreggeva il peso del suo corpo.
Era un dipinto armonioso quello che si stava manifestando davanti ai miei occhi e quello che si stava delineando nella mia mente con la giusta calibrazione di colori, luci ed ombre. Lei in quell'abito dal colore caldo governava la scena stagliandosi sull'ambientazione naturale delle piante verdi e rigogliose che crescevano nei vasi alle sue spalle e sul muretto. Sembrava una scenografia realizzata su misura, ma in realtà niente era più naturale e vero di quella giovane donna che, ignara dell'osservatore silenzioso, si stava concedendo qualche attimo di tranquillità preparandosi al meglio per il suo lavoro.
Fu un attimo. La ragazza, come se avesse in qualche modo percepito di essere osservata, alzò lo sguardo per poi abbassarlo e per poi rialzarlo di nuovo, una volta realizzato di non essere sola. Si ritrasse sorpresa più che spaventata, poggiando il copione sul muretto ed interrompendo così quell'idilliaco momento di quiete e natura al quale aveva dato involontariamente vita.
Si alzò di scatto dedicandomi un'espressione perplessa e contrariata mentre i suoi occhi saettavano dai miei al taccuino e alla matita che reggevo con orgoglio tra le mani.
Mi affrettai a chiuderlo ed alzandomi a mia volta sollevai una mano verso di lei in segno di pace «Perdonami, non volevo disturbarti» le dissi in francese.
La ragazza, nell'udire quelle parole sembrò ancora più stranita «Io... io non parlo francese, mi spiace» si scusò infine, quasi imbarazzata. Un forte accento americano caratterizzava la sua voce femminile e profonda allo stesso tempo.
«Oh» commentai «Posso cambiare vocabolario velocemente, allora» scherzai rispondendole in inglese.
La mia risposta sortì l'effetto sperato, difatti un accenno di sorriso le illuminò il viso già di per sé bello «Quindi... cosa mi hai detto prima?» mi domandò seriamente curiosa.
Feci un passo verso di lei «Mi stavo scusando. Non volevo interrompere il tuo ripasso.»
La ragazza scosse la testa «Oh, quello?» mi chiese indicando il copione «Non è un problema... Conosco le mie battute a memoria ormai. Stavo solo rileggendo alcune parti cercando di sentirle un po' più mie.»
«Certo, capisco. Non deve essere facile interpretare un personaggio che... non sei tu. È finzione.»
La ragazza, sollevando di poco il mento, mi guardò con aria di sfida socchiudendo appena gli occhi «Finzione? Ma noi attori investiamo dei sentimenti per poter portare dei personaggi il più possibile veritieri sul grande schermo e farvi emozionare. Non è...» iniziò a dire infine lasciando la frase in sospeso e lanciando un'occhiata fugace al taccuino che avevo appoggiato sul muretto poco prima «Non è troppo diverso dal lavoro di un artista. Finzione mescolata ai sentimenti. O sbaglio?»
Incrociai le braccia, aggrottando la fronte. «È finzione perché siamo in grado di realizzare qualcosa che prima non esisteva? Io credo che sia molto più reale del mettere in scena un personaggio finto di una storia finta con dialoghi inventati di sana pianta» la provocai infine.
Lei, in tutta risposta, sorrise «Reneè Magritte» disse solo spiazzandomi.
«Come?» le chiesi.
«Non voglio assolutamente intromettermi nel tuo campo anche perché di arte non me ne intendo affatto se non di quella recitativa... Pittore surrealista, dico bene? Quindi creatore di una surrealtà... di un qualcosa che va al di là della realtà.»
«Stai fornendo dei dettagli piuttosto precisi per una che asserisce di non intendersi di arte» le dissi profondamente colpito.
«Ma è così, te lo garantisco» mi assicurò per poi continuare «Non era lui che aveva realizzato il dipinto di una pipa specificando al di sotto di questo che quella non era affatto una pipa?» mi chiese incrociando le braccia al petto.
«Non sbagli. Dunque...?»
«Ho avuto modo di vederlo a Los Angeles qualche anno fa, dove è conservato... Ero assieme ad un gruppo di altri attori che si ostinavano a non capirne il significato quando a me risultava così ovvio. Quella non era una "vera" pipa alla stessa identica maniera dei girasoli di Van Gogh o... che so io, delle figure femminili del Botticelli. La realtà non può essere replicata in modo concreto, piuttosto... interpretata. Ma, Magritte, ha sentito in qualche modo il bisogno di specificarlo nell'opera stessa. Ora, io credo che, tu come me... sia un artista che realizza la propria arte mettendoci il cuore consapevole di dare vita a qualcosa di vero in virtù della realtà delle cose, ma finto per quanto riguarda la sua mera rappresentazione. Certo, sarebbe straordinario altrimenti rubare un chicco d'uva qua e là dalle nature morte di Caravaggio. Poveri quadri. Ti immagini quanti buchi nelle tele?» ironizzò infine sorridendo.
Mi soffermai a guardarla per qualche secondo riflettendo sulla profondità delle parole di quel discorso che, in fin dei conti, non faceva una piega. Senza aggiungere altro allungai una mano protendendola verso di lei «Vladimir» mi presentai.
Lei, alzando un angolo della bocca, soddisfatta di non avermi dato modo di controbattere ulteriormente si presentò a sua volta «Avery.»
«Avery...» ripetei il suo nome, incantevole quanto la sua presenza.
Lei, annuendo imbarazzata, confermò «Già. È proprio Avery. Ma dimmi... cosa stavi disegnando?» mi chiese alzando un sopracciglio dedicandomi un'occhiata complice.
Allargai leggermente le braccia riportandole poi lungo i fianchi «Qualcosa che non avevo previsto, in realtà.»
Avery alzò le sopracciglia come per incitarmi a continuare.
«Volevo abbozzare questa fontana scultorea ma... qualcosa di decisamente più... ammaliante ha attirato la mia attenzione.»
Lei, facendosi leggermente rossa in viso, abbassò lo sguardo. «Spero ne sia valsa la pena» disse poi quando ritrovò il coraggio per guardarmi dritto negli occhi.
«Non penso di esserne più sicuro a riguardo.»
Un sorriso imbarazzato le dipinse il volto «E dimmi, Vladimir... che cosa porta un artista russo a Parigi?» mi chiese accorgendosi del mio accento.
«Un prestigioso incarico. Questo è il motivo per cui posso aggirarmi liberamente nella stessa location di una troupe cinematografica nonostante l'hotel sia chiuso ai clienti.»
«Mmm...» si limitò a commentare lei incuriosita «Ed è... possibile conoscere questo incarico oppure si tratta di una questione super segreta?»
Risi «Niente di segreto suppongo... dal momento che questo mio "incarico" girerà tutta l'Europa attraverso dei manifesti cartacei.»
Avery parve stupita. «Riesci a vivere di questo? Di arte intendo...» mi domandò seria.
La guardai in silenzio per alcuni attimi per poi rispondere «Non è stato semplice all'inizio, ma sì... al momento riesco a vivere di questo.»
Avery sorrise compiaciuta ed annuì.
«Avery!» la chiamò una voce femminile alle nostre spalle. Entrambi ci voltammo verso una ragazza dal medesimo aspetto elegante di Avery, probabilmente un'altra attrice del cast.
«È ora! Stiamo per ricominciare!» le gridò dalla soglia della porta vetrata che dava sul giardino.
«Arrivo!» urlò Avery a sua volta facendole un segno con la mano prima che la ragazza rientrasse.
«Mi ha fatto piacere...» iniziò lei facendo passi lenti verso l'edificio. Sembrava non volesse andarsene.
«Le riprese dureranno ancora qualche giorno, non è vero?» mi affrettai a chiederle.
«È così» mi confermò lei.
«Ti dispiacerebbe se... se ecco io continuassi a ritrarti nei tuoi momenti di pausa qui alla fontana?»
Avery sorrise «Cosa ti fa pensare che questa sia una mia abitudine?»
Io, senza troppo esitare, le risposi «Perché sembravi essere perfettamente nel posto in cui dovevi essere.»
Lei mi squadrò qualche secondo con un mezzo sorriso per poi alzare le spalle con fare indifferente, ma piuttosto teatrale «Non è un problema» affermò facendo per andare via dandomi le spalle.
Sorrisi «Ti prometto che non ti infastidirò in alcun modo. Sarà come se non fossi lì.»
Avery si bloccò all'improvviso per poi voltarsi di nuovo verso di me «Questo mi dispiace. Pensavo che tra uno schizzo e una battuta del copione saremmo stati in grado di scambiare due parole. Ma se non sei in grado di fare due cose contemporaneamente...» disse con un sorriso malizioso per poi voltarsi di nuovo «A domani, allora» mi salutò sollevando una mano senza girarsi e continuando a camminare.
Una risata mi percosse il petto mentre la osservavo scomparire all'interno dell'hotel.
«Avery...» sussurrai all'aria sorridendo.
Impiegai i successivi giorni della mia permanenza all'hotel portando a termine l'incarico per il quale ero stato chiamato. Trascorrevo le giornate alla fontana, paradossalmente chiuso in quel piccolo emisfero naturale isolato dal resto del mondo a disegnare dettagli di quell'ambientazione, nell'attesa che Avery arrivasse puntualmente nel pomeriggio per la sua usuale pausa dalle riprese.
Nonostante la mia intenzione fosse quella di ritrarla in silenzio per non recarle fastidio, Avery sembrava non desiderare altro che conoscermi.
«Ho fatto qualche ricerca sulla tua produzione...» aveva esordito un pomeriggio «Sembri affascinato molto dalla figura femminile. E, bada bene, non è una provocazione... Ho visto i ritratti che hai fatto e il senso di rispetto e ammirazione che emerge da ogni singola tela è... a dir poco commovente» mi aveva detto sinceramente colpita guardandomi fisso.
Io, a quelle sue parole, mi ero bloccato con la mano che reggeva la matita sulla pagina del taccuino su cui stavo enfatizzando alcuni tratti della sua espressione.
«È così. Suppongo derivi dal profondo legame che ho condiviso con mia madre. Lei... lei si è ammalata quando avevo vent'anni e... un potere superiore ha deciso che quella doveva essere la sua uscita di scena. Quando avevo solo due anni mi prese con sé abbandonando mio padre... fu coraggiosa, era un uomo terribile. E da allora ci spostammo da un posto all'altro senza una dimora fissa... Credo sia questa la vera ragione per cui, ancora oggi, non ho un vero posto che posso chiamare casa.»
«Mi dispiace molto, Vladimir. È terribile, voglio dire... per tua madre, il fatto di non avere una casa... Pensi mai di... avere una famiglia?» mi aveva chiesto con sguardo triste.
Io, sorridendole, le avevo risposto «Per avere una famiglia bisogna essere in grado di fermarsi in uno dei tanti posti e, soprattutto, essere in grado di rimanerci» poi facendo un profondo respiro avevo ripreso «In ogni caso... credo di star bene così in fondo.»
«Credi? Dovrai pur saperlo se desideri o meno una famiglia. Non hai mai provato questo desiderio nel guardare negli occhi la donna che hai amato?»
«Non... non c'è nessuna donna. O meglio... di donne ce ne sono state tante, non lo negherò... ma mai nessuna ha ricoperto un ruolo tanto importante.»
«Oh...» si era limitata a commentare lei, sembrando pensierosa.
«Ehi, ma non preoccuparti» l'avevo assicurata scivolando vicino a lei sul bordo del muretto «Tu sei giovane e... hai una vita per raggiungere tutto quello che desideri.»
Avery aveva riso in tutta risposta «Tu non sei poi tanto più vecchio di me e sei ancora in tempo, al mio stesso modo, di vedere realizzato ciò che vuoi.»
Avevo alzato un sopracciglio «Ventott'anni contro i miei quarantuno? Direi che siano due prospettive decisamente differenti.»
«Non... non sei vecchio, Vladimir» si era fatta seria lei improvvisamente «Non per me almeno...» aveva aggiunto infine abbassando lo sguardo cercando di usare un tono che non conferisse troppa importanza a ciò che aveva appena detto.
Io, colpito e spaventato al tempo stesso, mi ero schiarito la voce e con fare disinvolto ero ritornato al mio posto allontanandomi da lei. Non potevo permetterlo. Non potevo permettere che una dolce ragazza come lei si invaghisse dell'artista, trasandato e donnaiolo... perché era proprio questo che faceva colpo sulle donne... l'animo tormentato e irrequieto.
«Ma... raccontami quindi come è andata la fatidica scena del bacio con quell'attore che non sopporti...»
A quelle parole Avery aveva incominciato a parlare come un fiume in piena «Non puoi assolutamente capire! È stato così finto, nonostante lo debba essere in effetti. Ma voglio dire che non ci ha messo alcuna emozione e il pubblico lo percepirà sicuramente e...» così aveva continuato a sfogarsi per il resto di quella giornata.
In quei pochi giorni di conoscenza parlammo di tutto. Lei mi aveva raccontato la trama del piccolo film, una pellicola indipendente, che stava girando, i progetti futuri che aveva in cantiere, tutte grandi occasioni per la sua carriera da attrice. Mi aveva raccontato del posto da cui veniva, San Francisco, della sua famiglia e della casa in cui era cresciuta, del fratello gemello con il quale aveva un legame indissolubile, delle innumerevoli camere d'hotel nelle quali viveva per spostarsi da un posto all'altro a seconda delle riprese.
Da un certo punto di vista mi ricordava molto me. Una viaggiatrice costante come il sottoscritto. La cosa che più mi aveva colpito di Avery era la profonda spensieratezza e gioia di vivere nel raccontare la sua vita. Non che fosse una ragazza che non aveva conosciuto sofferenze, aveva perso suo padre quando ancora era molto piccola, ma in un certo senso sembrava incanalare le delusioni per poter tirare avanti e raggiungere un futuro sempre migliore.
Io, dal canto mio, cercavo di tramutare in arte tutte quelle piccole sfaccettature della sua vita che, giorno dopo giorno, mi facevano conoscere un nuovo lato di lei.
«Ti piace leggere?» le avevo chiesto all'improvviso in un'altra occasione interrompendo uno dei rari silenzi dei nostri incontri.
Avery si era illuminata «Amo leggere! Credo di poter sostenere che la lettura sia la mia più grande passione, dopo la recitazione ovviamente.»
«Il tuo libro preferito?»
«Madame Bovary» aveva affermato con un certo tono di fierezza.
«Mm...» avevo commentato io, stranito per poi tornare con gli occhi sul taccuino e disegnare.
«Cosa sarebbe quel grugnito? Che cos'hai da dire su Emma Bovary?»
Io, fermandomi con la punta della matita ancora sul foglio avevo alzato lo sguardo «Sincero?»
«Coraggio.»
«Non te la prenderai? Voglio dire... non ti metterai a mainare la bandiera di un forte spirito femminista?»
«Promesso.»
«D'accordo. Io penso solo che Emma Bovary non apprezzasse la semplice felicità che la circondava. In fondo cosa le mancava? Aveva un marito che la rispettava, una casa, la salute... Io credo che peccasse di umiltà.»
Avery aveva spalancato la bocca, leggermente sconvolta «Perché, pensi che questo sia sufficiente? Il rapporto con suo marito era privo di passione, non le dedicava le attenzioni che una donna merita di ricevere... è vero, la rispettava ma solo perché non la considerava in quanto perennemente fuori casa. E cosa poteva fare lei nella solitudine di quelle quattro mura? Apriva la mente, volava lontano, sognava di avere quel brivido che ti insaporisce la vita. Emma è stata coraggiosa perché nonostante le circostanze ha seguito le sue esigenze con grande indipendenza.»
«Non puoi difenderla sul serio, Avery! Ha tradito il marito!»
«Non essere così superficiale, Vladimir! Non lo sei... E non farmi credere che voi uomini siate tutti dei santi! E poi... e poi quello era un modo come un altro per spiccare il volo...»
In tutta risposta le avevo sorriso, intenzionato a non portare oltre quella conversazione «Dunque Madame Bovary è il tuo libro. Ebbene... il colore della sua copertina?»
Avery aveva alzato le sopracciglia, perplessa «La copertina del... oh, direi un violetto chiaro. Perchè?»
«Non ho intenzione di ritrarti con un copione in mano... sarà un libro... il tuo libro.»
Avery mi aveva riservato un'occhiata complice «E dunque... stai rappresentando una finzione, eh?»
«Io dico invece che sto... interpretando ciò che mi si disvela davanti agli occhi...»
«E sarebbe?»
Io, senza alzare gli occhi dal taccuino e proseguendo ad abbozzare, avevo risposto «Una giovane fanciulla ottocentesca che trascorre il tempo libero leggendo, cullata dal fruscio dell'acqua di una scultorea fontana.»
Mancavano solo due giorni alla mia partenza e, sebbene qualcosa dentro di me mi suggerisse che non era ancora il momento di andare via, avevo raccolto numerosi schizzi giorno dopo giorno, ritraendo Avery rispetto a diverse angolazioni.
Era il penultimo giorno della mia settimana all'hotel e quindi il penultimo giorno anche per Avery. Quel pomeriggio era stranamente silenziosa e di rado staccava gli occhi dal copione che reggeva sulle ginocchia. Ogni giorno indossava abiti diversi e quel giorno, in particolare, ne portava uno di un rosso acceso.
«Mi piace il vestito» esordii spezzando la quiete del giardino.
Lei, in tutta risposta, sollevò il viso annuendo appena per poi tornare al suo copione.
«Nervosa per le ultime scene? Sembri piuttosto concentrata su quelle battute...»
«Non le ricordo...» mi confidò a bassa voce.
«Questo spiega il motivo per cui le stai leggendo e rileggendo senza interruzione.»
«Non è così. Le leggo ma... non le leggo. Mi spiego?»
«Credo di capire. Avevo lo stesso problema a scuola. Leggevo ma avevo la nebbia nella mente... mia madre desiderava facessi il dottore ma... con quale testa avrei potuto frequentare l'università?» risi infine sperando di strapparle una risata.
Ma così non fu. Avery rimase seria allo stesso modo di quando era arrivata in giardino sedendosi sul muretto.
A quel punto richiusi il taccuino e posandolo affianco a me le chiesi «C'è qualcosa che non va?»
Lei, inspirando profondamente, mi guardò finalmente negli occhi. «Credi che... ti andrebbe di assistere ad una delle mie scene domani pomeriggio? Ho domandato al regista e... è d'accordo.»
La guardai sorpreso rilassando le spalle «Si tratta di questo? Certo che sì, Avery. Mi sembra il minimo dopo che mi hai permesso di ritrarti per la tela dedicata all'hotel.»
«Si ma... non voglio che tu ti senta in debito. Intendo dire che... devi assistere perché lo vuoi non perché devi» disse abbassando di nuovo lo sguardo iniziando a torturarsi le mani.
Era molto agitata quel giorno, quasi a disagio. Sembrava faticasse a stare anche solo semplicemente seduta.
Mi alzai cauto per poi avvicinarmi a lei sedendomi al suo fianco. Presi le sue piccole mani tremanti tra le mie e la chiamai per costringerla a guardarmi «Avery.»
Lei alzò lo sguardo dopo essersi presa un po' di secondi fissando i suoi occhi color cioccolato nei miei. Era la prima volta che la guardavo così da vicino. Non che non mi fossi accorto della sua bellezza, ma percepire ogni tratto così attentamente di quello stesso volto che avevo disegnato per giorni mi fece crescere qualcosa di imprevisto all'altezza dello stomaco.
«Sarei onorato di vederti recitare» le dissi in un sussurro.
Avery, nell'udire le mie parole, sembrò in grado di sciogliere la tensione che l'aveva caratterizzata fino a poco prima. Le sue guance si fecero più rosate, gli occhi leggermente lucidi e sognanti tentennavano dai miei alle mie labbra.
No. Non potevo. Non potevo incasinare quella giovane ragazza promettente con il disordine incontrollabile della mia vita d'artista. Il passato turbolento, le donne, le dipendenze, il mio umore altalenante... non potevano in alcun modo intaccare quella sua oasi felice. No. La nube temporalesca che rappresentava la mia vita non sarebbe giunta fino a lì.
Io, cercando di non offenderla, feci scivolare le mie mani dalle sue ma lei non me lo permise stringendomele forte improvvisamente. Sembrava volesse aggrapparsi a me con tutte le sue forze, senza lasciarmi andare. I suoi occhi imploranti erano lo specchio di quella richiesta silenziosa.
«Avery...» sussurrai senza trovare le forze, o meglio, la volontà di provare di nuovo a staccarmi da lei.
Fu un attimo. Avery si protese leggermente verso il mio viso e, senza che potessi impedirlo, stampò le sue labbra sulle mie. Il tempo parve fermarsi per poi ripartire veloce, scandito dai battiti dei nostri rispettivi cuori. Allo stesso modo in cui si era avvicinata si allontanò lentamente senza guardarmi.
Sospirai «Avery» ripetei ancora una volta.
«Non rimproverarmi. Sapevi sarebbe successo. Da parte mia o tua... ma doveva succedere...» disse senza alzare gli occhi.
«Sì, è vero. Ma io non avrei dovuto permetterlo. Tu sei così giovane e...»
«E cosa?» chiese con rabbia guardandomi «Ingenua? Non è così, Vladimir. Ho ventotto anni e ho anche io il mio vissuto. Forse non come il tuo ma... devi smettere di vedermi come il delicato fiore che hai in mente e che rappresenterai nel tuo quadro.»
«So che non lo sei, Avery! Ma... non ho intenzione di incasinare la tua vita travolgendoti con la mia! Non è tutto così bello e filosofico come vedi! C'è l'artista, l'amante delle piccole cose che cerca di cogliere la bellezza in ogni frangente della vita... ma poi c'è anche l'uomo depresso, sprezzante e perennemente scontento di ciò che lo circonda. E, credimi, questa parte riveste il novanta per cento della mia esistenza quotidiana.»
«Non importa quello che sei! So solo quello che ho visto io e... questo è largamente sufficiente per farmi affermare che non voglio che tu rimanga una semplice comparsa nella mia vita. Tu... tu hai reso questi giorni più belli» disse infine con tono più calmo.
«Tu hai reso questi giorni più belli... oltre ad avermi facilitato un lavoro per il quale ero scettico sin dall'inizio. Rimarrà uno dei lavori più belli quando avrò completato il dipinto.»
Una lacrima le accarezzò il viso ricadendole lungo la guancia, mentre un accenno di sorriso si faceva spazio timidamente «Spero di poterlo vedere allora.»
Le sorrisi «Sarai la prima persona alla quale farò spedire l'invito per la sua inaugurazione. Lo dirò a Liliane.»
Avery tirò su con il naso per poi fissare un punto lontano alle mie spalle. Mi voltai per poi accorgermi che la solita attrice era uscita puntualmente come ogni pomeriggio per richiamarla dentro sventolando una mano nella nostra direzione.
Avery si alzò lenta dalla sua posizione recuperando il copione. Poi passandosi il polso sugli occhi se li asciugò togliendosi inevitabilmente un po' di trucco.
«Fantastico. Le truccatrici mi urleranno insulti all'infinito.»
Mi alzai anche io «Posso sempre salire e assumermene tutta la colpa» le dissi facendole mezzo sorriso.
Avery scosse delicatamente la testa «Non ho pianto per te, Vladimir. Ho pianto per me... perché sono stata una stupida» disse seria superandomi.
«Avery!» la chiamai facendola fermare sul posto.
«Ti aspetto qui domani pomeriggio? Così poi saliamo assieme e ti vedrò recitare...» le domandai, speranzoso che non avesse cambiato idea dopo tutto.
Avery, girandosi con il volto sulla spalla mi dedicò un ampio sorriso «Ma certo.»
Il giorno dopo non passai il pomeriggio con Avery, tantomeno assistetti ad una delle sue scene davanti alle telecamere.
«Cosa significa che la troupe se n'è andata?»
«La facevo più perspicace, Vladimir» asserì Liliane «Esattamente quello che ho detto» mi confermò continuando a sfogliare gli schizzi che avevo sparso sulla sua enorme scrivania. «Sono meravigliosi...» commentò infine.
«Ma quindi... il regista? I produttori? Anche tutti gli attori hanno sloggiato le camere? Ne è proprio sicura?»
«Oh, diamine, sì! Le mie inservienti hanno pulito tutte le stanze questa mattina, poco dopo che le hanno liberate...» ribadì «Ma perché si agita tanto? Questi bozzetti sono più che sufficienti per impostare la tela. Non ha più bisogno di questa ragazza...»
Io, guardando un punto fisso alle sue spalle verso la grande libreria commentai «Già. Non ne ho più bisogno...» affermai cercando di convincere più me stesso che lei, mentre gli occhi mi caddero su uno dei tanti titoli. Madame Bovary.
Scossi la testa energicamente per poi tornare su Liliane «Pensavo solo che le riprese terminassero nel pomeriggio...»
Liliane alzò gli occhi dai bozzetti per poi abbassarsi gli occhiali da lettura sulla punta del naso. «Il regista mi ha spiegato che hanno finito ieri sera con le ultime scene... prima del previsto.»
«Capisco» commentai pensieroso.
Liliane si tolse gli occhiali appoggiandoli sulla scrivania «Dovrebbe essere soddisfatto. Ha superato persino le mie aspettative.»
«Beh, conosceva la mia produzione... non dovrebbe lasciarla tanto sorpresa.»
«Ma sono questi ritratti...» cominciò a dire tornando a sfogliarli con aria sognante «Non solo mi trasmettono pace e tranquillità... il desiderio di raggiungere quel posto e di rilassarmi allo stesso modo della ragazza. È più che altro... il senso di devozione che traspare per lei...»
Le sorrisi «Avery è una persona davvero squisita. Sono onorato di aver fatto la sua conoscenza...»
«Ha ha! Si tratta di questo allora...» una risata acuta le percosse il petto «Sapevo che c'era qualcosa tra voi due... In settimana, quando ero qui in un ufficio per sbrigare delle pratiche, capitava che l'occhio mi cadesse fuori dalla finestra per poi notare così una profonda complicità tra voi due.»
«Il mio è un sentimento del tutto disinteressato, Liliane, glielo garantisco. Avery è giovane, frizzante e piena di vita...»
«E lei, Vladimir? Che cos'è? Si descriva con una parola soltanto» mi provocò guardandomi dritto negli occhi.
Alzai le sopracciglia «Una sola parola? Un pò pretenzioso...» commentai mentre riflettevo «Se proprio devo scegliere una sola parola direi... artista. Credo che sia quella più ottimale in quanto racchiude tutte le altre parole che mi descrivono: emotivo, lunatico, visionario, infelice, euforico...»
Liliane sorrise soddisfatta incominciando a raccogliere gli schizzi sparpagliati sul tavolo in un unico plico che mi porse subito dopo «Ha la mia approvazione per incominciare questa tela. Credo che, a questo punto, non le manchi niente. I bozzetti li ha. I sentimenti anche. Cerchi di unificare le due cose come solo un artista sa fare. So che non mi deluderà.»
In piedi, con le mani custodite nelle tasche dei pantaloni, mi misi ad osservare la tela che avevo terminato di dipingere circa un anno dopo la mia ultima conversazione con Liliane Moreau. Era stata appesa nel lussuoso androne di accoglienza, proprio sulla parete che faceva da sfondo alla reception. Sembrava inondare la stanza del suo splendore ed ogni persona che vi si fermava dinnanzi non poteva fare altro che restarne affascinato sognante. E non mi riferivo al quadro.
Delle forti risa provennero dal giardino facendomi voltare, svegliandomi dal mio momentaneo stato contemplativo. Gli invitati che avevano assistito all'inaugurazione della tela dopo averla guardata con meraviglia e dopo essersi complimentati a turno con l'artista erano ora riversati nella corte dove un prosperoso buffet era stato preparato con cura, accompagnato dalla musica melodiosa del pianoforte appositamente noleggiato dall'hotel in occasione dell'evento.
«Hai intenzione di restartene tutto solo in questo freddo androne?» Dimitri mi raggiunse senza che me ne accorgessi, posandomi le mani sulle spalle.
Mi voltai facendogli una mezza smorfia «No, io stavo solo...» iniziai a dire gesticolando l'indice in direzione del quadro.
«Già» commentò lui «Lei... non è venuta alla fine?» mi chiese con una nota di dispiacere nella voce.
«Non... che mi aspettassi che lo facesse. Non so nemmeno se abbia ricevuto la locandina che le ho spedito...»
Avery Morgan. Non era stato semplice farle recapitare un mio messaggio o trovare un suo contatto. Un anno prima, subito dopo la mia partenza da Parigi non ero riuscito a togliermi il suo viso dalla mente. La delusione che avevo letto nei suoi occhi dopo quello che per lei doveva essere sembrato un rifiuto da parte mia mi aveva tolto il sonno per parecchie notti. Non volevo che si sentisse rifiutata e al solo pensiero che potesse essere realmente così mi sentivo un verme. Non ero stato chiaro. Non abbastanza evidentemente. Perché se così fosse stato non sarebbe sparita nel nulla senza salutarmi dopo aver trascorso giorni di confidenze assieme. Una donna come lei per un uomo come me... sarebbe stato come piantare un fiore bianco in un campo di spine.
In ogni caso, trascorsi i mesi, ero riuscito a farla scivolare via lentamente dalla mia testa... fino a quando non arrivai a Parigi per l'inaugurazione, ritrovandomi l'intera città tappezzata di manifesti del film ottocentesco che la vedeva come una delle protagoniste.
Scossi la testa per ricompormi «Quindi... che ne pensi?» gli chiesi sollevando le spalle.
Dimitri mi guardò sconcertato «Parli sul serio? Ho assistito alla sua nascita sin dall'inizio e sono stato il primo a vederlo finito...» mi ricordò.
«Sì, certo» gli risposi ridendo «Parlo del posto... di Liliane Moreau. Ora che l'hai finalmente conosciuta spero che la finirai di tormentarmi a riguardo.»
Dimirtri incrociò le braccia al petto, risentito «Vuoi davvero parlarmi di tormenti? Ti rammento che hai passato praticamente gli ultimi sette mesi a lamentarti di questa Avery, di come ti abbia stregato con le sue parole, di quanto fosse troppo giovane, di quanto ti avesse preso mentalmente, di come fosse colpa sua se l'ultima volta che sei stato con una donna risale a Norah Berg e...» man mano proseguiva con l'elenco alzava sempre più l'intonazione della voce.
Io, guardandomi attorno furtivo, presi a fargli segno con la mano, abbassando e alzando il palmo ritmicamente, di moderare il tono della voce. «Ma dico sei matto, Dimitri? Lo vedi quell'uomo laggiù, di fianco alla fontana? Credo che non ti abbia sentito!» esclamai indicando un punto al di là della porta vetrata che dava sull'esterno.
Dimitri alzando le spalle, incurante, si voltò lanciandomi un'occhiata truce «Credo che andrò ad aggiornarlo, allora. Penso potrebbe essere il mio tipo» concluse infine varcando la soglia della porta finestra.
Poi, bloccandosi improvvisamente, tornò indietro affacciandosi appena sulla soglia per dirmi «Liliane ha detto di farti vivo. Ci sono un sacco di persone che vogliono fare la tua conoscenza» poi aggiunse «Non vorrai mica deluderla, non è vero?»
Alzai un sopracciglio «Anche questo lo ha detto lei, non è così?»
Dimitri alzò le spalle indifferente poi fece per andarsene mentre mi diceva «Finiscila di fare l'uomo solitario sul mare di nebbia e vieni a divertirti al Moulin de la Galette...» ironizzò per poi tornare tra gli altri invitati che ridevano e scherzavano davanti ad un buon bicchiere di champagne, circondati da cibo e buona musica.
Risi per quanto appena detto da Dimitri per poi tornare, sospirante, dinnanzi al dipinto.
Sì. Ero decisamente deluso che lei non fosse venuta.
«Di solito non è il pubblico a dover contemplare l'opera dell'artista?»
Ancora con il volto sollevato verso il dipinto spalancai gli occhi mentre ogni muscolo del mio corpo iniziava ad irrigidirsi. Era la sua voce quella che mi giungeva come un ricordo lontano? Era il dipinto? Sciocchezze! Un dipinto non può parlare. Ma un pizzico di immaginazione mescolato a qualche goccio di alcool poteva decisamente combinare un bello scherzo. Ed io di immaginazione ne avevo tanta, per quanto riguarda l'alcool invece... l'avevo si e no assaggiato quella sera.
«Perché...» continuò la voce che sembrava provenire dalle mie spalle. Mi voltai lentamente verso quel ricordo per poi ritrovarmi Avery in carne e d'ossa proprio davanti a me.
«... perchè in questo caso sembra proprio che sia l'artista stesso a contemplarla» asserì sorridendomi.
Avery Morgan. Era proprio lei, davanti a me, con indosso un quantitativo di bellezza indecifrabile. Indossava un tubino nero che le accentuava il corpo scultoreo, con due decolleté nere che le slanciavano le gambe. I capelli castani le ricadevano sciolti sulle spalle in morbidi boccoli e le labbra scarlatte le impreziosivano il viso.
Passarono ancora diversi secondi prima che fui in grado di proferire parola e smettere di squadrarla dalla testa ai piedi. Era bellissima.
«Non contemplavo l'opera» fu tutto quello che fui in grado di dirle dopo un anno di lontananza.
Avery sorrise di nuovo «Non te ne facevo una colpa... Non sei un vero artista se non sei un po' egocentrico. Ma permetti che io...» iniziò a dire sollevando l'indice indicando il dipinto alle mie spalle.
Mi spostai di lato come per concederle il mio permesso silenzioso. Avery si posizionò davanti al dipinto e lì vi rimase, in silenzio, per qualche minuto. Io, dal canto mio, osservavo ogni sua minima espressione. I suoi occhi correvano lenti lungo tutta la tela intenzionati a coglierne ogni minimo particolare. Teneva le mani congiunte, ogni tanto le sorridevano gli occhi e una piccola fossetta le compariva e scompariva sulla guancia. Sentivo il cuore sobbalzarmi nel petto ogni qualvolta sembrava voler dire qualcosa per poi limitarsi semplicemente a sospirare. La sua opinione era quella che avrebbe contato di più per me. Finalmente poi, dopo un tempo che mi parve infinito, rimanendo nella sua posizione volse il volto dalla mia parte. Gli occhi le brillavano, non seppi dire se per lo stupore o per quell'accenno di lacrime che sembrava trattenere agli angoli degli occhi.
Fece un profondo respiro «È... è davvero magnifica, Vladimir. Sono... sono senza parole.»
Rimasi a guardarla per qualche secondo, assaporando la gioia che quelle sue parole stavano facendo pian piano nascere in me. «Spesso e volentieri il merito non va solo all'artista, sai? Prima che tu arrivassi... non stavo contemplando l'opera.»
Rise, come imbarazzata, sfregandosi un polso sul viso per asciugarsi gli occhi «Questo lo hai già detto.»
«Te» dissi solo mantenendo fermo lo sguardo su di lei mentre Avery sembrò rimanere perplessa «Era te che contemplavo.»
Il viso si Avery tornò serio guardandomi incerta sul da farsi per qualche secondo poi, abbassando lo sguardo, sorrise. «Non c'è da stupirsene. Mi hai reso ancora più bella di com'ero» affermò sicura tornando con lo sguardo sull'opera «Certo, ho potuto averne un'anticipazione con quella locandina che mi hai spedito ma... Dio, dal vivo è qualcosa da mozzare il fiato. Quell'atmosfera che sei riuscito a ricreare...» disse prendendo a gesticolare il polso in quella direzione «Mi sembra di essere ancora lì con te... quei magnifici pomeriggi trascorsi assieme e...»
«Non ho smesso di pensarci, Avery» le dissi interrompendola bruscamente.
Lei, senza distogliere lo sguardo dal dipinto, sorrise «Lo sai che è lo stesso per me. Credo... credo di avertelo fatto capire a sufficienza quell'ultimo giorno.»
Feci un passo verso di lei sfiorandole la mano che teneva morbida lungo il fianco «Sono molto felice che tu sia qui. Pensavo non venissi...»
Avery si voltò dalla mia parte «C'era il rischio che fosse davvero così ma... mi hanno concesso una piccola pausa prima di tornare a promuovere il film in giro per il mondo.»
«A proposito... Parigi è tappezzata di locandine. Congratulazioni» le dissi sincero senza staccare la mia mano dalla sua.
«Grazie ma... dobbiamo attendere ancora un po' per capire se sarà davvero un successo oppure un flop totale.»
«Sono convinto che andrà bene.»
Avery sospirò «Me lo auguro ma... non sono venuta qui a parlare di me. Non hai niente da dirmi sulla tua splendida opera?» mi chiese sorridendomi maliziosa incrociando le braccia al petto.
«La presentazione è avvenuta almeno un'ora fa. Sei in ritardo» la presi in giro.
Avery spalancò la bocca fingendosi offesa «Ci sono stati dei ritardi nella consegna dei bagagli all'aeroporto e ci ho impiegato almeno mezz'ora a trovare un taxi libero. Sembra proprio che oggi tutta Parigi sia in fermento.»
Risi di quella sua affermazione per poi farmi di nuovo serio e spiegarle «Non penso ci sia molto da dire, non credi? C'è una fontana spettacolare circondata da piante rigogliose e... ah, anche una ragazza lì... in primo piano. Quasi me ne dimenticavo» esclamai battendomi una mano sulla fronte strappandole un sorriso.
Ridemmo scambiandoci occhiate complici per una buona manciata di minuti ancora, poi Avery riprese «Sono davvero onorata. Questo hotel avrà sempre una piccola parte della mia vita... e questo grazie a te. Il soggiorno qui all'hotel non ha solo rappresentato un grande step per la mia carriera ma... mi ha portata a conoscere un'anima meravigliosa» disse infine sorridendomi.
Delle forti risa provennero da fuori costringendoci a voltarci all'unisono.
«Sembra che si stiano godendo la serata» commentò Avery divertita «Oh, guarda Liliane, sembra così felice e appagata. Deve essere rimasta di pietra davanti al dipinto, non è così?» mi chiese tornando con gli occhi su di me.
Mi grattai la nuca imbarazzato «Beh, sì... le è piaciuto» cercai di minimizzare anche se la reazione di Liliane era stata decisamente epica «A dirla tutta...» proseguii «... si è proprio commossa.»
«Come darle torto? Con pochi elementi di scorcio sei riuscito a cogliere il cuore dell'hotel. La serenità che mi hai impresso nel volto... chi non vorrebbe sentirsi così? Liliane ha decisamente escogitato una geniale scelta di marketing. Hôtel Feuille D'or ti attende nel cuore della capitale dell'arte per farti vivere come all'interno di un quadro un soggiorno etereo da sogno» recitò infine le parole riportate sulla nuova locandina.
Sorrisi per poi dirle «Credo di doverti un piccolo segreto dopo che hai fatto tanta strada per venire fino a qui perdendoti persino la presentazione.»
Un'espressione soddisfatta le dipinse il viso «Ti ascolto.»
«L'atmosfera eterea che percepisci trasparire dal dipinto... è frutto dell'uso misurato di colori a olio miscelati con un "ingrediente" speciale.»
La presi per mano e la feci avvicinare maggiormente al dipinto. Avery socchiuse gli occhi studiandone la superficie per poi riaprirli stupefatta «È vero! Da lontano si percepiscono ma sono celati dai colori... ci sono questi strani riflessi dorati che sembrano quasi incastonati nel colore asciutto.»
«Sono pezzi di foglia d'oro. Ho sbriciolato questo foglio sottilissimo nella pasta del colore per poi applicarlo sulla tela. Ho voluto farlo per cercare di catturare quell'atmosfera idilliaca che il giardino ci trasmetteva ogni pomeriggio inondato dalla luce dorata del sole che rendeva tutto ancora più magico. Ricordi? E, al tempo stesso, volevo che ci fosse qualcosa di davvero profondo per l'hotel. Cos'era meglio di utilizzare qualcosa che ne richiamasse il nome?»
Avery mi fissò con aria trasognata «Penso che se Liliane Moreau lo sapesse scoppierebbe in lacrime.»
«Oh ma Liliane già lo sa» esclamò Liliane stessa sorprendendoci. Era appena entrata dal giardino dove il party proseguiva indisturbato.
Avery si voltò verso di me sussurrandomi «Non è un vero segreto se lo sanno più di due persone.»
«Liliane, lei è Avery Morgan, ricorda? Era una delle attrici che soggiornavano qui all'hotel.»
«Curiosa presentazione, Vladimir. Pensavo me l'avrebbe presentata come la musa del suo dipinto» mi provocò Liliane.
Avery, anche se non conosceva molto il francese, sembrò percepire il significato di quelle parole e a trovarsi per giunta d'accordo, infatti percepii l'occhiataccia che mi stava riservando.
«Mi stavo giusto domandando che fine avesse fatto, Vladimir. Stanno tutti attendendo di scambiare due parole con l'artista... Avery, cara, complimenti per Sentimental memories. Ho preso parte alla prima di Parigi la scorsa settimana. Un film d'amore davvero toccante» le disse infine in inglese, complimentandosi.
«La ringrazio, signora Moreau.»
«Vi aspetto entrambi al buffet. Ultima chiamata, Vladimir. Non mi faccia abbandonare di nuovo la festa per venire a recuperarla» mi supplicò infine lasciandoci nuovamente da soli.
«Segreto, eh?» Avery incrociò di nuovo le braccia al petto alzando un sopracciglio.
«Beh, era parte del segreto. C'è un ulteriore... "ingrediente" e questo nessuno lo sa. Non lo sapevo nemmeno io fino ad oggi.»
Avery lasciò scivolare le braccia lungo i fianchi mentre i tratti del volto le si ammorbidivano.
«Cos'altro hai usato, Vladimir?»
«Sentimento» dissi serio.
Avery sorrise «E che razza di artista saresti se non ci mettessi il cuore? Certo che sì che hai usato del sentimento» asserì divertita.
«Non è del sentimento fraterno o amichevole...» precisai rimanendo serio davanti alla sua ilarità.
D'altronde, aveva tutto il diritto di tenermi sulle spine dopo che io l'avevo allontanata da me, per ragioni che all'epoca consideravo opportune, facendola sentire dunque rifiutata.
«Che sentimento, Vladimir?» mi chiese, questa volta seria.
«Non credo di essere così bravo da dargli un nome. Ma è quel tipo di sentimento che ti mostra le cose ancora più belle di quelle che sono.»
Avery mi guardò dritto negli occhi «Mi stavo giusto domandando da dove venisse tutta quella bellezza con la quale mi hai ritratta. Io non sono realmente così.»
«Lo sei per me. E, se non è troppo tardi, voglio poter riuscire a dare un nome a quel sentimento... insieme a te.»
Il volto di Avery finalmente si distese in un sorriso commosso e sognante «Pensavi a questo mentre mi dipingevi su quella tela?»
Le sorrisi di rimando «A quello. A quello che avevamo passato e a quello che avremmo potuto passare se solo non fossi stato così ottuso.»
«Possiamo sempre recuperare, non credi?»
Le porsi la mano che accettò all'istante senza esitazione «Lo credo assolutamente.»
E con le mie dita intrecciate alle sue, ci avviammo lenti verso la porta a vetri che dava sulla corte, il luogo del nostro primo incontro.
Prima di varcare la soglia e di unirci finalmente alla festa Avery mi chiese «Non mi avevi detto, un pomeriggio, che ti sentivi alla perenne ricerca di una comoda panchina sulla quale poterti fermare per un po' di tempo?»
Le sorrisi «Sì, è esatto. Perché?»
«Perché si dà il caso che la prossima settimana ci sia la prima del film a New York. E... hai presente Central Park? Lì ci sono tutte le panchine che desideri» disse scoccandomi un'occhiata complice.
«Beh... mi ci vorrà un bel po' di tempo per trovare quella giusta però» le dissi sorridente fingendo che quello fosse un bel problema.
E poi, la risata dolce di Avery mi riempì il cuore prima che rispondesse «Speravo l'avresti detto.»
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