Quasi
Gabriele è seduto su una sedia, solo, immobile. Non mi sembra stia fissando qualcosa in particolare.
Ho incontrato sua cugina nell'atrio, al piano terra. Era con Carlotta e con quella che immagino fosse la madre di Gabriele. C'erano anche due signori dall'aria alquanto austera assieme a loro, ma non ho idea di chi fossero. Non m'interessa.
Non m'interessa conoscere l'albero genealogico degli Stevens. Sto osservando un loro discendente attraverso il vetro di una porta grigia e triste: questo mi spetta, e questo mi basta.
Lui al di là, io al di qua.
La realtà è molto più crudele di come ci si aspetta. Questo è un dato di fatto che non piace mai a nessuno e che ognuno, a modo suo, si rifiuta sempre di affrontare. Ognuno, così facendo, la rende ancora più crudele, è solo che non ci si può far niente. Perché è impossibile rifiutarsi di inseguire la realtà, specialmente quando questa è più crudele.
Sono passate settimane dall'ultima volta che ho visto Gabriele, eppure non ho mai smesso di pensarci.
È questo il mio modo di inseguirla. Pensare. Guardare.
Anche se, in questo momento, vorrei poter non fare nessuna delle due cose, perché l'una fa più male dell'altra.
Pensare mi fa sentire inadeguata nel possedere quel barlume di luce, ora, dopo averlo cercato tanto, di fronte a colui che mi ha aiutato a trovarlo.
Guardare mi fa rimpiangere il buio e non fa che ricordarmi ciò che è successo al padre di Gabriele, e, forse, ciò che parzialmente è successo anche in Gabriele.
Forse, in un certo senso, è questo che fa la morte: mette una porta tra chi è vivo e chi è morto, una porta che può essere aperta solo da chi è vivo. Può non sembrare, ma è più crudele di un muro, perché la morte sa benissimo che chi è vivo non avrà mai il coraggio di aprirla.
Lascio andare la maniglia e mi siedo anch'io, su una sedia identica a quella dov'è seduto Gabriele.
Fisso le piastrelle bianche e nere del pavimento.
Un'infermiera mi si avvicina: "Ti serve qualcosa?"
"Sì. Potrebbe dire una cosa al ragazzo che è seduto di là?"
La giovane donna annuisce. Le dico di dirgli che sono qui, ma che tra un'ora dovrò andarmene. Lei annuisce di nuovo, poi sparisce dietro la porta.
∞ ∞ ∞
Mezz'ora dopo, Gabriele è seduto accanto a me.
"Devi andare a lavorare?", è la prima cosa che mi chiede.
"Sì".
Forse è proprio in questo momento, mentre lo sguardo di Gabriele si snoda tra le fughe delle piastrelle, risale il muro di fronte a noi e si fissa, infine, nell'angolo a sinistra del soffitto, mentre il mio lo segue e poi lo abbandona, costretto dallo strano sapore che quel "sì" mi ha lasciato sulle labbra a tornare a fissarsi sulle piastrelle bianche e nere ai miei piedi, forse è proprio adesso che la parola "lavoro" mi appare per la prima volta... sbagliata.
"Da piccolo avevo così paura del buio che dormivo sempre con i miei. A volte, nonostante questo, mi svegliavo nel cuore della notte e piangevo. Allora mio padre mi prendeva in braccio, mi portava in salotto, si sedeva al pianoforte e mi faceva mettere le mani sopra le sue. Poi cominciava a suonare. Niente di che, a volte faceva solamente qualche scala. Suonava talmente piano che ero costretto a concentrare tutta la mia attenzione al momento in cui schiacciava un tasto, poi il successivo, e così via. Mi calmavo senza nemmeno accorgermene". Gabriele rimane immobile, come se temesse che il ricordo possa sfuggirgli da un momento all'altro.
"Cosa voleva insegnarmi?"
Rimango spiazzata da questa domanda. Non posso certo rispondergli. Non posso sapere la risposta.
Ma poi, mi dico, a chi interessano le risposte?
"Mozart disse che la musica non è nelle note, ma nel silenzio tra le note. Forse era questo".
"È morto".
La sua voce rimbomba tra queste fredde pareti. Il suo appunto è più che legittimo, ma non me l'aspettavo da lui. Non pronunciato in questo modo, con rassegnazione.
"Non sono solamente quelle che si ascoltano, le note. Il silenzio è la loro eco. Nel silenzio si ritrovano quasi le stesse cose che le note vogliono dire nel momento in cui le si ascolta. Serve solo tutta l'attenzione che uno può prestare per coglierle".
"E tu credi sempre che io potrò farcela. Che potrò affrontare ogni cosa", mormora.
Non sono domande. Sembra aver fiducia nel fatto che confermerò la mia, di fiducia, verso quello che avevo detto due settimane fa, verso quello che ho appena detto e in cui sì, ho davvero fiducia.
"Sì", rispondo.
Gabriele mi guarda. Ha gli occhi arrossati, uno sguardo che non ammette mezze misure, che vuole dire e basta. Lo riconosco, quello sguardo. Io l'ho tradotto in una fuga testarda. Mi sa che lui, al contrario, lo tradurrà esattamente in parole.
"Puoi farlo anche tu".
Eccole. Tanto inaspettate quanto incancellabili.
"No".
"Sì. Non so cosa ti sia successo, ma..."
"Mi è successo quello che è successo a te. Quasi. Ma non riguardava i miei genitori", aggiungo, ignorando il nodo allo stomaco che me lo sta strizzando come se fosse un calzino.
Ho detto quasi, ma non l'ho pensato.
Eppure, lo è. È quasi.
Solo adesso, accanto a Gabriele, mi accorgo della grande differenza fra un quasi e il silenzio che è costretto a sostituirlo una volta che la porta è stata costruita.
E la sua espressione, che non riesce e che non riuscirà mai più a nascondere, ormai, mi dimostra appieno quella grande differenza.
"Allora pensa a loro".
È così che un pensiero spicca sugli altri, e che una voce, nella mia testa, urla: è proprio questo che non riesco a fare.
È così che ogni cosa si ferma definitivamente.
Nella sua voce non c'erano tracce di accusa nei miei confronti. Quella che riecheggia nella mia testa, tuttavia, ha tracce ben chiare della sua voce. Della porta tra lui e suo padre. Della porta tra lui e il lui che se n'è andato con suo padre. Quasi.
Così come della porta tra me e quella me che se n'è quasi andata con Luca, dalla quale sono sempre scappata. Ho sempre cercato di tenermi alla larga da quella me inaccettabile, sentendomi in colpa per lei, credendo di avere solo due scelte possibili: non aprire mai quella porta o chiuderla a chiave alle mie spalle.
Ma ora so che questo tipo di porte non le costruisce la morte: le costruisce l'impressione della morte, e vanno sfondate, perché non rappresentino un limite, perché non continuino ad accusarci di qualcosa di troppo grande per noi, perché possano cessare di renderci egoisti, in un modo o nell'altro. Nel mio buio egoista, io non l'ho nemmeno mai vista, quella porta.
Ora capisco che non posso piazzare porte socchiuse in mezzo ad ogni sbaglio. Non rimarrebbe davvero nulla di me, alla fine. Devo appoggiarmi a qualcosa. Devo vedere in faccia la realtà.
È proprio questo che non riesco a fare.
La gola mi brucia e scotta, quasi non riesco a parlare. Quasi.
"Mi dispiace".
"Lo so. Tu lo sai?".
Mi alzo in fretta. Mi gira la testa per un momento. Non sono sicura che sia dovuto soltanto al mio gesto improvviso.
"Devo andare".
Lo guardo: "Mi dispiace", ripeto. Sono terribile. Mi sento orribile. Non mi sento niente.
Gabriele non batte ciglio.
Apro la porta, scendo le scale, esco dalla clinica.
Salgo sull'autobus n° 34. Dal finestrino, dopo qualche secondo, o forse qualche minuto, vedo il n° 27, quello diretto al supermercato, sfrecciare nella direzione opposta a quella del 34.
Non ho alcuna reazione, ma improvvisamente il dondolio costante dell'autobus mi fa venire la nausea. Schiaccio il pulsante di chiamata e il conducente accosta, chiedendomi se sto bene e se voglio scendere proprio adesso.
Scendo e basta.
Poi cammino, cammino finché non arrivo a casa.
Quasi.
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