In circolo
Perché lunedì?
Questa domanda mi ronza in testa da quando sono salita sull'autobus.
Apro la finestra e mi butto sul letto, affondando il viso nel cuscino.
Otto mesi di martedì. E poi lunedì. Non è logico! Così come non è logico imboccare la strada del supermercato a quell'ora, sapendo benissimo (a meno che colui sul quale mi sto lambiccando il cervello da quasi un'ora non sia deficiente) che è chiuso e rischiando di farsi investire da un autobus che va alla velocità di un paguro senza una zampa.
Mi giro e punto lo sguardo al soffitto, tornando a respirare un po' d'aria fresca (fresca si fa per dire: diciamo più fresca di quella che ho inalato fino a un attimo fa, mentre avevo il naso spiaccicato sul copriletto, ma meno fresca del vapore dell'acqua che bolle).
Dopo l'attacco di panico di stamattina non ne ho avuti altri, per fortuna, ma il mio stomaco, se di stomaco si può ancora parlare, si è ridotto alle dimensioni di una ciliegia bacata, quindi salto la cena.
Rimango lì, distesa, a pensare.
Una volta non avrei potuto farlo. Mia sorella odiava dormire con le finestre aperte e mia mamma teneva costantemente acceso il climatizzatore. Se avete presente il mio amore incondizionato verso i condizionatori, capirete perché la cosa non mi facesse impazzire di gioia.
Certo, non mi sono mai lamentata, né ho mai preteso che mi leggessero nella mente per capire che non sopportavo il loro comportamento. Forse qualcosa in me (tipo il mio sesto senso) sapeva già che un giorno me ne sarei andata.
Aspetto di addormentarmi, invano.
In realtà, non è che ne abbia davvero voglia. La notte porta con sé il buio e il buio fa sembrare meno vuoto il mio appartamento, che è un buco, ma sembra comunque grande per una sola persona.
Credo che la vera solitudine la si provi così, vivendo da soli in un appartamento minuscolo.
C'è chi dice che invece bisogna perdersi in una foresta per capirla davvero e per ritrovare sé stessi, ma io non la penso allo stesso modo, anche perché in una foresta mi sono persa, una volta, e tutto ho provato fuorché un senso di solitudine.
So fin troppo bene, però, che la colpa non è delle foreste. La colpa è mia, perché per ritrovare sé stessi bisogna innanzitutto volerlo, e le cose, nel mio caso, non stanno così.
A pensarci bene, in effetti, otto mesi fa il mio tramonto non è stato solo un tramonto. È stata anche una vera e propria eclissi. Cioè, quando il sole tramonta da qualche parte, dalla parte opposta sorge, no? Ecco, io ho preso in prestito la Luna dalla parte "tramontata" (come se non fosse già abbastanza oscura e triste), l'ho piazzata dalla parte opposta, davanti al Sole, e da lì non l'ho più mossa.
È buio da entrambe le parti e, soprattutto, c'è freddo da entrambe le parti: quel freddo inconsistente che durante un'eclissi provi sulla pelle, nonostante il sole sia sempre lì, sopra la tua testa (quello dentro di me, per intenderci) e quel freddo autentico della notte (quello che circonda il mio spazio vitale nel raggio di qualche chilometro).
Spesso, quando rifletto sulla mia condizione, mi vengono in mente le ragazze che frequentano il centro commerciale. Quando entrano nel supermercato, mi capita spesso di ascoltarle mentre si sfogano con le amiche: grazie alla mia lunga esperienza, ho potuto constatare che, sorprendentemente, non è "non so cosa mettermi stasera" la frase più piagnucolata di tutte, bensì "mi sento sola anche se sono circondata da persone". Lasciando perdere il triste fatto che è chiaramente una citazione tumblreiana, credo che abbia tutto questo successo perché induce le amiche di colei che per prima la dice a consolarla in tutti i modi: la abbracciano, la rassicurano e infine le ricordano che lei ha un padre, una madre, una sorella, un cane, un pappagallo, un fidanzato, il migliore amico del suo fidanzato, nonché suo ex, dei nonni che stravedono per lei e via dicendo. Poi la abbracciano di nuovo e lei, la poveretta, torna ad essere, come per magia, l'oca giuliva di due minuti prima. Non perché le abbiano detto cose che non sapesse già, ma perché le hanno ricordato quanto queste cose siano importanti (e quanto lei sia la più importante del suo gruppetto, perché ha verificato che le basta lamentarsi a mezza voce per far cadere tutte le altre a consolarla: ma questa è la parte della storia meno interessante) e quanto sia sbagliato che lei si senta sola.
Quando mi accorgo che stanno per andarsene, mi ritrovo sempre ad un passo dal dirgli: "e certo che è sbagliato! È sbagliato perché non si può dire di essere soli finché si ha qualcuno accanto, e non un qualcuno chiunque, ma chi ti ha messo al mondo o chi ti fa le feste solo perché sorridi o chi ha bisogno di te per mangiare e pulirsi le piume o chi... beh, di fidanzati non sono un'esperta, su questo non mi esprimo".
Ma non glielo dico mai, alla fine.
E così rimango immobile, ad occhi chiusi, fino a quando la luce non comincia a schiarire la stanza e i miei pensieri.
A questo punto mi alzo e calpesto il parquet del mio appartamento seguendo un percorso ormai canonico che impiego esattamente trentacinque minuti per completare. Una volta terminato, posso chiudermi la porta alle spalle, aprire, dopo cinque interminabili rampe di scale, quella del condominio, ritrovarmi in strada e chiedermi, un'ultima volta: perché lunedì?
N.d.A.
Oggi si cambia: capitolo decisamente più corto. Riflessivo e non tanto interessante, forse, ma sicuramente importante per la nostra protagonista senza nome (che nel prossimo capitolo un nome finalmente avrà, non temete).
Spero vi sia piaciuto, a presto ;-)
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