VII
Il vento sferzava sul mio volto.
Le lacrime si erano asciugate, ma gli occhi continuavano a pizzicare e il naso gocciolava di tanto in tanto.
Sentivo l'adrenalina scorrere nelle vene e il cuore pulsare nel petto. Come se volesse uscire e scappare via.
Quando inspiravo con il naso, avvertivo ancora la cenere nelle narici e la puzza di fumo. Una parte della mia testa sperava che tutto quello che fosse successo fosse soltanto un incubo, la specie peggiore di incubo. Quelli tanto realistici che quando ti svegli non riesci a distinguere se fosse realtà o finzione.
Nonostante fosse luglio, c'erano ancora temperature molto basse e alcuni alberi avevano la punta ancora innevata. Infondo, qui in Norvegia era normale.
Ogni qual volta che espiravo aria dalla bocca, fuoriusciva quella caratteristica nuvola di vapore. Il fumo aveva ricoperto tutto il cielo, nascondendo il bagliore della luna.
Arrivai in una distesa circondata da alberi, con un laghetto al centro e una radura tutto intorno. Mi buttai per terra infreddolita e stanca. Le gambe mi tremavano e l'uniforme che indossavo prima dell'accaduto era ridotta a brandelli. Creai un fuoco per riscaldarmi sprecando quel poco di energia che avevo in corpo.
Nonostante la mia mutazione mi permettesse di sopportare molto il dolore, il freddo era il mio unico punto debole e proprio in quel momento avevo bisogno di qualcosa di più coprente o rischiavo di morire congelata.
Avevo la pelle d'oca e i miei denti sbattevano tra loro a intervalli regolari come un trapano. Dovevo trovare un riparo, e subito.
Andai a bere nel laghetto adiacente, notando così dettagli inquietanti nel mio volto.
Le labbra erano viola, le occhiaie più profonde con qualche venatura tendente al rosso.
Considerata la posizione della luna doveva essere appena mezzanotte. Necessitavo di vestiti ma non avevo soldi con me. Inoltre, più tempo attendevo più ne guadagnava la polizia per trovarmi.
Decisi così di dirigermi verso uno di quei paesini a nord-ovest del centro d'addestramento dove facevamo rifornimento.
Lì mi conoscevano, sì, ma arrivavano sempre in ritardo le notizie in quei luoghi, avrei fatto ciò che avrei dovuto fare e me ne sarei andata cancellando ogni mia traccia.
Il villaggio di Skyland era uno di quei classici paesini con un massimo di cento abitanti, prevalentemente anziani, ed era il più vicino al laboratorio. La massima attrattiva erano i laghi ghiacciati, perfetti per andare a pattinare durante l'inverno. Essendo un paesino molto piccolo, il supermercato fungeva anche da negozio di abiti, ed era proprio lì in cui ero diretta.
Inoltre le possibilità di furto erano pari a zero, quindi i proprietari del posto si risparmiavano la spesa per un programma di allarmi. Vivevano con la convinzione di trovarsi al sicuro, tutti si fidavano tra di loro. Senza considerare che, essendo Skyland un villaggio che sorgeva tra montagne, i negozi erano provvisti anche di reparti forniti di attrezzatura per scampagnate in montagna e per la sopravvivenza. Mi diressi verso la porta sul retro del supermercato del villaggio e iniziai a vagare nella zona alla ricerca di qualcosa che si prestasse a scassinare una serratura.
Nel vicolo c'era solo un cassonetto della spazzatura, dove trovai resti di cibo, bottiglie di vetro e una busta piena di grucce di plastica che potevano fare al caso mio. Ne afferrai una e iniziai a modellarla fino a ridurla a un filo sottile infilandola così dentro la serratura. Giravo e spingevo con una mano la gruccia mentre con l'altra pressavo la porta nella speranza che succedesse qualcosa. Dopo un paio di minuti diedi qualche colpo secco alla porta, che si spalancò di scatto. Buttai la gruccia per terra, nascondendola dentro il sacco.
Poi un rumore.
Rizzai i pelli sul collo e alzai la testa di scatto. Un tonfo si era propagato nel vicolo, facendomi saltare in aria. Mi guardai intorno notando poi da cosa fosse stato provocato il suono: un gatto era cascato sul cassonetto lì di fronte. Ma il mio sesto senso mi diceva che qualcuno -o qualcosa- mi stesse osservando, perciò mi affrettai a entrare.
Creai una palla di fuoco per farmi luce e avanzai verso i vestiti. Da un ripiano agguantai una candela, poi mi avvicinai a un espositore di pietanze in offerta. Rimossi il contenuto dal bancone cercando di fare il meno rumore possibile, poi vi posizionai la candela. Lentamente spalancai il palmo della mano, visualizzai nella mia mente una flebile lingua di fuoco e quella si concretizzò sulla mia spanna. La cima della vampata si muoveva leggermente a destra e a sinistra tremando come un avoglia scossa dal vento. Con dolcezza alitai sulla fiamma, che, grazie alle mie doti, guizzò sulle mie dita, poggiate sull'apice della candela.
La fiammella si depositò così sulla cima della torcia, consentendomi di poter prendere l'occorrente con l'ausilio di un po' di luce. Accanto al lume depositai anche la leggera collanina in oro impreziosita da una pioggia di smeraldi che portavo al collo. Da quando mia madre mi aveva lasciata, quella era l'unica cosa che mi era rimasta in suo ricordo. Non me ne sarei separata per nulla al mondo.
Mi avvicinai velocemente agli scaffali del negozio e afferrai così uno zaino. Infilai al suo interno tutto ciò che mi sarebbe servito, tra cui alcuni cambi, un coltellino multi uso, un telo termico e una bussola.
Poi mi diressi verso il vestiario, non mi interessava lo stile ma l'importante, come mi avevano insegnato, era coprirsi il più possibile preferendo abiti comodi e funzionali. Mi comportai di conseguenza, prediligendo maglie e pantaloni coprenti, scarponi comodi e un giaccone in pelle.
Rimasi qualche istante a fissare la mia figura sullo specchio e nel mentre udii dei rumori, simili a dei passi. Mi voltai, cercando di capire da dove provenisse, ma non avvertendo più nulla. In preda all'ansia, recuperai lo zaino e mi accinsi a uscire.
Mi accinsi al bancone dove si trovava la candela per recuperare la collanina, quando, improvvisamente, il lume della torcia si spense in un soffio.
Alzai lo sguardo allarmata, cercando di captare un minimo movimento nel buio, finché qualcosa non mi prese per le spalle con forza buttandomi contro uno scaffale, facendolo ribaltare addosso a me. Milioni di lattine mi caddero addosso, consentendo così all'uomo di afferrare il mio zaino per ravanare tra le mie cose. Avvertivo dolore dappertutto, soprattutto allo stomaco, che era afflitto da delle dolorose fitte. Con l'ausilio delle braccia spostai le lattine liberando il mio busto, immaginando già i numerosi lividi che sarebbero comparsi come ricordo.
«Chi abbiamo qui? Da dove vieni ragazzina?» domandò il mio aguzzino dopo essersi avvicinato a me, accarezzandomi il volto.
«Che succede, il gatto ti ha mangiato la lingua?» aggiunse. Il suo viso era contratto in un ghigno che emetteva un misto di ira e gioia particolarmente inquietante.
«Rispondimi!» urlò schiaffeggiandomi, sollevandomi di peso e lanciandomi da un'altra parte.
Riuscii a evitare la caduta arrotolandomi con una capriola e rialzandomi con forza in piedi, ignorando la dolorosa fitta al fianco. La guancia bruciava terribilmente, passai una mano su di essa e giurai di averla sentita pulsare al mio tocco.
«Mi dispiace, ma mia madre mi ha insegnato a non parlare con gli sconosciuti» esclamai per poi avventarmi addosso all'uomo.
Non sarei mai riuscita a stendere quell'uomo, era il doppio di me e io ero sfinita. Ma sarei riuscita a stordirlo per guadagnarmi tempo.
Cercò di sollevarmi di nuovo, così schivai le sue mani e poi scagliai una ginocchiata tra le gambe facendolo cadere in ginocchio. Quello si chinò in ginocchio, io girai intorno alle sua schiena e gli diedi una gomitata in mezzo alle spalle, facendolo cadere per terra. Recuperai lo zaino e le ultime cose e corsi verso l'uscita. Però, mentre mi dirigevo alla porta, mi ricordai di aver lasciato la collanina che mi aveva regalato mia madre sul bancone, così mi presi di coraggio e ritornai indietro.
Con cautela riaccesi la fiammella sulla mia mano e notai che l'uomo si era alzato. Avvertii una stretta allo stomaco, come se fosse un monito e volesse avvertirmi di andare vi. Velocemente afferrai la collanina in un angolo e frettolosamente corsi via.
Più mi avvicinavo alla porta più la tensione aumentava, avevo la certezza che qualcosa mi stesse seguendo, ma dovevo fare più lentamente possibile per evitare di fare troppo rumore e di attirare troppa attenzione.
Arrivata alla porta andai per aprirla, ma mentre mi avvicinai alla maniglia sentii qualcosa fendere l'aria, in un attimo mi girai e afferrai con una mano il pugno chiuso dell'uomo. Con tutta la forza rigirai la sua mano dando un calcio nello stomaco dello scagnozzo, guadagnando del tempo per uscire.
Spalancai la porta e la richiusi, afferrai un asse di legno e tentai di bloccare la maniglia così da rinchiudere l'uomo all'interno ma quella si spalancò in un attimo, a causa di una violenta spallata. Solo allora mi accorsi quanto fosse grande e grosso, ero una formica in confronto a quel gigante che ora si avvicinava a me con fare minaccioso, un toro pronto ad attaccare.
Si avvicinò a me spingendomi, iniziando a stringere poi le mani intorno alla mia gola. Nonostante cercassi di divincolarmi dalla sua presa dimenandomi non riuscivo a liberarmi, mentre lui aumentava la forza con cui mi stritolava.
«Chi... Chi.. sei?» chiesi con il fiatone. Ero così stanca che sembrava avessi corso la maratona.
«Ma come, non ti ricordi di me? Gli altri avevano ragione, dovevamo usare il siero prima» sibilò davanti al mio volto.
«Credevo tu fossi morto insieme agli altri...» mi giustificai facendo seguire a questa mia affermazione un tentativo di recuperare aria. Cercavo di aspirare con il naso più ossigeno possibile per poter resistere.
«Ed è qui che tu sbagli!» rispose sbattendo il mio corpo contro il muro e lasciandomi cadere per terra. Evidentemente faceva parte del suo gioco, vedermi soffrire in quella maniera era persino più soddisfacente che uccidermi all'istante. Si sarebbe limitato a torturarmi lentamente, finché non sarei stata io stessa a supplicarlo di farla finita. Stavo strascicando contro il pavimento allo stremo delle mie forze. La gola bruciava e ansimavo.
Perdurai qualche secondo seduta, poi raddrizzai prima il busto e piano piano addossai la schiena sulla parete di mattoni nel vicolo.
Tossii ripetutamente in preda a un attacco di asma per poi scagliare sul pavimento un grumo di saliva misto a sangue rappreso. Aspirai un'altra boccata d'aria.
Sollevai la testa verso l'alto e non potei fare a meno di notare come il mio precedente interlocutore non stesse gioendo per la scena. Sul volto tondeggiante e cicciuto aveva scolpito un sorriso sghembo.
«Ivanov mi ha detto che il palazzo era entrato in autodistruzione, ma non è così, vero?» domandai provocando la risata dell'uomo davanti a me.
«Winters, sei così ingenua! Ci aspettavamo una tua papabile fuga e, mentre Ivanov si dilettava ad architettare incontri, io e altri uomini cercavamo una soluzione per il problema. Esposi la situazione a Ivanov e gli raccomandai di somministrarti di nuovo una dose massiccia di siero ma lui ripeteva ardentemente che non saresti stata così impavida da tentare una fuga. Quindi, mentre Ivanov continuava a lavorare come se nulla fosse, un'altra parte degli impiegati, capeggiati dal sottoscritto, iniziarono a programmare una fuga. Il piano era creare un insieme di problemi che potessero camuffare un'attivazione manuale dell'autodistruzione. L'idea che avevano gli altri era di far ricadere su di te la colpa riguardo l'esplosione ma io ritenevo meglio intrappolarti lì dentro e farti morire con il palazzo» spiegò l'uomo estraendo dal cappotto quella che sembrava una pistola.
«Ma gli altri non vollero ascoltarmi e seguirono la maggioranza. Così, affinché non potessero portare a compimento il loro piano, attivai manualmente l'autodistruzione insieme ad alcuni miei uomini dopo aver steso alcune sentinelle che, purtroppo, mi avevano avvistato. Sebbene tutti i sacrifici, il mio piano non è andati come agognavo: non sono riuscito a salvare la mia famiglia e tu sei ancora qui. Ivanov è un uomo sveglio, sapevo che avrebbe capito, ma mi stupisce che tu si ancora viva. Ma non per molto» concluse. Ora tutto quadrava. L'uomo davanti a me innalzò la sua rivoltella, ribaltò il tamburo e inserì manualmente i bossoli, poi lo richiuse.
Deglutii per la paura, ma avevo la gola secca.
«Per colpa tua ho ucciso la mia famiglia, ho distrutto tutto il mio lavoro, senza quei laboratori non sono più nulla, e tu sei ancora viva, tanti sacrifici buttati nel nulla! Ma non ti preoccupare, sono venuto qui per porre fine alla resa dei conti! Puoi distruggerci, ma noi siamo ovunque, esistono altre persone come te, anche più forti. Non ci servi più!»
Era finita, spacciata, la fine dei conti era arrivata. Con le forze che avevo in corpo non sarei riuscita neanche a supplicarlo di non spararmi. Chiusi gli occhi aspettando la mia ora.
«SBANG!»
Un suono sordo, seguito da un tonfo, mi fecero rizzare i peli sulla schiena. Credevo di essere morta, il cuore palpava irrequieto nel mio petto. Che volesse scappare per la paura dalla mia gabbia toracica?
Spalancai lentamente gli occhi e vidi un uomo avvinghiato con le gambe alla vita dello scienziato prenderlo a pugni sul setto nasale. Con la coda dell'occhio notai un foro nel muro a qualche centimetro dalla mia testa.
Il mio interlocutore smise di dare segnali di vita, così l'uomo afferrò la pistola, la mise in tasca e mi porse la sua mano.
«Vieni, ti porto via» affermò il mio "eroe".
Indugiai prima di accogliere la sua offerta. Non sapevo chi fosse, ma meglio seguirlo piuttosto che rimanere lì attendendo che lo scienziato si risvegliasse.
Con forza mi aiutò ad alzarmi «Come ti senti?» mi domandò con uno sguardo intenerito.
Spalancai la bocca per rispondere, ma alle sue spalle si ergeva lo scienziato che era riuscito ad alzarsi.
«Attento!» proferii indicando dietro il mio cavaliere. Quello indietreggio mentre acciuffai una sbarra d'acciaio accatasta al muro. La lanciai tra le mani del ragazzo, che con prontezza ghermì la trave e la scagliò sulla testa del dotto di fronte a lui, che si accasciò al suolo.
«Andiamo!» ordinò facendomi un cenno con la mano, raccogliendo da terra il berretto che aveva perso e indossandolo. Con cura abbassò la visiera per poi uscire dal vicolo.
«Ti stai infilando in un sacco di guai» avvertii l'uomo, che aveva cinto senza paura il mio fianco con un braccio per potermi sorreggere.
«Varrà la pena rischiare» rispose guidandomi all'interno dei boschi della città.
Salve a tutti cari lettori!
Credevate che vi avrei fatto sapere subito se Jane e Steve avrebbero fatto pace? E invece no!
Chi sarà l'uomo che salva Jane a fine capitolo?
Nella foto a inizio capitolo ci sono i boschi di Skyland! Belli vero?
Alla prossima!
xoxo
JaneMargotValdez
Revisionato: 20/07/2019
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro