V
Conoscevo da poco Fury, ma avevo capito una cosa di lui. Quando si intestardiva su qualcosa l'avrebbe fatta. E anche bene.
Il giorno dopo il nostro incontro, Evans era più esaltato di me all'idea che avrei lasciato quel posto.
«Evans, sembra quasi che tu non mi voglia più vedere» affermai mentre apriva entusiasta la mia cella la mattina successiva, giorno della partenza.
«Jane, faccio così solo perché sono sicuro che tra un paio di mesi ti rivedrò su un notiziario mentre combatti il crimine!»
Risi immaginandomi con una tutina sgargiante intenta a menare colpi a destra e a manca sul piccolo schermo.
«Sei davvero convinto che io sia disposta a indossare una roba del genere?» domandai sarcastica.
«Guarda che posso anche bloccarti qui dentro e non farti uscire» rispose seriamente Evans. Il sorriso che si era increspato sul suo volto ritornò serio, e il suo sguardo si tinse di un velo di malinconia.
«Qualcosa che non va?» chiesi dubbiosa e leggermente confusa.
«Niente, andiamo dai!» esclamò afferrando un mazzo di chiavi e liberandomi.
In quel poco tempo rimasto prima della partenza, mi diedero la possibilità di cambiarmi con dei semplici jeans neri, una canotta a collo alto rossa, e una giacca di jeans. La pista d'atterraggio si trovava all'esterno del carcere e, quando arrivò il momento di partire, scortata dalle guardie e ancora ammanettata fui accompagnata all'uscita sul retro, che portava al cortile esterno e alla pista d'atterraggio.
Per arrivarvici mi fecero attraversare tutto il corridoio dell'ala femminile del carcere, ebbi così la possibilità di rivedere tutti i volti più o meno conosciuti delle carcerate, che appena mi videro iniziarono a lanciare contro di me insulti e malauguri di ogni genere.
In un certo senso provai quasi pena per loro, a differenza mia non avrebbero mai avuto la possibilità di scappare e ricominciare da zero. Erano rimaste intrappolate nella loro condizione e l'unica maniera per non pensarci era riversare ogni rimpianto e ogni malessere sotto forma di odio contro ogni essere vivente. E l'invidia che corrodeva quelle povere donne nel vedere qualcuno svignarsela da quella situazione si poteva tagliare con un coltello.
«Fuggi con la coda tra le gambe, Winters? Non sei riuscita a reggere lo scontro di ieri? Ti ho portato via quel briciolo di dignità che ti era rimasta?» sbraitò con rabbia Olga mentre passavo davanti alla sua cella. Se fosse stata una giornata normale mi sarei fermata a discutere rispondendole a tono, ma non potevo permettermi di gettare tempo al vento.
Così strinsi i pugni per controllarmi e urlai «Ti auguro il meglio, Olga, spero che tu possa trovare qualcuno che ti tenga testa come ho fatto io in questi anni!» voltandomi verso di lei e facendole un occhiolino ridacchiando. La donna socchiuse gli occhi in due fessure, divorata dalla rabbia per poi accingersi a coricarsi sul suo letto, borbottando tra sé e sé. Una guardia mi diede uno spintone con la spalla ricordandomi che il tempo stringeva,
«Cammina, Winters!» mi intimò con tono severo.
«Cammino, sto camminando, come puoi vedere» risposi mentre mi avvicinavo all'uscita.
Spalancato il portellone ci ritrovammo nel cortile del retro, dove ci era permesso trascorrere le ore d'aria. Oltrepassammo la cortina d'acciaio, che divideva il territorio del carcere dal resto della campagna della città, e arrivammo alla pista e sin da subito notai che sull'asfalto, distante dal carcere, stazionava un elicottero, anche se in lontananza non riuscivo ancora a distinguere cosa vi fosse scritto. Una folata di vento scompigliò i miei capelli. Il sole abbrustoliva il cemento sotto i miei piedi, e la mia pelle.
Dopo qualche istante arrivai a qualche metro dal velivolo, e rimasi piacevolmente stupita. L'aereo era enorme e sull'ala destra c'era il simbolo di un'aquila, la stessa che c'era sul distintivo di Fury, che con uno sguardo orgoglioso mi fece cenno di salire.
«È arrivata l'ora!»
Strabuzzai gli occhi quando notai Evans posizionarsi accanto a me e poggiare una mano sulla mia spalla.
«Emozionata?» chiese continuando a scrutare dritto di fronte a sé.
«Giusto un po'» risposi, Evans ridacchiò.
«Sei sicuro che io possa farcela?» domandai preoccupata.
«Più che certo» proclamò con sicurezza senza neanche esitare.
«E se non dovessero accettarmi nella squadra?»
«Significa che non avranno capito con chi hanno a che fare» concluse deciso.
«Winters, è ora!» urlò Fury dall'elicottero facendomi un segnale con le mani per salire.
«Fatti valere Jane, mostra a quegli sbruffoni dei piani alti di che pasta sei fatta!» esclamò con ardore Evans.
Io avevo la stoffa, ma non quella dell'eroe.
Cominciai a camminare verso la scala dell'elicottero, ma, presa dal rimorso, mi voltai e, incredibile a dirsi, mi gettai tra le braccia di Evans, che all'inizio sorpreso dall'abbraccio restò indifferente, per poi ricambiare il mio gesto d'affetto. Non ero mai stata una persona dedita ai sentimentalismi, ma dovevo davvero tanto a quell'uomo. In primo luogo la mia libertà.
«Mi mancherai, Evans...»
«Anche tu, Winters» rispose Evans con voce leggermente tremante, che stesse piangendo?
«Ti verrò a trovare, chiaro?» affermai decisa.
«Ci conto, anche se spero che tu non torni per nessuna ragione qui.»
Risi di gusto.
Mi staccai dall'abbraccio, salutai il mio amico e mi diressi verso l'aereo.
***
Una cosa l'avevo imparata dal viaggio: odio l'aereo. Ho perso il conto di quante volte io abbia vomitato nel sacchetto. Probabilmente a causa delle turbolenze, ma diciamo che anche l'ansia aveva avuto la sua parte.
Fury aveva provato a farmi sentire a mio agio, ma dopo un abbondante quarto d'ora si era arreso lasciandomi al mio platonico silenzio. Non è che non volessi parlare, ma preferivo restare tra i miei pensieri. Era sempre stato così. Capivo più cose sulle persone attraverso uno sguardo che con una chiacchierata. Gli occhi possono trasmettere più di quanto si possa immaginare.
E mentre Fury chiaccherava con il pilota in merito alla rotta da tenere, osservai la mia figura proiettata sul vetro. Le occhiaie rivestivano i miei occhi, risultato della notte scorsa passata a pensare che una volta firmato quel contratto sarei diventata libera ma anche schiava di qualcuno. Riflettendoci: non avevo neanche l'aspetto giusto per incontrare forse il gruppo di uomini più ammirato e idolatrato al mondo.
Nel corso della mia vita avevo sentito spesso vociferare di questi eroi. Durante il volo ero riuscita a inquadrarli, o almeno, ci avevo provato, grazie soprattutto alle numerose descrizioni che mi aveva fornito Fury o al tablet che mi aveva prestato così che potessi "aggiornarmi" sui fatti avvenuti recentemente, come aveva detto lui.
Il primo: Tony Stark. Acuto, sfacciato, spigliato. Tendente al gioco individuale. Forse anche troppo eccentrico e sicuro di sé. Se non ti sopportava, almeno non te lo faceva pesare. In fondo, lo stimavo.
Clint Barton, arciere professionista e macchina da combattimento dello S.H.I.E.L.D. Diverso per carattere da Tony, ma accomunato ad altri per il suo forte senso del dovere. Sarebbe arrivato a uccidere pur portare al termine il suo compito.
Ed era quello che aveva fatto molte volte Natasha Romanoff. Non era stato difficile inquadrarla, per molti versi eravamo simili, oltre che per i capelli rossi. Psicologicamente fredda e impassibile, con un oscuro passato alle spalle. Eccezionale assassina del KKB, trasferitasi in America per scontare le sue pene.
Bruce Banner, scienziato sulla cinquantina pacato e pacifico. Se non fosse stato per i seri problemi sul controllo della rabbia...
A questi si aggiungevano: Thor, il dio norreno uscito dalla mitologia con degli atteggiamenti un po' stravaganti; Wanda Maximoff, nativa della Sokovia, una ragazza come me nutrita dall'istinto di vendetta e dalla paura di ciò che aveva dentro e l'androide chiamato Visione.
Restava solo Captain America, forse il più facile da inquadrare. La sua mentalità era rimasta ferma alla Seconda Guerra Mondiale: una persona umile e giusta, con un forte senso del dovere e della lealtà. A differenza di Clint, sarebbe morto per proteggere un amico.
Ero così tanto in preda al flusso di pensieri che non mi accorsi che Fury mi aveva gentilmente tolto il braccialetto.
Nonostante tutte quelle cortesie, restava ancora un mistero, un pensiero che assillava la mia povera mente: cosa ne avrebbero fatto di me? Sarei diventata una spia? Una marionetta telecomandata da un ricco sbruffone? Un'arma umana? O tutte e tre le cose? Mi avrebbero costretto a indossare una tutina realizzando così le fantasie di Evans?
«Adesso sei finalmente libera» affermò Fury.
Sorrisi di ricambio.
Una volta atterrati avrei voluto baciare il pavimento.
Davanti a me si ergeva un palazzo stupendo. Rimasi a bocca aperta per qualche istante mentre ammiravo la maestosità di quell'edificio. Dimensioni mastodontiche, blu cobalto con un enorme A sulla sommità della Torre.
«Fa questo effetto a tutti la prima volta» esclamò Fury osservandomi con un sorriso scaltro e divertito.
Mi accompagnò all'entrata della Torre, dove vi era un via vai di persone impressionante, tutti immersi nel loro lavoro.
Ad aspettarci alla porta trovai una donna, anch'essa vestita elegantemente, che raggiunse Fury e gli sussurrò qualcosa all'orecchio. Considerata l'espressione che fece l'uomo non dev'essere stata una notizia particolarmente piacevole.
«Maria, accompagna la signorina nella sua stanza.»
«Con molto piacere, Jane, puoi seguirmi?»
Mi diressi così verso l'ascensore accompagnata con quella donna che scoprii poi essere una delle amiche e consigliere più fidate di Fury, Maria Hill. Mentre mi allontanavo notai Fury digitare in fretta e furia un numero sul display del suo cellulare e iniziare a sbraitare contro l'interlocutore. Era così arrabbiato che sembrava gli uscisse il fumo dalle orecchie. Se fossi stata nei panni dell'interlocutore, mi sarei preoccupata. E non poco.
Una volta entrata nell'ascensore la donna premette su un tasto, e mentre il vano correva verso l'alto, pensai a come mi sarei persa appena avrei avuto bisogno di cercare persino il bagno.
In un attimo arrivammo al piano prestabilito: un bellissimo salone, arredato con gusto, un enorme terrazza dava sulla splendida New York, e una bacheca colma di alcolici mi attirava come una calamita.
Certamente nella mia vita non avevo dedicato gran parte del mio tempo alla scienza, alla tecnologia o alla politica. O alle relazioni sociali. Non erano mai state il mio pezzo forte. Ma la musica, l'arte e la letteratura erano un altro conto. Riconobbi subito il brano in sottofondo riprodotto dallo stereo le cui casse erano attaccate negli angoli delle pareti.
«Stairway to Heaven. Led Zeppelin, 1971.»
«Non male, ragazzina, non male. Ascolti i Led Zeppelin?»
Mi voltai e avvistai un uomo venirmi incontro: elegantemente vestito, dai capelli marroni brizzolati e un pizzetto del medesimo colore. Un ghigno scaltro era ritratto sul suo viso mentre mi porgeva una mano.
«A volte» risposi con noncuranza stringendo la sua mano.
«Mi presento», esclamò continuando il discorso, «sono il proprietario di questa Torre noto come un famoso genio, miliardario, playboy e filantropo. Ma puoi chiamarmi Tony Stark, piacere di conoscerti».
«Jane Winters, tu dovresti essere l'uomo di latta vero? La modestia non fa parte dei tuoi superpoteri?»
«Perspicace,» rispose rimandando lo sguardo dietro di me, «Maria, accompagno io la ragazza nella sua stanza».
Mentre la donna usciva dalla sala, dopo aver salutato l'uomo, Tony si avvicinò lentamente alla teca contenente le bottiglie di alcolici. Sembrava tenesse a quelle bottiglie come una vecchia signora tiene ai suoi gioielli.
«Hai del Bourbon?» domandai seguendolo.
«Ragazzina, non posso darti da bere», ribadì riempiendo un bicchierino con un liquido ambrato, «se ti ubriachi che mi dirà poi Fury?».
«Ho ventun anni, non sono una ragazzina» protestai strappando la bottiglia dalla mano dell'uomo e versandomi del liquido in un bicchiere e avvertendo lo sguardo vigile di Tony addosso.
«Inoltre è impossibile ubriacarsi nelle mie condizioni. Si chiama Metabolismo Cellulare Avanzato, ma credo che sappiate già tutto in materia» aggiunsi sedendomi su uno sgabello.
Avevo scoperto questa mia meravigliosa dote poco dopo aver manifestato per la prima volta i miei poteri. Ricordo alla perfezione quel giorno: mi ero tagliata con un coltello il palmo della mano, e, nel giro di un paio di ore, si era quasi del tutto rimarginata. Dopo questo evento, considerato il mio spiccato senso di autodistruzione, decisi di capire fino a dove potessi spingermi.
Così compresi come il mio metabolismo potesse essere il doppio più veloce di quello di un comune essere vivente. Una ferita si sarebbe rimarginata nella metà del tempo, in pratica, era doppiamente difficile ferirmi. Non solo con ferite, ma, come ebbi modo di verificare, anche con l'alcool. Perciò, a intervalli regolari, passavo le notti affacciata alla finestra tracannando bottiglie di Bourbon scadente che sottraevo di nascosto alla cantina del laboratorio.
Lo stordimento causato dall'alcool durava un paio di secondi, un attimo dopo mi risvegliavo dal mio stato di trance divorata dai sensi di colpa, stappando così un'altra bottiglia. Sarebbe stata una capacità pazzesca per una supereroina, poter essere invincibile. Invidiabile e ambita da tanti. Ma, considerate le mie condizioni, questa inconsueta capacità non mi serviva più di tanto.
«Cos'altro sai fare, so che tu sei convinta che io abbia letto quel noioso fascicolo, ma non sono il tipo» domandò Tony mentre mi squadrava dal basso verso l'alto.
«Il mio migliore amico mi usava per accendere le sigarette.»
Un silenzio imbarazzante calò tra noi due. La situazione era particolare, come se entrambi volessimo parlare ma non sapessimo cosa dire restando quindi in un silenzio tombale. L'assenza di suoni tagliava la tensione, un riposo dei sensi che sarebbe stato un balsamo tra noi due, indecisi su chi parlare per primo. Mi umettai le labbra, indecisa se riporre lo sguardo su qualche quadro appeso al muro oppure sull'uomo seduto al tavolo davanti a me. D'altro canto, in quel momento i miei occhi vagavano per la stanza alla ricerca di qualche distrazione.
«Capitan Ghiacciolo, aspettavamo proprio te!»
Strabuzzai gli occhi quando Tony urlò interrompendo il nostro silenzio. Si avvicinò alle scale, da dove stava arrivando il vero volto di Captain America, esaltante.
«Quindi sei riemerso dalla doccia, temevo ti fossi ricongelato» aggiunse poi il milionario.
«Mi dispiace per te, Tony, ma è difficile farmi fuori» replicò il Capitano mentre si avvicinava per porgermi una mano in segno di saluto, storcendo il labbro superiore e quasi sforzandosi di sorridere.
«FRIDAY, ordina una pizza, mi sa che per oggi a pranzo saremo solo noi tre. Capitano, hai per caso visto Natasha?» chiese a Steve che nel frattempo scosse la testa in segno di dissenso.
«Jane, perché non ci parli un po' di te, cosa facevi prima di...» proseguii Tony dirigendosi al divano.
«Prima di essere buttata in gattabuia, ho capito. Lavoravo.»
«Se uccidere innocenti si può considerare un lavoro...» sussurrò Steve, probabilmente con l'intento di non farsi sentire, ma purtroppo fallì.
Dopo quella fatidica frase fu come se il tempo si fosse fermato, in un attimo. Nella mia testa erano proiettati come in un film scene della mia vita che avrei voluto solo dimenticare. E mentre Tony e Steve litigavano, per un motivo a me sconosciuto, mi alzai in piedi per andarmene.
«Jane, aspetta non andare via, abbiamo cominciato con il piede sbagliato» supplicò Tony cercando di raggiungermi.
«Tony, non c'è bisogno, sapete già abbastanza di me, e io non ho intenzione di aprirmi a persone come voi. Ho accettato di venire solo per non finire in un carcere di sicurezza sott'acqua. So cosa vi preoccupa, un'assassina che diventa una supereroina, non sia mai. Sapete qual è la differenza? Voi avete ucciso milioni di innocenti nelle vostre battaglie, ma ognuno se ne dimentica perché lo stavate facendo per il bene superiore. Perché, alla fine, chi ci pensa alla gente che muore? Io ne ho vista tanta di gente morire, molta anche a causa mia. Vi comportate molto da paladini della giustizia, ma non siete tanto diversi dagli altri!», le lacrime minacciavano di uscire, ma non avrei pianto davanti a loro, «Grazie per la considerazione!» conclusi facendo un inchino con fare derisorio, per poi uscire da quella stanza, decisa a trovare la mia camera.
Non avevo bisogno di nessuno.
Buonasera!
Come va? Spero bene, scusate per il ritardo, ma ero in chiamata! In ogni caso, volevo intanto ringraziarvi per il successo della storia, e poi comunicarvi che mi farò recensire da Iridos "Recensisco emozioni".
P.S
I capitoli, come suppongo avrete capito, avranno il punto di vista di Jane e Steve.
Alla prossima!
xoxo
JaneMargotValdez
Revisionato: 02/07/2019
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