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29. Allibito e divertito (prima parte)

Aveva concluso la sua prima seduta dalla psicologa. Una donna simpatica, era riuscita a metterlo a suo agio con poche parole. Nonostante tutto, non le aveva detto granché, non le aveva raccontato nulla di sé. Avevano parlato del più e del meno. Non sapeva ancora quando avrebbe avuto il coraggio di tirare fuori la matassa e di mettersi lì, a sbrogliarla filo per filo con lei. Se avesse mai avuto la voglia di farlo davvero o se, più semplicemente, le avrebbe chiesto aiuto per tagliare i fili, gettare la matassa nel dimenticatoio e andare avanti. Però, aveva mosso il primo passo. E questo lo faceva sentire già meglio, più sereno. Aveva chiesto aiuto, gli stavano fornendo aiuto.

Improvvisamente, Gabriel non si sentiva più solo. Temeva ancora di stare vivendo un bel sogno, di stare creando aspettative troppo grandi per se stesso, ma lo stava facendo lo stesso, stava insistendo lo stesso.

E poi c'era Blaze. Si sentì arrossire e incrociò le braccia sul petto. Il treno si fermò in stazione, le porte si aprirono, salì sul vagone più vicino a sé, e rimase in piedi, nonostante i diversi posti a sedere liberi. L'aria condizionata gli gelò il sudore all'istante, anche se il Santa Ana aveva smesso di appestare l'aria da qualche giorno, le scuole avevano riaperto, Blaze era stato sommerso di lavoro, e pure lui aveva ripreso, di già, a essere tempestato di richieste da parte di vecchi e nuovi studenti online.

Non vedeva Clare da un po', da diverse settimane, ormai, ma era uscito un paio di volte con Fae, erano, persino, andati al cinema insieme. Anche con Fae, proprio come con Blaze, tutto sembrava più semplice: si capivano. Si supportavano a vicenda.

La sua vita aveva preso una piega decisamente inaspettata e lo stupore lo lasciava spesso stordito, ma con un costante sorriso sulle labbra. A volte, neppure si rendeva conto di stare sorridendo, era tutto davvero così strano. Uno strano bello.

Scosse la testa e scese alla sua fermata, risalì in superficie, uscendo dalla stazione della metropolitana. Faceva ancora caldo, questo sì, ma non più in modo soffocante. Il cielo era terso, Los Angeles aveva ripreso ad agitarsi tra uomini in cravatta, donne in tailleur, modelli poco allegri che sfilavano sulle immaginarie passerelle della strada, venditori ambulanti, rumori molesti di martelli pneumatici, smog, automobili e moto a ricoprire l'asfalto come un variopinto tappeto. Il frastuono della routine, tuttavia, non riusciva proprio a scalfirlo.

Non faceva altro che pensare a Blaze, a quello che c'era stato tra di loro, nonostante i diversi giorni trascorsi d'allora. La tenerezza che mai avrebbe pensato di provare, la sua tenerezza: il modo in cui aveva avuto cura di lui. Si passò una mano tra i capelli e finì per incastrarsi brevemente nello sguardo di un passante, abbassò subito gli occhi sul marciapiede, si strinse di più nelle braccia, e proseguì verso casa.

Era ancora presto e, probabilmente, Maurice era intento a tirare a lucido l'appartamento, prima di portare Martha a scorazzare chissà dove. I ragazzi sarebbero rincasati prima da scuola, per quella settimana, e quella scusa lo rincuorava, gli impediva di cedere alle lusinghe di Martha, ai suoi imploranti inviti di essere accompagnata a fare acquisti per negozi. Aveva iniziato ad apprezzare anche la compagnia della donna, ma restava allergico allo shopping.

Arrivò nei pressi del palazzo in cui vivevano i Morante e ricevette una telefonata. Rispose subito nello scorgere sullo schermo il nome del chiamante, le mani tremarono e il sorriso tornò a incurvargli le labbra all'istante. «Blaze.»

«Hey.» il tono che utilizzò per salutarlo fu così morbido che il cuore prese a battere più velocemente all'istante. «Hai finito?»

«Sì. Sono quasi a... casa.» era ancora strano pensare a Casa Morante come anche a casa propria, eppure, un paio di giorni prima, aveva persino annullato il contratto di affitto per il suo vecchio appartamento e si era trasferito in maniera definitiva da loro.

Non gli era ancora chiaro se Lucy e Drake avessero compreso fino in fondo i perché di quella novità, ma Blaze gli aveva promesso che avrebbe parlato apertamente con i ragazzi, spiegando loro la situazione.

«Com'è andata?»

«Bene. Più o meno. Nel senso che abbiamo parlato tanto, ma di niente, credo. Cose inutili.»

«L'importante è iniziare e non c'è mai niente di poco importante o di inutile, addirittura, in situazioni come questa.»

Annuì anche se sapeva che l'altro non poteva vederlo. «Tu a che punto sei?»

«Per strada, nelle vicinanze di casa, in realtà. Ho un appuntamento con un cliente.»

L'ennesimo passante lo urtò involontariamente nel suo correre in direzione di chissà dove, aggrottò la fronte infastidito e si spostò sul lato più interno del marciapiede, ponendosi con le spalle al muro. Compì un altro passo, e si trovò sotto la tettoia che tracciava l'ingresso di un negozio. «Torni a pranzo?»

«Non so se riesco a fermarmi per mangiare, ma passo sicuro per vedervi.»

Si sentì arrossire ancora e il sorriso si fece più ampio. «Okay.» chiuse la conversazione poco dopo e si girò verso la vetrina del negozio. Vendevano perlopiù articoli per la casa, riviste, giocattoli. Un'accozzaglia di cose differenti tra loro per cui non trovò granché nesso, ma che, sicuro, avevano un suo perché commerciale, soltanto che a lui, in quel momento, stava sfuggendo del tutto.

Era troppo preso da altro. Dalla voce di Blaze che gli rimbombava ancora nelle orecchie, dalla gioia di sapere che sarebbe passato da casa soltanto per vederli, anche se era pure uscito abbastanza tardi, quella mattina, pur di accompagnarlo dalla psicologa. Ma lui voleva tornare a casa per vederli. Era così emozionante che si accorse di essere arrossito e ciò catturò la sua attenzione sul proprio riflesso sulla vetrina. Chissà se si vede... C'era qualcosa di diverso, in lui? Il passante di prima, e tutti gli altri che aveva incrociato durante il proprio cammino fino a lì, avevano scorto una stranezza, un tratto, un cenno, una luce, qualcosa di diverso in lui? Certo, erano tutti estranei, persone che non aveva mai incontrato prima, che difficilmente avrebbero avuto modo di scorgere una qualche sorta di differenza in lui, ma anche loro avevano visto il suo sorriso? Il perché di quel sorriso.

Persino la pelle gli appariva più luminosa, i lineamenti del volto più distesi, le spalle rilassate. Gabriel si stava specchiando nella vetrina di un negozio, per strada, in mezzo al caos, col caldo che minacciava di farlo tornare a sudare nel giro di pochi attimi, eppure, si sentiva felice e bello come non lo era mai stato.

E aveva ancora voglia di fare l'amore con Blaze, ancora di più. Di donarsi a lui, di essere suo per sempre. Imbarazzato, scosse la testa e fece per rimettersi in cammino, quando la sua attenzione venne catturata da una delle riviste. Si irrigidì, entrò nel negozio, acquistò l'articolo e uscì di corsa, restando all'ombra della tettoia color crema.

Recuperò il cellulare, fece per contattare Fae, Blaze, Luke, ma nell'indecisione di chi avrebbe dovuto chiamare per primo, non chiamò nessuno, ripose il cellulare e aprì la rivista, cercando subito il pezzo che gli interessava leggere. Ed era a firma di Luke Grey. Ma Luke non gli aveva detto che era riuscito a trovare una testata con giornalisti folli come lui. Aveva creduto che si sarebbe davvero limitato a pubblicare l'articolo sul proprio blog – ed erano trascorsi una decina di giorni e neanche di quel progetto gli aveva più fatto avere notizie.

Che lo avesse fatto apposta? Che fosse stato Blaze a non volere che venisse messo a conoscenza degli sviluppi? Tuttavia, adesso si trovava con una rivista di gossip tra le mani, un altisonante titolo campeggiava in alto, tra le pagine che puzzavano di petrolio.

Scandalo Paxton. Sasha Paxton rischia di perdere l'aureola del santo?

E giù una serie di informazioni, una dopo l'altra, nero su un bianco sporco – quasi grigio –, dove venivano elencate la miriade di attività filantropiche con cui si era tenuto impegnato Sasha nel corso degli anni, per giustificare la sua totale assenza di ambizione lavorativa – pigrizia. E ancora più giù le testimonianze fornite in anteprima, con la promessa della pubblicazione di un altro articolo, anticipazioni su un'intervista che sarebbe andata in onda di lì a pochi giorni su un'emittente televisiva nazionale, e le parole estrapolate da quella intervista, che sembravano dipingere Paxton Junior come un sadico maniaco. Un mostro.

Deglutì a vuoto. La stampa, Luke, o chi per lui aveva deciso di dare quel taglio specifico all'articolo, e chi gli aveva dato il benestare per la pubblicazione, c'erano andati giù pesanti e promettevano, in calce, che la bomba che sarebbe esplosa, in seguito, sarebbe stata ancora più distruttiva per Sasha Paxton.

Le mani tremarono e se ne rese conto nello stesso istante in cui smise di leggere con chiarezza il testo. Chiuse la rivista, si avvicinò a grandi passi verso un contenitore dell'immondizia e la gettò al suo interno.

Non sapeva che cosa pensare, come reagire. Guardò per un po' gli angoli del giornale, che ancora si intravedevano oltre l'imboccatura del cestino, i cui colori della copertina apparivano di una drammaticità mostruosa, messi in risalto dai raggi spietati del sole che si infrangevano su di essa.

Era stata fatta una promessa: ma non era certo che coloro che l'avevano fatta non l'avrebbero infranta. Non si fidava, di certo, di loro tanto quanto di Blaze. La bomba avrebbe dovuto distruggere il mostro con la sua deflagrazione. Deve essere così. Prima che Sasha arrivasse a lui, a Fae, a Blaze. A Lucy e Drake. A Martha ed Oscar.

La mano di qualcuno invase il suo campo visivo e la osservò recuperare la rivista, agitarla dal dorso, facendo sbattacchiare le pagine tra di loro. «Che letture frivole!» si irrigidì e rimase a fissare la rivista, non aveva affatto bisogno di sollevare lo sguardo sul suo viso per riconoscerlo, la sua voce non gli lasciò alcun dubbio fin dal primo alito di fiato che aveva emesso. «Credevo che fossi una persona più intelligente.» e lasciò ricadere la rivista nel cestino.

Si batté le mani tra di loro, come a volerle ripulire dalla polvere, poi si aggiustò il bavero della giacca, i polsini della camicia. Girò intorno al cestino, fermandosi a un passo da lui.

Gabriel sapeva che avrebbe dovuto almeno tentare la fuga, oppure mettersi ad urlare, chiamare aiuto. Ma rimase pietrificato sul posto. Sasha gli strinse una spalla con forza, facendogli indolenzire la parte all'istante, i nervi bruciarono, i muscoli si contrassero. E iniziò a sudare freddo. «Hai tentato di conquistarti un quarto d'ora di fama?» era furioso e neanche si stupì.

La sua voce bruciava, era satura di una rabbia incendiaria, ma Gabriel continuò a non muoversi, a fissare il cestino, a farsi infastidire le narici dalle esalazioni che provenivano dall'immondizia e dalla strada. La testa schiacciata dal caldo, il corpo sopraffatto dal panico.

Se fossero rimasti in mezzo al caos cittadino, Sasha non gli avrebbe fatto del male. Poteva davvero sperare in una cosa del genere?

L'uomo lo strattonò verso di sé, lo spinse verso il muro. Gabriel notò, con sgomento, che sembrava proprio che a nessuno di tutti i passanti fregasse un cazzo di loro due. Li stavano ignorando. Credevano che stesse per scoppiare una rissa? Non volevano rovinarsi il taglio dell'abito? Nessuno li stava guardando. «Io non c'entro niente...» gli strinse una mano intorno al collo, soffocando le sue parole.

Sasha grugnì di rabbia e lo lasciò andare poco dopo. «Tu c'entri sempre. Fai tanto l'innocente, ma sei tu il problema! È colpa tua, lo capisci, sì?» e tornò a stringergli una mano intorno al collo, impedendogli di ribattere.

Il mondo intero sembrava stesse scivolando intorno a loro, ma nessuno pareva accorgersi, ancora, di loro, di lui. Si aggrappò alle sue mani, tentando di allentare la sua presa e di tornare a respirare, ma Sasha lo costrinse in punta di piedi, e lo sollevò da terra, senza il minimo sforzo, ancora di un centimetro, abbastanza da impedirgli di toccare il suolo. Il fiato prese a spingere contro la gola, a tentare disperatamente di farsi spazio fino alla bocca. I polmoni bruciarono e la vista si fece appannata.

Lo lasciò andare di nuovo, all'improvviso, e Gabriel cadde sul marciapiede, tentò di allontanarsi, ma Sasha lo afferrò per le spalle e lo spinse ancora contro il muro. Tossì.

Si sentiva di nuovo disperatamente solo, invisibile, insignificante. Avrebbe voluto urlare, ma il panico continuava a imbrigliare la voce dentro al petto, i sensi non rispondevano come avrebbero dovuto.

Era rientrato in quel meccanismo malato di autodifesa, dove sapeva già che gli avrebbe permesso di fare qualsiasi cosa, dove non si sarebbe azzardato minimamente di contraddirlo, di attaccare, terrorizzato com'era all'idea che l'altro si potesse incattivire ancora di più. Lo conosceva: doveva soltanto dargli ragione, assecondarlo. Sasha si sarebbe calmato e, forse, quella volta, Gabriel non sarebbe finito in ospedale. Solo qualche livido al collo e quello avrebbe potuto sopportarlo – come sempre, lo avrebbe sopportato.

«Con chi hai parlato? Che cosa gli hai detto?» scosse la testa e tentò di allontanare le sue mani da sé, ma aveva commesso un errore e lo comprese prima ancora che arrivasse il primo ceffone.

Tentò di rialzarsi, ma Sasha lo spinse giù premendogli con forza un piede sulla pancia. Così fiero e invincibile, disumano. Così sicuro di sé e del fatto che nessuno avrebbe mai potuto ostacolarlo.

Gabriel non aveva mai ambito a sentirsi un dio come lui, ma di poter racimolare abbastanza coraggio da contrastarlo, quello sì. Eppure, continuava a essere un vigliacco.

«Ho indagato, sai? Ricordi che mio padre ha al suo servizio i migliori investigatori di L.A., sì?» annuì per assecondarlo e Sasha allontanò il piede da lui, lo afferrò sotto le ascelle e lo costrinse a rialzarsi. «Ti sei fatto il fidanzatino, eh? Ti sei messo a tradirmi, eh? E adesso stai cercando di buttarmi merda addosso per fare la troia con lui in santa pace?!» scosse la testa, ma l'uomo lo afferrò per la maglia e lo sbatté contro il muro, mozzandogli il respiro. «Invece, sì. Perché sei una dannata troia!» lo scaraventò sul marciapiede, Gabriel si girò di scatto, lo vide incombere davanti a sé.

Si alzò, mosse un passo indietro e Sasha ne fece subito uno in avanti, invadendo ancora il suo spazio personale. Lo afferrò per un gomito e gli torse il braccio fin dietro la schiena, obbligandolo, ancora una volta, contro il muro. «Tu sei mio. Avresti dovuto farlo presente al tuo caro Morante. Gli piacciono le troie? Poteva investire su i suoi schifosi mocciosi, invece di scoparsi te. Ti ha scopato?» sgranò gli occhi. «Gliel'hai detto che sei soltanto il giocattolo rotto di qualcun altro?» sibilò.

Il dolore alla spalla scese su tutto il braccio, intorpidendogli l'intero arto.

«Magari potrei dargli l'esempio, sì? Che ne dici? Potrei aiutare la tua deliziosa ragazzina a fare pratica, eh? Come hai detto che si chiama?» e accostò un orecchio alle sue labbra.

Gabriel agì senza riflettere, e ne morse l'arcata esterna con forza. Sasha lo lasciò andare immediatamente, urlò e lui sì, riuscì ad attirare le attenzioni dei passanti. Alcuni continuarono per la loro strada, altri rimasero per qualche istante a fissarli, prima di voltare loro le spalle. «Sei impazzito! Mi hai quasi staccato un orecchio!»

Sputò a terra, la bocca impastata, troppo piena del sapore del suo sudore, e represse un conato di vomito. «Non ti avvicinare a loro.» disse in un sussurro tremulo.

Sasha rise, di una risata sprezzante, nonostante il sottile rivolo di sangue che gli scendeva lungo il collo, la mano ancora stretta intorno all'orecchio. Gabriel si sentiva a pezzi, psicologicamente e fisicamente, mentre quel bastardo pareva del tutto indifferente al dolore. «Perché?» chiese con tono canzonatorio e tornò a farglisi vicino.

Il braccio richiamò la sua attenzione con una successione di fitte dolorose, una dopo l'altra. Ne strinse la spalla con l'altra mano. Forse, glielo aveva rotto, non ne era sicuro, ma quel tipo di dolore era nulla, in quel momento, in confronto alla rabbia che stava prendendo possesso di lui.

«Perché sono la tua famiglia?» il suo tono si fece ancora più derisorio.

«Avvicinati a loro e giuro che ti ammazzo.»

Sasha smise di sorridere e di andargli incontro. Lasciò andare l'orecchio, l'arcata esterna era rossa e sporca di sangue, ma la cosa più disgustosa restava il suo sguardo, allibito e divertito.

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