13. Dodgers ed Angels
Non riusciva a dormire. Certo, era difficile farlo in casa altrui, in una casa in cui non si sentiva a casa, in cui si sentiva un ospite indesiderato, anche se alloggiava tra quelle mura cinque giorni e mezzo a settimana. Fuori posto. Si girò sull'altro fianco, recuperò il cellulare dal comodino e lesse l'ora sullo schermo: le tre e trentaquattro del mattino. Sbuffò infastidito e si mise a sedere.
Fuori posto lo era sempre stato, ci si era sempre sentito. Ricordava quando era stato affidato ai Collins, le moine perbeniste di Cecilia, i silenzi snervanti di Steve, le insinuazioni di Mike e le litigate con Raquel e George. Le cene dove le dita tremavano così tanto per la tensione che le posate non riuscivano a c'entrare la bocca, e i respiri si facevano pesanti. La sensazione di dover chiedere il permesso pure per andare al bagno, o per aprire il frigorifero e prendere un po' d'acqua.
Fuori posto. Indesiderato.
Ricordò che era stato solito, durante il periodo dell'affido in Casa Collins, di tenere lo spazzolino da denti sul comodino della cameretta che gli avevano assegnato. Non lo aveva messo in bagno, dentro la tazza apposita, sul lavandino, insieme a tutti gli altri dei membri della famiglia. No. Ci aveva provato e il senso di colpa lo aveva travolto all'istante, come se avesse commesso una qualche specie di crimine.
Ecco, sì, era quella la sensazione: essere non solo di troppo, ma soprattutto criminoso negli atteggiamenti, nel suo volere, anche solo tentare di, entrare a far parte della loro famiglia. Era una sensazione che avrebbe volentieri dimenticato, invece, gli avvenimenti di quella sera l'avevano riportata sulla pelle, in superficie.
Se si concentrava poteva persino immaginare di vederla strisciare sul suo corpo, pronta ad avvolgerlo ancora, completamente, per tornare a renderlo prigioniero.
Si passò una mano tra i capelli e indossò gli occhiali. La passeggiata a Silver Lake con i ragazzi aveva migliorato di molto il suo umore, anche se gli aveva fornito ulteriori spunti sui quali riflettere. Lucy si stava “sciogliendo”: aveva iniziato ad avere una certa confidenza anche fisica con lui – lo prendeva per mano, lo abbracciava, lo toccava spesso senza pensarci. E Drake, Beh, Drake è Drake.
Si massaggiò la parte posteriore del collo, tentando di rilassare i nervi. La situazione gli stava sfuggendo di mano e quella consapevolezza non lo aiutava a dormire per niente. Era soltanto di passaggio, non c'era posto, per lui, nelle loro vite. Voleva dare il meglio di sé per svolgere quel lavoro, ma rischiava davvero di oltrepassare i confini. Fossero stati, Drake e Lucy, due figli di papà qualunque, due ragazzini medio borghesi viziati, “normali”, pure orfani di un genitore, era sicuro che non ci sarebbero stati problemi. Ma erano stati abbandonati dai loro genitori biologici, come lui. Avevano subito un trauma identico al suo. Ed erano stati dati in adozione a un uomo che non li faceva sentire accolti al cento percento.
Gab non era mai arrivato a un'adozione, soltanto brevi periodi di affido, e quello con i Collins era stato, persino, il più lungo – era durato sei mesi. Eppure, la sensazione che provavano i ragazzini era la stessa che aveva provato lui, in passato, non ne dubitava.
«Sarai un baby-sitter perfetto!»
Era ciò che aveva inteso dire Clare? Perfetto per Lucy e Drake, perché immaginava che si sarebbe immedesimato e fatto assorbire da quella situazione? Che amica di merda.
Scosse la testa, si alzò e si diresse verso la cucina. Era pure vero che Clare, durante il loro ultimo incontro, gli aveva dato l'impressione di essersi legata più a Blaze. Era il rischio che si correva nel ritagliarsi degli spazi propri, trincerandosi al loro interno, senza neanche rendersi conto di coloro che ne restavano fuori? Possibile.
Uscì dalla stanzetta che gli era stata data ad uso personale, e notò una luce provenire dal fondo del corridoio che terminava nella zona giorno. Aggrottò la fronte, fece per rientrare in camera, ma poi si decise che avrebbe preso un po' d'acqua lo stesso, infischiandosene di chi avrebbe incontrato. Infischiandosene, soprattutto, dei ricordi spiacevoli del periodo che aveva trascorso in Casa Collins. Avrebbe aperto il frigorifero senza chiedere il permesso.
Era stato troppo preso dal lavoro e dalla propria solitudine, costringendo Clare ad allontanarsi da lui? Non sarebbe la prima volta. E Clare aveva legato tanto con Blaze – e con chissà quanti altri – da averlo scansato all'interno della sua scaletta delle amicizie, relegandolo in fondo. Faceva male, non era sicuro che fosse esattamente ciò che era accaduto, ma era quello che sentiva e, di solito, su quelle cose non si sbagliava. Chissà se si vede con qualcuno...
Riprese a muoversi in direzione della zona giorno, rendendosi conto che era rimasto fermo, appoggiato contro una parete, a pochi centimetri dalla fine del corridoio, lontano dal cono di luce proveniente dalla stanza adiacente.
L'ultima conquista di Clare di cui aveva memoria risaliva ai tempi del college: Fiona. E ricordava che si erano lasciate di merda. Dov'era stato, lui, dopo? Quando Clare avrebbe avuto bisogno di un amico per riprendersi dalla fine di quella relazione, lui che cazzo aveva fatto? Non lo ricordava. Si sforzò di rammentare, ma riuscì a pescare soltanto mesi di nulla cosmico, di lavoro e studio, di giorni, notti passate in casa, da solo.
Ovviamente, nel frattempo, tutta la spavalderia che aveva accumulato per mettere in atto il suo piano di aprire il frigorifero senza chiedere il permesso per farlo si era già esaurita, soprattutto quando si rese conto che l'altro abitante di Casa Morante, sveglio come lui, era proprio Blaze. Cazzo.
Era ancora offeso con lui. L'uomo sedeva sul divano, in pantaloncini, occhiali, e in compagnia di birra, patatine e portatile. Appena lo vide chiuse l'apparecchio e la sua espressione si fece arcigna. Gab lo ignorò, puntò il frigorifero, recuperò una bottiglietta d'acqua e fece per rientrare in camera. Non aveva chiesto il permesso. Strinse la bottiglietta con forza, percependo quella vecchia, spiacevole sensazione tornare a strisciargli sulla pelle.
«Aspetta.» trasalì, ma rimase fermo sul posto. Lo avrebbe rimproverato per aver aperto il frigorifero? «Vieni qui, per favore?»
L'aveva chiesto per favore. Sbuffò, anche se sapeva che ciò lo avrebbe potuto far apparire infantile – ma stava per confrontarsi con lo stesso uomo che si era chiuso in camera propria dopo averlo punzecchiato come un ragazzino. Credeva di potersi permettere di essere un po' infantile, visto che “ragazzino” in confronto a lui lo era davvero – e, poi, non c'erano testimoni scomodi a cui dare conto e ragione delle proprie azioni.
Ed era turbato già di suo, a sufficienza da non riuscire a darsi un contegno da uomo maturo. Forse, in quel frangente, non voleva neppure esserlo. «Sì?» domandò con tono scocciato, incrociando le braccia sul petto, percependo il freddo della bottiglietta bruciargli un po' la pelle nel punto in cui era entrata in contatto.
«Non credi di dovermi delle scuse?»
Come?! «Dici sul serio?»
Blaze abbandonò gli occhiali da lettura sul tavolino di fronte a sé, aprì le braccia sulla spalliera del divano, e lo fissò con una tale intensità da fargli formicolare la nuca. «Hai cercato di mettermi in cattiva luce con i miei figli.»
Aggrottò la fronte. «Sei tu quello che mi ha umiliato...»
«Mi dispiace che ti sia sentito umiliato,» lo interruppe. «Ma tu hai cercato di farmi passare per uno che tratta i suoi dipendenti in base ad antipatie e simpatie.»
Sussultò. Aggrottò di nuovo la fronte, mentre i suoi neuroni cominciavano a vorticare vertiginosamente. Cazzo. Aveva ragione? Tentò di riportare alla mente le dinamiche della loro discussione della sera precedente. È vero. Sgranò gli occhi. Non aveva agito con coscienza né cattiveria, aveva aperto bocca, parlato senza rendersi conto del peso delle proprie frasi. Era stato superficiale. Accusava Blaze di essere un padre superficiale, ma lo era stato più di lui, e la cosa ancora più grave era che Gab restava un estraneo in casa loro: si era preso delle libertà che proprio non avrebbe avuto diritto di prendersi. «Mi dispiace.» aprì la bottiglietta d'acqua e ne bevve un sorso. «Non era mia intenzione.»
Blaze gli rivolse uno sguardo stranito, sorrise incerto. «Mi stai davvero chiedendo scusa?»
«È stato lei a dire che le dovevo delle scuse!» Assurdo! Come si permetteva di rivolgersi a lui con quel tono da beffe? «E aveva ragione. Mi scusi, buonanotte.» gli diede le spalle, ma Blaze lo raggiunse, lo afferrò per una spalla, trattenendolo.
«Anch'io ti devo delle scuse, ho esagerato.»
Aggrottò la fronte, non se l'era aspettato. «Beh, ti sei difeso...»
Blaze scosse la testa e ritrasse la mano. Gab ne seguì i movimenti, finendo per accarezzare con lo sguardo il suo petto nudo, e si sentì arrossire. Premette gli occhiali sulla radice del naso, distogliendo lo sguardo da lui, tornando a stringere la bottiglietta d'acqua come avrebbe potuto fare un naufrago aggrappato a uno scoglio.
«Sono stato infantile, mi dispiace.»
Sai che novità. «Non si preoccupi, è passato. Chiudiamola qui.»
Blaze annuì. «Non sei sveglio per colpa mia? Cioè, per quello che è successo ieri tra di noi...»
Anche, ma col cazzo che te lo ammetto. «Sono rimasto più turbato dall'atteggiamento di sua madre.» sì, era il momento più giusto per affrontare quell'argomento, anche per distogliere l'attenzione dell'uomo da sé. «È stata superficiale e irresponsabile...» e gli raccontò dell'episodio con Lucy.
Blaze sospirò e riprese posto sul divano, poggiò la nuca sulla parte superiore, si lasciò scivolare un po' sulla seduta, incrociò le braccia sul petto e chiuse gli occhi. Una posa decisamente poco elegante, troppo confidenziale – e non riusciva a distogliere lo sguardo dai suoi tatuaggi, favorito anche dal fatto che l'uomo stava continuando a tenere gli occhi chiusi. Belli. Non sapeva trovare altri aggettivi: i suoi tatuaggi erano belli. Piccole opere d'arte, poche a colori, molte in bianco e nero. Animali sulle braccia, una lince, un giaguaro, una tigre, una pantera dalle iridi verdissime, realizzati nei minimi dettagli. I baffi della tigre sembravano vibrassero, tanto erano stati resi realistici. Sul petto la facevano da padrone forme astratte, figure evanescenti tra spirali di fumo. Spiccavano un trìscele e delle scritte su un fianco, che non riuscì a decifrare a causa delle ombre nette che si proiettavano sulla pelle per via della posizione delle braccia. I tatuaggi arrivavano fino all'orlo superiori dei pantaloncini che indossava, continuavano sui polpacci, ma non arrivavano alle caviglie. Continuavano anche sotto i pantaloncini? Si sentì arrossire e decise di ignorare quella curiosità: sarebbe rimasta senza risposta.
Proseguì con gli occhi oltre l'orlo inferiore dell'indumento, c'era più colore sulle gambe, tatuaggi che, nella semioscurità, gli parvero rappresentare qualcosa di floreale. L'unico altro fiore era sul petto dell'uomo, all'altezza del cuore: riconobbe una viola.
Batté le palpebre, rendendosi conto soltanto in quell'istante del silenzio che si era fatto troppo prolungato. Sollevò lo sguardo sul suo viso e scoprì che lo stava fissando a sua volta. Trasalì, ma tentò di dissimulare presto lo stupore.
«Mia madre è una donna particolare.» disse Blaze e gli fu grato per non averlo messo ancora più in imbarazzo con qualche battuta per avergli, praticamente, fatto una radiografia con gli occhi.
Era già fin troppo imbarazzante essersene reso conto da sé. Si schiarì la gola. «Lucy ha quattordici anni.»
Blaze annuì. «Lo so, hai ragione. Posso solo dirti che, per quanto riguarda questo genere di cose, tu tieni conto soltanto delle mie regole. Sono le stesse che conosce Lucy, ma che ama infrangere spesso. Dopo le otto di sera, da sola, durante la settimana, non va da nessuna parte. Nel weekend ha il permesso di uscire con gli amici. Alle dieci deve essere a casa, e Maurice la va a prendere, non torna da sola, né con altri all'infuori di lui o di me. Ma tu il sabato ce l'hai libero...»
«Credo sia utile saperlo lo stesso.» lo interruppe e finì per sedersi vicino a lui, sul divano. Si guardò attorno. «Dov’è Oscar?»
«Dorme con Drake, stanotte.»
«Di solito gli piace stare qui.»
Blaze gli rivolse uno sguardo strano, che non riuscì a decifrare. «Di solito, gli piace stare qui con te.»
Si sentì arrossire di nuovo, e distolse lo sguardo da lui. Non gli capitava da troppo tempo di non riuscire a tenere le emozioni sotto il proprio controllo assoluto. Era pericoloso.
L'uomo recuperò il portatile, lo riaprì. Gab si trovò a sbirciare lo schermo, mentre Blaze indossava di nuovo gli occhiali e rimetteva in esecuzione il video che stava guardando prima della sua interruzione. Strinse con forza la bottiglietta, ne scaturì un singulto plasticoso. Stava guardando una partita di baseball e, come sempre gli capitava in quei casi, l'emozione annebbiò, per qualche istante, ogni altro stimolo. Batté le palpebre un paio di volte, mentre riconosceva addosso ad alcuni giocatori le divise bianche e blu dei Dodgers. L'emozione si affievolì e aggrottò la fronte. «Come mai stai guardando questa partita?» gli stava dando il beneficio del dubbio, avrebbero dovuto riconoscergli un qualche encomio per ciò.
«È una partita che ho perso perché ero al lavoro. È soddisfacente vederli fare il culo ai Giants!»
«Stai scherzando?!» tuonò, e vaffanculo al beneficio del dubbio.
Blaze gli rivolse uno sguardo obliquo. «Non me lo dire...» mormorò con tono mesto, lasciando la frase in sospeso.
Gab si puntò il petto con un dito, lasciandosi travolgere dal fervore sportivo. «Angels!»
L'uomo scosse la testa, rimosse gli occhiali, di nuovo, e si passò entrambe le mani sul viso. «Possibile che riusciamo a trovare così tanti spunti per litigare?»
Si alzò di scatto dal divano. «I Los Angeles Angels sono l'unica squadra veramente californiana! Su questo non si discute!»
«Siete quarti in classifica nella West League...»
«Nell'American West League! I tuoi Dodgers restano una squadretta della National!»
Si guadagnò uno sguardo omicida. «Non mi interessa. Sto soltanto guardando la mia squadra preferita fare il culo ai nostri storici rivali, i Giants. È notte, i ragazzi dormono, domani non lavoro, sto bevendo birra e mangiando patatine, in pantaloncini. Ti sembra che abbia voglia di perdere tempo con te con dello stupido, falso patriottismo?»
Gab gli rivolse un'occhiataccia. «Restano una squadra di origine newyorkese!» sibilò.
Blaze aprì le braccia, fissandolo con espressione ironica, mentre il suo solito, strafottente sorriso tornava a curvargli le labbra. «Ho una figlia di origini coreane e un figlio di origini colombiane! Io sono per metà italiano!»
Fece una smorfia – aveva ragione, in effetti. Ma non aveva alcuna intenzione di ammetterlo ad alta voce. «Visto che non lavora, domani avrebbe potuto recuperare la gita fuori porta che ha rimandato l'altra volta.» stava esagerando di nuovo, non ne dubitava, e per che cosa, poi? L'amore smisurato per la propria squadra del cuore, quella di cui aveva sognato di fare parte, un giorno – prima che il manifestarsi di una precoce artrosi, dovuta alla malattia di De Quervain, che gli era stata diagnosticata appena in tempo per fargli perdere la borsa di studio per Stanford, mandasse a puttane tutti i suoi sogni di ragazzino in cerca di rivalsa. Non gli sembrava una scusa sufficientemente buona per litigare di nuovo, per mancare di rispetto, di nuovo, al suo capo – ma era, ormai, troppo tardi per rimangiarsi quanto detto.
«Già fatto. Te ne parlerò nei prossimi giorni. E non dire ancora niente ai ragazzi, per favore.»
Altra smorfia – ne aveva abbastanza per quella notte, aveva già sforato i suoi tempi massimi di interazione sociale con Lucy e Drake, ormai era davvero oltre, era arrivato il momento di tacere. «Buona visione, allora.» borbottò. «Vado a dormire.»
Blaze lo afferrò per un braccio, avvicinandolo a sé, e gli baciò brevemente una guancia, lasciandolo troppo stupito per reagire in maniera tempestiva. «Buonanotte.» e lo lasciò andare, tornado a guardare la sua partita.
Come avrebbe dovuto reagire? Che cazzo è successo? Chiuse la bocca, gli diede le spalle, e si diresse a passo spedito in direzione della sua stanza. Che cos'era stato? Un bacio della buonanotte? Si passò una mano sulla guancia dove si erano posate le labbra dell'uomo. Era successo così velocemente da non permettergli di afferrare le emozioni che aveva provato in quel preciso istante. Così veloce che non era riuscito a battere le palpebre. Così veloce da non riuscire a capire, adesso, se lo aveva solo sognato oppure no.
Posò la bottiglietta sul comodino, sedette sul letto, strinse con forza il lenzuolo sotto di sé.
Un bacio della buonanotte. Scrollò il capo con forza. Il suo primo bacio della buonanotte in venticinque anni di vita. Si distese su un fianco, lanciandosi di lato, producendo un piccolo tonfo pieno. Recuperò il secondo cuscino e lo strinse con forza tra le braccia, affondandogli il naso, mentre gli occhiali si storcevano, restituendogli una visione un po' confusa dell'ambiente, e la maschera si sbriciolava, lasciandolo tremante e spaventato.
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