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Parte 3

«Un whisky?», domandò don Carmelo, facendo un cenno a uno dei guardaspalle presenti nello studio.

«Con ghiaccio», rispose Dominic, accavallando una gamba e imponendosi di mantenere il controllo, di non dondolare il piede né di ticchettare con le dita sulla lucida superficie in mogano della scrivania.

Il guardaspalle versò il liquore in un ampio bicchiere basso, prelevò i cubetti di ghiaccio dal cestello e li fece scivolare nel liquido ambrato. Dominic afferrò il bicchiere con avidità, non vedeva l'ora di sentire il gelo dei cubetti sotto la lingua. Il liquore e il ghiaccio lo avrebbero calmato. Quando la sera prima era entrato nello studio del boss aveva nutrito grandi speranze sui compiti che gli sarebbero stati affidati. Aveva salvato Vincent, ed era giusto che venisse ricompensato. Purtroppo non aveva fatto i conti con la prudenza e la riservatezza di don Carmelo. Il boss gli aveva affidato la protezione di un civile, non un civile qualunque, ma pur sempre un membro che non faceva parte delle attività della famiglia. La protezione di suo figlio Santi.

Don Carmelo assaporò a sua volta il liquore che gli era stato servito. Alle sue spalle una grande vetrata era coperta da una tenda di lino, ma i profili dei grattacieli e degli alberi di Central Park si intuivano tra la luce abbagliante del mezzogiorno. «Sarà qui a momenti». Quasi non terminò la frase che Salvatore bussò alla porta.

«È qui», disse.

Don Carmelo allontanò il bicchiere dalle labbra. «Perfetto, fallo entrare. Se la mia famiglia è davvero in pericolo e quello che è successo ieri non è stato il risultato di un'azione isolata, ma di un complotto, ho bisogno che entrambi i miei figli vengano protetti e tu, Dominic, hai dato prova di saper fare il tuo lavoro, meglio degli altri». Lo sguardo, velato di un rimprovero implacabile, si spostò per un attimo su Salvatore. Quest'ultimo scomparve dietro la porta bianca. Dalla stessa sbucò un attimo dopo un ragazzo, uguale a quello che Dominic aveva visto nella foto in salone.

Santi avanzò di qualche passo, incrociò il suo sguardo per un solo istante, e Dominic si sentì messo alla gogna. Pur senza dire niente gli occhi azzurri lo avevano condannato, e il fremito delle labbra rosee di Santi suggerivano che alla condanna si accompagnava lo sdegno. Dominic rimase rapito dall'innocenza di quel volto diafano, dalla perfezione dei suoi lineamenti e dal fuoco che per un momento gli aveva incendiato lo sguardo. Gli ricordò un angelo guerriero. Il suo corpo era diverso da quello di Vincent, più esile, meno muscoloso, e Dominic si immaginò quanto facile sarebbe stato piegare quel corpo malleabile ai suo voleri. Dal vivo era molto meglio che in foto. Cazzo, doveva darsi una regolata e fermare i suoi bollenti spiriti, aveva cose molto più importanti a cui pensare. Bevve un altro sorso di liquore, ma il ghiaccio si stava sciogliendo.

Lo studio era caldo, l'aria condizionata spenta, e quando Santi domandò a suo padre con tono ostile: «Mi hai fatto chiamare?», la tensione si tagliava con il coltello.

Don Carmelo strinse le labbra e nemmeno quelle, notò Dominic, Santi le aveva prese da lui. Quelle dell'uomo anziano erano tanto ben disegnate e carnose da apparire eccessive, quelle di Santi, invece, erano come petali di rosa.

«Puoi accomodarti», disse l'uomo, «c'è qualcosa che devi sapere».

«Rimango in piedi», rispose il giovane con il tono di chi avrebbe preferito trovarsi altrove.

Don Carmelo rivolse uno sguardo a Dominic. «Quest'uomo ieri ha salvato la vita di tuo fratello, purtroppo alcune circostanze mi inducono a pensare che anche tu sia in pericolo».

Santi abbassò lo sguardo, come per trattenersi dal replicare con veemenza. «Sono un civile, non ho bisogno di un guardaspalle, se è questo quello che stai dicendo».

«Ne hai bisogno. Dominic sarà il tuo angelo, non ti accorgerai nemmeno di lui. Salvatore, insieme a un altro uomo di mia scelta, si occuperà di tuo fratello. Come ti ho detto è una circostanza particolare».

Santi si alzò, e senza dire una parola lasciò la stanza. Don Carmelo liquidò l'altro guardaspalle che aveva assistito alla conversazione e fece un cenno a Dominic di seguirlo in salone. Vincent era in piedi davanti alla vetrata che dava sul terrazzo e Santi alle sue spalle gli aveva detto: «Che cavolo hai combinato? Perché per colpa tua mi ritrovo un guardaspalle tra i piedi?»

Vincent si voltò per guardarlo negli occhi. «Non è il momento di fare il poeta capriccioso», gli disse con voce dura.

Dominic si domandò perché Santi si opponesse tanto a una scorta, in fondo doveva esserci abituato, con tutti i casini in cui era stata coinvolta la sua famiglia, non poteva essere la prima volta. E se nascondesse qualcosa?, si domandò ancora. Durante i lunghi anni di indagine sotto copertura e non, aveva imparato che i volti più angelici potevano nascondere le peggiori turpitudini. Pareva un sacrilegio pensarlo di Santi, pensarlo davanti al ritratto di sua madre che troneggiava sul camino con un viso degno di una Venere che celebra l'amore sacro. Quello che era chiaro in ogni caso era che i due fratelli, nonostante non avessero apparentemente conflitti di interessi, non andavano d'accordo.

«La mia decisione è presa, Santi. Sei davvero uguale a tua madre», intervenne don Carmelo. La frase del boss bastò a far calare il gelo nella stanza. Santi si spostò da un piede all'altro, ma non fece un passo, gli occhi fissi sul fratello che adesso si era voltato di nuovo per dargli la schiena.

Il boss continuò, questa volta rivolgendosi a Dominic: «Va' a prendere le tue cose e portale qui, darò disposizioni affinché tu abbia una stanza nell'ala est della casa».

Dominic annuì. Incrociò lo sguardo ostile di Santi. Quel moccioso non avrebbe intralciato i suoi piani. Lui aveva un solo obiettivo, una sola idea a cui aveva pensato notte e giorno fin da quando aveva indossato i panni di un malavitoso: sapere il nome del porto italiano dove avrebbe attraccato il prossimo carico di droga, che i clan delle famiglie guidate da don Carmelo volevano smerciare in Europa.

«Farò il più presto possibile», disse, senza distogliere gli occhi da Santi, il cui volto si era colorato di porpora. Rabbia, immaginava Dominic. Quel ragazzo doveva essere l'ultima ruota del carro, nonostante dai modi del padre trasparisse un barlume di tenerezza quando parlava di lui. Lo consideravano, probabilmente, l'eterno bambino, appassionato di poesia e letteratura, dall'animo artistico come la madre, che, a quanto dicevano i dossier, si dilettava quando era in vita con tele e acquerelli.

Don Carmelo annuì, e lui ne approfittò per fare un piccolo cenno del capo e allontanarsi dalla penthouse dove la tensione era alta.

Sulla Fifth Avenue, nonostante l'afa, sentì di poter respirare meglio. Si mescolò tra i passanti, sempre di fretta e vestiti nei modi più vari, si mantenne sul lato interno del marciapiede, per quanto possibile, lontano dall'onda di taxi gialli che sfilavano sulla strada. In lontananza scorse una famosa boutique di gioielli, la cui facciata di granito era segnata da un grande orologio. Affrettò il passo. Aveva poco tempo per prendere le sue cose e dimostrare, anche con la celerità, quanto ci tenesse a servire il boss.

L'appartamento dove aveva alloggiato fino a quel momento era piccolo e in realtà non c'era molto che gli appartenesse davvero. La maggior parte delle cose le aveva comprate dopo l'inizio delle indagini, come una parte della sua recita, e niente di più. Di veramente suo possedeva soltanto la catenina che portava sempre al collo con una medaglietta ovale d'oro, che gli aveva regalato sua madre l'ultima volta che si erano visti.

Dopo aver preso un taxi arrivò a destinazione, ad Arthur Avenue, nel Bronx, una strada dove rimaneva qualcosa di più che un semplice barlume di Little Itlay.

Davanti alla porta del suo appartamento, in un palazzo a più piani dotato di scala esterna, rimase in ascolto. Non poteva permettersi neanche lì, neanche a qualche miglia di distanza dal covo della famiglia, di abbassare la guardia. Il suo fiuto aveva notato qualcosa di strano. La serratura della porta non era chiusa a due mandate, come lui l'aveva lasciata. Impugnò la pistola, ancora nella cintura, e spinse la porta, mantenendosi rasente al muro, ma quando si affacciò dentro rilassò i muscoli del viso e lasciò cadere l'arma su un mobiletto.

L'uomo in piedi nell'ingresso buio, illuminato solo da una lampada fioca, lo fissava sorridente. Era alto, i capelli scuri e corti, la corporatura robusta, la linea non perfetta, ma Dominic aveva sempre amato afferragli i fianchi, affondare le dita nella sua carne. Il volto ovale un po' allungato si aprì in un sorriso.

«Cosa ci fai tu qui?», chiese Dominic, camminando fino al salottino. La vista non era quella spettacolare che si godeva dalla penthouse di don Carmelo o dall'appartamento dell'uomo che adesso lo aveva raggiunto, era un affaccio sul retro di un ristorante da cui esalavano odori di fritto e cibo.

«Dovevo vederti», rispose l'altro.

«Frank, hai controllato che nessuno ti seguisse?»

Frank allungò una mano sul suo viso. «Sono il tuo capo, non devi insegnarmi come si fa il mio lavoro», disse con piglio sicuro.

Dominic lo aveva sempre ammirato per la sua sicurezza, per la dedizione al lavoro, e per il fatto che quando lo scopava lo faceva da dio. Dominic non aveva mai capito se fosse un talento naturale o se la ragione fosse da ricercare nell'esperienza dei suoi quarantacinque anni, una decina in più dei suoi.

Frank ritirò la mano. «Sono venuto per parlare delle indagini, non ti montare la testa».

Dominic lo vide sorridere e si domandò quando avrebbero potuto fare di nuovo l'amore con serenità, senza l'ansia di quell'indagine tra i piedi.

«Da oggi mi trasferisco da loro». Non ebbe bisogno di specificare a chi si riferiva. Vide un lampo di preoccupazione negli occhi dell'altro. Non poteva dargli torto, ma entrambi avevano sacrificato troppo per portare a termine il lavoro e sgominare la malavita che con i suoi tentacoli soffocava la città e persino l'Europa.

«Sta andando tutto per il meglio, dunque», si limitò a dire Frank, in piedi accanto a lui, come se lo spettacolo dalla vetrata fosse degno di nota. «Sono venuto perché anche io ho delle informazioni, ho saputo da una mia fonte che la famiglia di don Carmelo è sotto attacco, un altro clan vuole prendere il controllo delle scommesse e della droga, ed è disposto a tutto, anche a una faida per riuscirci. Lo scambio dell'altra notte è andato all'aria di proposito, diranno che la droga che ha venduto Vincent non era buona».

«Cazzo...», sibilò Dominic. Si voltò e appoggiò la schiena contro il vetro. Non poteva importargli di meno se quella gente cominciava ad ammazzarsi tra loro, sperava solo che questo non intralciasse il lavoro di anni.

«Lo so». Frank sorrise, increspando le labbra. Dominic aveva sempre trovato adorabile la sua barba lievemente brizzolata e la fossetta ai lati della bocca. «Andrà bene, vedrai».

Lui sbuffò, d'improvviso senza forze, stanco di fingere, di stare attento, di indagare, non visto, gli aspetti più turpi dei clan. «Non vedo l'ora che questa storia sia finita».

«Anche io», Frank si avvicinò ancora, «per portarti di nuovo a mangiare fuori».

«A mangiare?»

«E non solo...» Frank gli prese il volto tra le mani. Odorava di acqua di colonia e di carte bollate.

«Se mi porti in un altro ristorante dove servono pasta all'Alfredo ti lascio».

«Starò attento». Frank annullò la distanza tra loro, lo baciò rudemente, con passione, ma senza dolcezza. Lo aveva sempre fatto così da quando si erano conosciuti due anni prima nell'ufficio dove gli agenti scelti venivano istruiti sulle indagini più pericolose. Dominic sentì le sue mani avide insinuarsi sotto la maglietta, e il divano, d'improvviso, contro le sue gambe. Frank lo aveva spinto sui cuscini senza tanti complimenti, e una scossa elettrica aveva attraversato il suo corpo fino ad arrivare dritta al suo membro. Frank gli aveva detto una volta che era la sua discendenza irlandese a renderlo tanto passionale. Dominic gli aveva risposto che quei geni erano ormai andati perduti, e Frank si era messo d'impegno per dimostrargli il contrario. Il risultato era stato una notte di sesso memorabile. Dominic credeva di amarlo, amava il modo in cui lo faceva sentire e l'ideale comune di ripulire la città dai malviventi. Per quell'ideale sarebbero stati capaci di rinunciare a tutto, persino al loro amore, nato in sordina e poi esploso dopo una serata al ristorante. A Dominic scappò una risata.

«Che c'è?», ansimò Frank, le labbra ancora attaccate all'incavo del suo collo.

«Pensavo alla prima volta che siamo andati a cena fuori, la pasta faceva schifo».

Frank si sollevò sui gomiti, una gamba in mezzo alle sue, giusto lì a premere contro il suo membro già duro. «Tu e le tue manie da italiano...»

«Italo-americano», lo corresse Dominic.

«Gli italo-americani se ne fregano se la pasta è scotta». Frank infilò una mano nei suoi pantaloni, dopo avergli slacciato la cintura.

Dominic si lasciò sfuggire un gemito. Voleva di più, molto di più. Non sapeva quando sarebbe stata la prossima volta in cui avrebbe potuto rivedere Frank con tanta tranquillità. «Sbrigati», ansimò.

Frank lo fece voltare, gli abbassò i pantaloni. Dominic sentì solo la confezione del preservativo strapparsi, la saliva dell'altro calda contro il suo corpo, e poi si lasciò andare al sesso rude di Frank. Soffocò un gemito nel cuscino, lo strinse tra le dita, quasi spingendoselo contro il viso, poi sollevò il bacino per dare all'altro l'accesso di cui aveva bisogno e, finalmente, quando Frank colpì la sua prostata, scacciò dalla mente l'immagine del viso arrossato e degli occhi di fuoco del più piccolo dei rampolli di don Carmelo.

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