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Parte 2


Una ragazza scostò la sua ciocca di capelli dietro l'orecchio. Di fronte a lei, il ragazzo con cui parlava si era offerto di tenerle i libri, e il gesto l'aveva fatta sorridere. Santi osservò il viso di lui, un po' squadrato, ma proporzionato, le sopracciglia folte, lo sguardo penetrante. Era sicuro di averlo già visto a lezione di letteratura inglese. Accennò un sorriso, ma quello non sembrò farci caso e prese a camminare con la bella ragazza al suo fianco.

Santi tornò ad addentare il suo sandwich, a chiudere gli occhi, e a sentire il sole sulla pelle. A fingere, come faceva sempre, che l'indifferenza dei suoi colleghi non gli pesasse. Seduto sui gradini che portavano all'ingresso della Columbia, era uno dei pochi studenti a stare da solo, in silenzio, lontano dal cicaleccio degli altri. Le colonne dietro di lui, imponenti, ricordavano un tempio greco e qualche volta Santi fingeva di trovarsi in un'altra epoca, in un altro paese, in un posto dove nessuno sapeva chi fosse.

«Posso?» Un ragazzo gli toccò una spalla, indicando il posto sui gradini accanto al suo.

Santi pensò che era carino, ma che era inutile anche solo tentare di farci amicizia, o qualsiasi altra cosa. Tutto andava bene fino a quando non pronunciava il suo cognome e vedeva la gente abbassare lo sguardo, dire una frase di circostanza e defilarsi più veloce della luce.

«È occupato. Scusa, aspetto qualcuno», rispose allora, ignorando la stretta che gli stringeva il cuore. Vide l'altro fare una faccia delusa e andarsene via, a unirsi ad altri amici nello spiazzo antistante l'edificio.

Santi infilò i libri nello zaino, quasi con rabbia. Odiava il suo cognome, ma se lo avesse mai detto ad alta voce la sua famiglia lo avrebbe considerato un infame. L'unica che poteva capirlo era sua madre, ma sua madre non c'era più: anche lei odiava il cognome che le era arrivato in dote con il matrimonio, e l'aveva odiato con tanta forza che ne era morta. Santi scacciò via quei pensieri. D'improvviso il sole gli era insopportabile così come il caldo di quella mattina di giugno, senza contare che cominciava a sentirsi, come spesso gli capitava, osservato.

Scese in fretta le scale, si disfò del panino, che aveva consumato solo per metà. Non aveva poi molta fame e in parte la colpa era dell'alcol e delle droghe che usava durante il weekend. Ufficialmente a scopo ricreativo, in realtà per dimenticare tutto ciò che odiava nella sua vita.

Evitò gli altri studenti, quelli che abbassavano lo sguardo in segno di riverenza gli facevano salire la nausea ancor più di quelli che lo scansavano senza tanti complimenti. La sensazione di sentirsi osservato si fece più intensa, ma non riuscì a pensarci oltre, perché si sentì tirare per un braccio, proprio dopo che era arrivato all'ultimo gradino. Si divincolò. Riconobbe dall'odore di tabacco e dal profumo troppo intenso uno degli energumeni di suo padre, uno dei così detti guardaspalle, Salvatore. Santi aveva tentato di non memorizzare i loro volti né i loro nomi, ma Salvatore era inconfondibile con la sua aria a metà tra la prepotenza e l'asservimento. Avrebbe fatto di tutto pur di essere considerato parte della famiglia e da quando suo fratello Vincent era entrato ufficialmente nella gestione degli affari di famiglia, Salvatore gli era alle calcagna.

«Cosa vuoi?», domandò Santi, sentendo la presa salda sul suo braccio. L'odore della pioggia della notte prima aveva reso l'aria umida e a lui parve di non poter sopportare il caldo e quell'uomo.

«Deve venire con me, mi dispiace disturbarla qui, ma ho l'ordine preciso di prelevarla».

«Prelevarla...», ripeté Santi, come se la parola non avesse senso. La sua famiglia viveva di regole non scritte: la prima era l'ubbidienza ai padri, la seconda la pretesa che a quelle regole dovessero piegarsi anche quelle ufficiali dello Stato. Era per questo che adesso si ritrovava a dover accettare la volontà di suo padre come se fosse un delinquente qualsiasi che veniva arrestato dalla polizia.

«Venga, è un'emergenza», lo incalzò Salvatore.

Santi si allarmò. Un'emergenza per una famiglia come la sua faceva troppo spesso rima con morte e sangue. «Di che si tratta?»

«Non qui», rispose l'altro lapidario.

Santi lo seguì fino alla sua auto e si infilò dentro. «Allora?», domandò, il cuore a mille.

Salvatore infilò la chiave nel cruscotto e mise in moto. «Non può andare in giro da solo, può essere pericoloso».

«Ma mio padre e mio fratello?»

«Stanno bene. Per ora».

Santi allungò la mano verso lo zaino per prendere un libro di poesia e calmarsi, ma presto realizzò che in quell'occasione non avrebbe funzionato. Aspettò che Salvatore arrivasse a destinazione e poi lo seguì nella penthouse sulla Fifth Avenue. Il guardaspalle davanti alla porta aveva lo sguardo più attento del solito. Una volta entrati Santi notò che Salvatore continuava a stargli alle calcagna come se qualcuno potesse sbucare da dietro il divano o i mobili pregiati e sparare. Si respirava l'aria di quando c'era un casino, di solito causato dalle intemperanze di Vincent, ma questa volta doveva essere diverso. Cos'altro poteva succedere per rovinare la sua vita? Non era già abbastanza terribile essere parte di un sistema malato che lui non aveva mai scelto?

Vincent era seduto sul divano e sorseggiava un cognac liscio, apparentemente con gli occhi neri persi nel panorama che si godeva dalle vetrate, ma Santi lo conosceva troppo bene e sapeva che non stava davvero ammirando le chiome di Central Park, piuttosto inseguiva con lo sguardo un suo disegno personale, la sua sfrenata ambizione, quei progetti che lo rendevano tanto simile al loro padre.

«Ero all'università», esordì Santi.

Vincent posò il bicchiere sul tavolino. «Quella che ti paghiamo noi», gli ricordò, come se Santi potesse mai dimenticare che doveva la sua vita di lusso ai soldi sporchi.

Suo fratello si alzò, si mise davanti a lui, le gambe divaricate, le mani in tasca. Se Santi avesse chiuso gli occhi, avrebbe avuto la sensazione di trovarsi davanti a suo padre, tanto le loro voci e le loro parole erano simili. Vincent era sempre stato il rampollo prediletto e non solo perché era il maggiore, ma perché senza fiatare, anzi con entusiasmo, aveva accolto il suo stile di vita e vi aveva preso parte attivamente. «Se anche io fossi stato come te, nostro padre avrebbe dovuto mettere gli affari di famiglia in mano a un estraneo», gli aveva detto una volta, poi aveva aggiunto: «un civile», scandendo bene ogni lettera, come se l'esserlo fosse un'offesa, un marchio di cui vergognarsi. Qualche volta Santi si domandava se davvero anche lui fosse figlio di Carmelo, ma l'onestà di sua madre non gli permetteva di considerare questa che una piccola fantasia.

«Si può sapere che succede?» Posò lo zaino sul divano, facendo bene attenzione a non far scivolare fuori i libri. Non avrebbe sopportato altri commenti sprezzanti su quanto inutili fossero la poesia o la letteratura.

«Nostro padre ti aspetta nel suo studio, ti spiegherà lui».

Santi avrebbe voluto ribellarsi, ma non ne ebbe la forza. Non aveva il temperamento di Vincent, e la sua unica ribellione era affogare la vita che il destino gli aveva riservato nell'alcol e nella droga.

Voltò le spalle a suo fratello. Odiava entrare nello studio di suo padre. Ogni volta che ci metteva piede gli sembrava di sentire l'odore del sangue che doveva essere versato, solo perché lui e le altre famiglie avevano così deciso. Aveva cercato durante i ventuno anni della sua vita di non prestare ascolto, di non fare attenzione, ma anche lui sapeva che in quella stanza venivano prese le decisioni più importanti, più controverse e, soprattutto, quelle che avrebbero causato più sofferenza.

Sollevò il pugno, e bussò sul legno.

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