Parte 1
New York, giugno 2018
Le persone rimaste sul molo affrettarono il passo. In poco tempo la passerella di legno e cemento che ospitava i ritardatari si svuotò. Deserti apparvero la ruota panoramica e i locali colorati che rallegravano il lungo mare di Brighton Beach, mentre il cielo carico di nubi si indorava preannunciando il buio. Un urlo in russo perforò l'aria, ma era soltanto il grido di rimprovero di una madre a una figlia che si attardava sotto la pioggia. I russi erano dappertutto in quel quartiere di Brooklyn.
Dominic aveva i sensi all'erta. Tutti. Non poteva permettersi di fare altrimenti. L'auto all'interno della quale viaggiava in compagnia di altri due uomini oltrepassò il grande albergo, la cui superficie bianca, animata da decori di pietra, veniva lavata dall'acqua. Era ironico che le persone a cui stava tenendo compagnia pensassero che l'unico liquido in grado di lavare davvero qualcosa fosse il sangue.
Dominic strinse il calcio della pistola, saldamente infilata nella cintura dei pantaloni. Ne nascondeva un'altra, più piccola e maneggevole, vicino alla caviglia. E poi c'era il coltello, in tasca. Un armamentario completo che era diventato il kit necessario per la sua sopravvivenza. Insieme all'abilità di simulare, dissimulare e raccontare credibili bugie. L'accento italiano, ereditato da sua madre, lo aveva aiutato.
«Siamo arrivati», lo riscosse la voce dell'autista.
La pioggia batteva violenta sui vetri. Dominic sapeva che dovevano scendere in spiaggia, attraversare la fila di cabine colorate che a stento si distinguevano nella tempesta di acqua e sabbia che imperversava. Era quasi sera, e il tempo era perfetto.
Dominic simulò un'espressione tranquilla. Dio solo sapeva quanto odiasse essere coinvolto in quei lavori di routine, senza importanza, come lo scambio di una partita di droga. Lui aspirava ad altro, con tutto ciò che gli costava condurre quella vita, frequentare la famiglia italo-americana più famosa di New York tra le forze dell'ordine e i clan mafiosi. Il clan M. L'iniziale era sufficiente a far rizzare i capelli dei nemici e far inginocchiare gli amici.
Davanti a lui c'era Vincent, il rampollo della famiglia. Si mosse sul sedile. Impercettibilmente. Dominic lo notò: osservava quel ragazzo da mesi e avrebbe saputo riconoscere ogni smorfia sul suo viso. Era nervoso, anche se non ce ne era motivo. Accanto a Vincent, invece, sedeva il suo guardaspalle, una sorta di guardia del corpo personale che il boss aveva assegnato al figlio e che lo aiutava nei lavori più semplici.
«Dobbiamo raggiungere l'ultima fila delle cabine», disse Vincent, voltandosi verso di lui. «Dominic, tu stai al mio fianco».
Dominic annuì. Vincent aveva il piglio del comando, ma in qualche modo sul suo viso dai contorni marcati, dai toni scuri, dalla mascella sporgente, faceva capolino una riga in mezzo alla fronte che denunciava la sua sottile inquietudine, l'ansia di impressionare suo padre. Quella ruga disfaceva l'aria di imperturbabilità che ogni uomo di comando dovrebbe avere e rendeva Vincent inadatto allo scopo. Dominic si aspettava dal giovane un colpo di testa nel momento meno opportuno.
«Ai tuoi ordini», rispose, aprendo lo sportello. Si sentì addosso lo sguardo di Salvatore, il guardaspalle, che non lo aveva mai potuto soffrire. Mi invidia, pensava Dominic, ma una parte di sé si domandava se, nonostante tutti i suoi sforzi, Salvatore avvertisse che era un corpo estraneo, un commediante che non credeva affatto nei valori dell'onore e del sangue. Si diede una rapida occhiata allo specchietto: i capelli neri, gli occhi color cioccolato, la pelle olivastra lo facevano assomigliare al macho italiano che popolava l'immaginario delle donne americane, e degli uomini. Le labbra carnose e ben disegnate erano ciò che dava un aspetto volitivo al suo viso e rendevano credibile il suo ruolo di cattivo, di ragazzo che voleva farsi strada nel mondo del malaffare dopo essere stato abbandonato dal padre e aver perso la madre. Gli era stata cucita addosso una storia perfetta e a lui non rimaneva altro che interpretarla. In fondo, era davvero di discendenza italiana, era davvero nato nel New Jersey anche se poi si era trasferito quasi subito a New York, era davvero stato abbandonato da suo padre; sua madre, invece, era ancora viva e vegeta, e se ne era tornata in Italia presa dalla nostalgia di una terra che non aveva mai davvero conosciuto e dove aveva deciso di voler morire.
«Che aspetti?», gli domandò il guardaspalle, impaziente. «Hai paura che ti si rovinino i vestiti?»
Dominic aprì lo sportello senza degnarlo di una risposta. Il guardaspalle lo seguì, e solo alla fine scese Vincent.
La pioggia cadeva inclemente e il vento sollevava la sabbia. Dominic strinse gli occhi, era quasi impossibile vedere a più di tre metri. Lo scrosciare della pioggia e delle onde copriva le urla e i rumori. Era uno scenario perfetto per un delitto, ma non per una trattativa.
«Merda», biascicò Vincent, avanzando sulla sabbia resa fangosa.
«Qui è pulito», urlò Salvatore.
«Anche qui», confermò Dominic, spalancando la porta di una cabina in legno. Trovarono rifugio sotto una tettoia. Dominic guardò l'orologio, impaziente. Vincent si mordeva le labbra, altro tic che denunciava il suo temperamento troppo passionale per il comando.
Quando il rumore di passi si avvicinò, Dominic strinse il calcio della pistola. I sensi all'erta, per l'ennesima volta. Due uomini sbucarono dal temporale e fecero la loro comparsa sotto la tettoia, anche essi fradici.
Erano due membri di un altro clan, i Calabresi, nati tutti in America, ma a cui era rimasto appiccicato il nome di una regione che molti di loro non avrebbero saputo neanche indicare sulla cartina geografica. Uno dei tanti clan con cui la famiglia di Vincent stringeva accordi per controllare New York. Uno dei tanti che, di certo, mirava al potere, aspettando tempi migliori per scacciare il boss, il padre di Vincent.
«Mandate i miei saluti a don Carmelo», disse uno dei nuovi arrivati.
Vincent si limitò ad annuire. «E voi i miei a vostro padre». Poi fece segno a Salvatore di avanzare, quello si avvicinò e aprì la valigetta che aveva in mano. Droga.
L'altro uomo annuì, e a sua volta fece segno al suo compare di aprire una valigetta. Contanti.
Lo scambio si sarebbe concluso presto, pensò Dominic, ma un movimento inatteso lo mise in allarme, risvegliando l'adrenalina nelle sue vene. Uno degli uomini dei Calabresi aveva afferrato Vincent e con una mossa repentina gli puntava un coltello alla gola.
«Che cazzo fai?», ringhiò il giovane.
«Non era questa la quantità di droga che avevamo pattuito», disse l'altro, la punta del coltello a premere sulla tenera carne del collo.
«Che cazzo dici?», sibilò Vincent.
Salvatore aveva tirato fuori la pistola, ma era incerto sul da farsi. Dominic non ci pensò due volte: tirò fuori la sua e con un colpo secco mise fuori combattimento l'altro compare calabrese. Vincent approfittò del momento di smarrimento per divincolarsi, ma ormai l'aggressore era stato reso inoffensivo: Dominic gli puntava la pistola alla testa.
«Me la pagherai», schiumò Vincent, mentre estraeva la pistola. Ancora affannato per lo spavento la premette sulle labbra dell'uomo, che cadde in ginocchio.
«Non farlo», intervenne Dominic, il cuore in gola. Non immaginava di finire la serata in un lago di sangue, anche se ormai doveva esserci abituato. «Se lo uccidi, le famiglie penseranno che hai qualcosa da nascondere».
Vincent sembrò rifletterci un attimo, i tratti del volto si rilassarono di colpo. «Bada, ti lascio vivo, solo perché la tua famiglia sappia della tua carognata e ti dia la punizione che meriti».
Abbandonarono la tettoia con l'uomo ancora in ginocchio, e si infilarono in auto. Vincent aveva ripreso colore. Sbatté i pugni sul cruscotto. «Se non ci fosse stato Dominic non so come sarebbe finita, che aspettavi a intervenire?», ringhiò a Salvatore, che si limitò a rimanere in silenzio. «Se non fosse stato per Dominic quel bastardo mi avrebbe fatto fuori. Che cazzo stai lì impalato? Metti in moto».
Salvatore ubbidì, mortificato. Attraverso lo specchietto retrovisore Dominic intercettò il suo sguardo carico di odio, ma non ne fu impressionato. Doveva battere il ferro finché era caldo. Quella notte piovosa e troppo fredda per il mese di giugno gli aveva dato su un piatto d'argento l'opportunità di farsi notare e lui non l'avrebbe sprecata.
«Hai fatto qualche sgarro a quel tipo? Una storia di donne?»
Vincent si voltò verso di lui. «No, chi vorrebbe stare con lui, comunque?»
Dominic dovette trattenersi per non alzare gli occhi al cielo. Vincent era bello, ma il suo ego superava di gran lunga la sua bellezza.
«Dobbiamo dirlo a tuo padre. Se non è una questione tra voi, allora c'è la possibilità che questo sia stato un agguato premeditato, lo scambio era una trappola e se volevano fare fuori te con una scusa, è possibile che vogliano fare lo stesso con tuo padre, e che questo sia un attacco alla vostra famiglia».
«Bastardi», sibilò Vincent. «Hai ragione. Torniamo subito a casa», disse rivolgendosi a Salvatore, mentre continuava a tormentarsi le gambe con le dita, affondando le unghie nelle cosce come se fosse stato sull'orlo di una crisi di nervi o di un attacco omicida.
Dominic si rilassò sul sedile. Se tutto fosse andato bene, avrebbe avuto quello che voleva. Sentiva che si era guadagnato la fiducia di Vincent, e dal modo in cui Salvatore lo guardava, doveva avere ragione. Il sangue e l'onore venivano prima di tutto per la famiglia di don Carmelo, e l'aver salvato il suo rampollo non poteva che dargli dei vantaggi.
Inspirò profondamente e ripassò nella sua testa, per l'ennesima volta, la storia che i suoi superiori gli avevano cucito addosso per convincere quelle belve assetate di sangue che era uno di loro.
Dopo un tragitto che gli parve interminabile, perlopiù occupato dagli improperi di Vincent, arrivarono sulla Fifth Avenue, la strada su cui sorgeva il ricco palazzo e la penthouse occupata dalla famiglia. Dominic non ci aveva mai messo piede, ma quella doveva essere la sua serata.
«Anche lui?», domandò Salvatore senza riuscire a nascondere l'irritazione nella sua voce, quando Vincent aprì il portone.
«Anche lui», ripose deciso il giovane, rivolgendo al suo guardaspalle un'occhiata di sbieco.
All'ingresso li attendeva un altro gorilla.
«È tornato mio padre?», gli domandò Vincent.
L'uomo annuì e si fece da parte. La casa odorava di soldi, dio solo sapeva in quale modo guadagnati. Dall'ingresso si intravedeva un lungo corridoio che pareva una galleria d'arte, le pareti alternavano pannelli in legno bianco abbacinante a tele dipinte. I passi risuonarono sul pavimento di granito. Lateralmente si aprivano due porte, e dalla posizione in cui Dominic si trovava, poteva scorgere le ampie vetrate del salone e la macchia buia di Central Park sotto di esse.
Vincent gli fece strada verso destra, indicando una porta che conduceva al salone. L'ambiente era ricco e raffinato come Dominic se lo aspettava, forse meno pacchiano di quanto credeva. Anche qui le pareti erano ricoperte di pannelli bianchi e lucidi. Un camino in fondo alla parete era spento e freddo, ma il piano di marmo scuro lo faceva sembrare ugualmente regale.
«Aspetta qui», lo riscosse Vincent, «mio padre deve essere nel suo studio».
Dominic lo vide allontanarsi e ne approfittò per dare un'occhiata alle finestre. Come aveva intuito la casa era circondata da un terrazzo e da una vista mozzafiato sul parco. Su un mobile in ciliegio troneggiavano le foto di famiglia, in cornici d'argento. Nessuno avrebbe mai detto, guardandole, che dietro quei volti ben proporzionati, alcuni davvero belli, si nascondessero tante atrocità, tante infrazioni alla legge di dio e degli uomini. Sembrava una famiglia come tante. C'era la foto di Vincent bambino e altre che documentavano la sua crescita, l'espressione volitiva sempre più accentuata con il passare degli anni, e poi quelle di suo fratello, la cui espressione, invece, diventava di foto in foto sempre più malinconica e sognante, come se avesse dovuto rifugiarsi in un altro mondo per sopravvivere a quello che suo padre gli aveva costruito attorno. Dominic si soffermò a guardarlo in una foto scattata sul terrazzo. Sullo sfondo di una cascata di dalie rosate, spiccava il suo viso dai tratti delicati, gli occhi di un indefinibile colore tra il verde e l'azzurro, i capelli biondi resi caldi dalla luce del sole. Quasi senza accorgersene allungò le dita fino a sfiorare il suo volto, lo zigomo un po' alto, che nulla toglieva alla delicatezza dei lineamenti efebici. Era diverso da Vincent e da suo padre, era in tutto e per tutto la copia di sua madre, il cui ritratto campeggiava sulla parete sopra il camino. Avevano la stessa espressione degli occhi, dolce e un po' spaurita. La donna era morta in un incidente dalle circostanze poco chiare, come Dominic aveva appreso nei tanti dossier studiati per diventare un agente sotto copertura, e il figlio minore, Santi, era quello che in gergo si definiva un civile, ossia colui che non aveva un ruolo attivo negli affari di famiglia.
Dominic spostò lo sguardo su un'altra foto che ritraeva Santi all'università, il giorno della laurea del fratello: li separavano tre anni, un volto differente e, a quanto sapeva, un diverso temperamento. Ma dei dossier ci si poteva fidare fino a un certo punto. Ne aveva viste tante durante la sua carriera, inclusa la trasformazione di un tranquillo civile in un efferato assassino. Il richiamo del sangue, aveva imparato, per quella gente era più forte di qualsiasi principio.
Uno scalpiccio lo riscosse dalle sue riflessioni. Tirò via la mano e si allontanò in tutta fretta dalle cornici e dalla foto del ragazzo con l'aspetto angelico. I riflessi pronti erano una delle sue migliori qualità. Vincent e suo padre Carmelo lo trovarono seduto sul divano.
Dominic si alzò quando l'uomo più anziano incrociò i suoi occhi. Don Carmelo aveva sessantadue anni, lo sguardo deciso, un volto solcato da rughe create dalle preoccupazioni più che dal tempo e le labbra volitive come quelle di suo figlio maggiore. A differenza del suo rampollo, però, sull'uomo più anziano aleggiava un'aria di salda tranquillità, che gli conferiva l'aspetto da leader.
«È lui?», domandò don Carmelo, squadrandolo.
Vincent annuì. «Mi ha salvato la vita».
«È un onore e un dovere», disse Dominic, ripetendo una parte che aveva imparato da tempo.
«Io e lei dobbiamo parlare», replicò don Carmelo, facendo un cenno verso il corridoio.
Dominic trattenne il fiato. Dopo mesi di lavoro, entrava nel covo del boss che controllava i clan più potenti della malavita newyorkese.
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