🪲Terzo capitolo 𓂀
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I giorni successivi Mine trovava sempre scuse nuove per raggiungere la piazza di Za'net.La sola speranza di poter rivedere quel suo Osiride mortale le dava una gioia smisurata ogni mattina.
Ancora non ne conosceva il nome vero, eppure, per lei, quel ragazzo che si occupava delle vendite dei frutti che coltivava con il padre era incredibilmente simile al dio.
Lo guardava per qualche istante, in silenziosa adorazione, poi fuggiva via non appena lui si voltava. Non riusciva a reggere il contatto dei loro occhi, quasi non sentendosi degna di lui.
Era passato più di un mese e non era mai riuscita a parlargli, nulla più di un semplice saluto sfuggente. Eppure sembrava bastare per entrambi, felici che quel piccolo rituale accadesse quasi ogni giorno.
Di lui non sapeva quasi nulla, neanche se fosse già sposato con qualcuna perché, come spesso Erdie le faceva notare, aveva già tagliato la treccia sul capo, segno che ormai doveva essere stato circonciso ed entrato nell'età adulta.
Akerat aveva preteso la verità dalle due gemelle e Mine gliela aveva confidata. Le aveva detto che quel ragazzo quasi sconosciuto le occupava gran parte dei pensieri.
«I tuoi sentimenti sono puri e adorabili, bambina mia» le diceva la donna «Ma tu sei figlia di un vizir e lui un semplice contadino. Non c'è futuro per questo tuo amore. Io e tua sorella possiamo aiutarti a placare le pene del cuore portandoti vicino a lui, ma ricorda che questo non ti porterà una felicità duratura».
«Sì, ne sono consapevole» rispondeva quasi meccanicamente «Voglio solo vederlo, non vedo nulla di male in questo».
E, invece, di notte non faceva altro che fantasticare su un futuro con lui.
Solo vedendolo i suoi giorni sembravano acquistare un senso, e se capitava che non lo incontrasse, tormentava Akerat ed Erdie in merito alle sue paure. Temeva gli fosse successo qualcosa, o che si trovasse con un'altra donna. Si ripeteva che se fosse stato preda di una malattia avrebbe costretto suo padre Imhotep, che fra tutte le sue virtù vantava anche una grande cultura medica, a curarlo.
Un giorno Mine si decise a fare qualcosa, era stanca di poterlo solo vedere da lontano. Avrebbe vinto la sua timidezza parlandogli un'altra volta. E lo doveva fare da sola, senza la sua scorta al seguito.
Non si era mai allontanata da casa sola, anzi era raro perfino che girasse nella sua dimora senza Akerat o il suo eunuco.
Quella mattina, durante le abluzioni, quando le loro serve si erano allontanate per riempire i catini di acqua pulita, Mine ne approfittò per mettere al corrente Erdie della sua idea.
«Vuoi fare cosa?! » saltò su la sorella nell'udire quella pazzia.
«Ssh, ci potrebbero sentire! » le fece segno con le dita di fare piano «Ti prego! Ti prego! » le prese poi le mani e le portò accanto al viso «Aiutami e ti giuro che ricambierò questo favore».
«Mine, ma sei pazza! Anche se tu riuscissi ad allontanarti da sola, se papà lo venisse a sapere – e lo verrà a sapere certamente – ti rinchiuderà a vita! Anzi, ci rinchiuderà perché capirà che ti ho aiutata. E io non voglio smettere di studiare scrittura sacra con Hesyra! »
L'altra sbuffò sconsolata, sfoderando il miglior sguardo sconsolato. «Per favore! Tanto so che hai certamente un piano per la fuga, ti conosco e in questo sei geniale! Hai un sempre un piano per tutto! »
Nonostante Erdie cercasse di guardare sua sorella con durezza alla fine cedette.
«Questa cosa non porterà a nulla di buono».
Quello stesso pomeriggio, mentre le due sorelle fingevano di nutrire i gatti accanto al grande stagno, Erdie le spiegò il piano.
«Se passi dalla porta principale le guardie ti vedranno. Devi uscire dal canale che alimenta la grande vasca» Mine guardò di riflesso il canale che entrava nel giardino da un passaggio nel muro. Non era molto grande ma abbassandosi nelle acque sarebbe passata.
«Ma non devi farlo ora! » continuò Erdie tirando a sé sua sorella. «Di solito verso quest'ora i nostri eunuchi iniziano a trangugiare birra e il calore li fa crollare addormentati come sassi. Sembra che si stiano solo riposando su quelle sedie, ma in realtà dormono profondamente. Krio non è un problema, è una mezza ritardata. Mentre Akerat cercherò di distrarla io».
Quando i due Eunuchi si sedettero sulle sedie in vimini con il capo chino, Erdie seppe che era il momento di agire. Si alzò e si incamminò verso Akerat che stava giocando a mehen* con un'altra schiava anziana. Diede uno sguardo anche a Krio che era impegnata a tessere dei tessuti, probabilmente i suoi.
Mine vide sua sorella sedersi su una stuoia e iniziare a parlare con Akerat. Anche se era distante, sapeva bene che Erdie le stava domandando qualcosa sulla Nubia, probabilmente qualche vecchia leggenda. Quella donna poteva passare anche giorni interi a parlare del suo popolo reso schiavo dal re Necherkhet.
Quando Erdie fu certa che Akerat fosse ormai concentrata sui suoi racconti, fece un gesto alla sorella che prontamente si nascose sotto un telo in tessuto e si avvicinò alla foce del canale.
Mordendosi un labbro per frenare l'ansia entrò nel ruscello quasi pentendosene subito. Il fondale era molliccio e viscido e si costrinse con ogni forza a non guardare cosa stesse calpestando. Si tenne alla pietra del muro per impedire alla corrente di destabilizzarla, si inchinò e attraversò i trenta centimetri di tunnel che la separavano dall'uscita.
Quando fu fuori dalle mura sentì il peso del suo folle gesto gravarle sulle spalle. Erdie aveva ragione, se fosse stata scoperta avrebbe passato dei guai seri. Avrebbe potuto solo sperare nella clemenza di suo padre poiché lei non aveva mai infranto alcuna regola.
Risalì sulla terra asciutta con non poche difficoltà. La terra non era curata lì e le erbacce rendevano il terreno ancora più fangoso e ricco di insettini stomachevoli. La ragazzina chiuse gli occhi e si aggrappò alle erbe di fiume per risalire.
Cercò di ripulirsi meglio che potè con il mantello bagnato e se lo rimise indosso dal lato sporco: in questo modo assomigliava più ad una stracciona che alla figlia di un potente vizir.
Corse via più veloce che potè verso la piazza del suo paese senza voltarsi indietro.
Lungo il tragitto pregó la dea Iside affinché quella follia non fosse stata vana, che lui quel giorno fosse lì come sempre.
La piazza era sempre la stessa, ricca di bancarelle e di uomini che gridavano per mettere in mostra la loro mercanzia; vide anche quella di frutta che le interessava e l'uomo che lavorava insieme al ragazzo. Ma non lui.
«Perché non ci sei...» sussurrò appena, con il cuore in frantumi. Quella delusione le impediva di pensare, il suo cervello si era come congelato.
«Scusa, hai bisogno di aiuto?»
Un tocco sulla spalla, una voce famigliare. Si voltò e lo vide: occhi negli occhi, entrambi spalancati per lo stupore di trovarsi uno di fronte all'altra. Era alto quanto lei, e questo le permise di poter osservare ancora quelle iridi così particolari, calde e dolci.
Non sapeva da quanto tempo erano lì in silenzio, e si sentì enormemente stupida.
«Tu? » domandò lui sorpreso di vederla indossare abiti così sporchi e soprattutto da sola.
«Eh, già io...» disse. Si sentì ancora più sciocca nell'aver risposto in quel modo. Sarebbe stato meglio se avesse taciuto.
«Ti è successo qualcosa? »
«No no! » rispose lei con enfasi, agitando le mani nervosamente. «Sono uscita di nascosto e la fuga non comprendeva luoghi pulitissimi»
Si sentì prudere il capo sotto la parrucca, qualcosa che succede solo quando sudava molto. La speciale polvere aromatica che usavano come isolante le aveva sempre evitato quel fastidio.
«E come mai sei scappata? » domandò lui subito dopo.
Mine aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito dopo, non sapendo assolutamente cosa rispondere. In verità non aveva affatto preventivato un discorso con il suo Osiride ; anzi non credeva affatto che gli avrebbe parlato. In cuor suo era certa che appena lo avesse visto sarebbe fuggita via come sempre.
«Scusa non volevo farti tutte queste domande per metterti a disagio. Che ne dici se ci andiamo a sedere lì all'ombra?» le propose indicando il muro di fango di un'abitazione povera. «Staremo al riparo dal sole».
«Va bene».
Mine seguì il ragazzo e gli si sedette ad una distanza non troppo elevata. Era accaldata e questo lui lo aveva notato. Prese perciò la borraccia che aveva infilato nella stringa del perizoma** e le offrì dell'acqua fresca, appena presa dal pozzo.
Mine la bevve con movimenti un po' impacciati: non aveva mai bevuto da un oggetto simile, era abituata a sorseggiare da tazze finemente decorate o da ciotole altrettanto preziose.
«Sai, mi sembra così strano vederti qui, accanto a me senza la tua scorta di ancelle e guardie armate».
Sorrise. «Anche a me, Osiride».
«Osiride? » chiese lui sorpreso.
«Scusami, è il nome che uso quando ti nomino con mia sorella Erdie. Non conosco il tuo nome».
«Tu parli di me? » domandò ancora, sorpreso e nello stesso momento più felice.
Mine si sentì imbarazzata come mai prima di allora. Aveva parlato troppo. «Forse è meglio che vada. Scusa se ti ho trattenuto dal tuo lavoro».
Il ragazzo la tenne di impulso dal braccio. «Se puoi ancora restare, non andare» le disse con un tono forse eccessivamente mesto «Ad ogni modo mi chiamo Hapykhfui».
La ragazza si risedette, felice di aver appreso quell'informazione. Per gli antichi egizi conoscere il nome di qualcuno era molto importante, poiché il nome permetteva all'individuo di esistere. Conoscere il nome di qualcuno permetteva di salvarlo attraverso formule magiche o di ucciderlo. Permetteva la vita eterna così da poter essere chiamato dagli dei e vivere per sempre nel campo dei giunchi. Cancellare il nome di qualcuno dopo la morte equivaleva a condannarlo per sempre.
Se quel ragazzo le aveva detto il suo nome di sua spontanea volontà voleva dire che si fidava di lei.
«Un inno di ringraziamento al dio Hapy, ti porterà molta fortuna».
«I miei genitori mi hanno chiamato così perché mi ritrovarono poco più che neonato in una cesta seminascosta nel limo dopo le inondazioni. Il dio Hapy deve avermi protetto dalla piena. Tu invece? Qual è il tuo nome? »
«Mineptah, ma tutti mi chiamano solamente Mine. Più semplice».
«Tuo padre deve volerti molto bene se ha invocato su di te la protezione del dio creatore».
La ragazza sorrise ancora, era sempre felice quando suo padre veniva nominato. «Già. Per lui io e mia sorella Erdie siamo ciò che ha di più importante» concluse poi aggiustandosi qualche ciocca della parrucca per sedare in parte la sua agitazione.
«All'inizio stentavo a credere che la figlia di un potente vizir come Imhotep, mi invitasse a giocare con il suo gruppo di amici. È stato davvero surreale per me».
«E perché mai? Anche se noi tutti lì siamo figli di potenti funzionari questo non ci rende diversi da te a livello fisico. L'unico un po' presuntuoso è Smencare, essendo primo nipote della nostra maestà si sente migliore di tutti. È diffidente anche con me ed Erdie poiché non facciamo parte della famiglia reale».
«Ah, no? Credevo che tutti i vizir fossero imparentati con il re».
«Noi no. Mio padre era figlio di artigiani; si è guadagnato quella carica per la sua bravura e il suo genio».
Mine evitò di riferirgli che girava voce fra le caste alte che il nome di Imhotep fosse giunto fino a palazzo grazie alla particolarità delle sue due figlie. Mine ed Erdie infatti erano diverse dalle altre bambine: avevano una carnagione chiarissima e gli occhi ambrati, caratteristiche che le aveva subito distinte come emanazioni della dea Iside. Però era stata la genialità dell'uomo a farlo correre nella sua carriera di vizir, diventando il più importante fra essi e un amico fidato del re.
«Ora credo sia meglio che vada» disse lei «Non so per quanto tempo mia sorella riuscirà a coprirmi».
«Vuoi che ti accompagni? » domandò Hapy speranzoso.
«Certo, mi farebbe molto piacere» e sorrise.
Giunsero di fianco al muro dell'abitazione sfarzosa della ragazza in un tempo che per entrambi sembrò brevissimo. Lungo il tragitto Hapy le aveva raccontato gran parte della sua vita, avvenimenti che l'avevano fatta ridere e che non vedeva l'ora di raccontare a sua sorella.
Purtroppo era giunto il momento di salutarsi.
«Ti rivedrò? » le domandò lui prima che lei entrasse nel canale.
«Se non mi avranno rinchiusa a vita per questa sparizione, certo che ci rivedremo».
Si salutarono, sorridendosi incantati l'uno dall'altra.
***
«Allora come è andata? » le domandò Erdie poco dopo che Mine riattraversò il tunnel nel muro. L'aveva raggiunta dietro il cespuglio, aiutandola a cambiarsi d'abito avendo preventivato che si sarebbe sporcata.
«Benissimo! Non poteva andar meglio! Gli dei devono avermi aiutata! » le disse. Come le acque del fiume quando erano nell'impeto della piena, lei riversò il suo racconto: le disse il suo nome, di come i genitori lo avessero ritrovato fra il limo della terra, del fatto che non aveva fratelli o sorelle perché sua madre era sterile e perfino dell'oca che lui aveva cresciuto fin dalla sua schiusa e che da all'ora non smetteva di seguirlo per tutta la casa.
«E poi è bellissimo, bellissimo, bellissimo! » concluse con aria sognante.
«Oh sacra Iside, Mine. Me lo avrai ripetuto così tante volte che quella parola adesso mi da la nausea».
«Signorina Mine! » sentirono alle loro spalle.
Le due ragazzine si voltarono all'unisono e videro Akerat torreggiare sopra di loro, con le mani strette ai fianchi e lo sguardo corrucciato.
«Crede davvero che non mi sia accora che è sgattaiolata via? »
Entrambe dovettero poi ascoltare la ramanzina che la donna fece loro, lunga abbastanza che il sole aveva fatto in tempo a tramontare e incominciare il suo pericoloso viaggio nella duat.
«D'ora in poi se vorrà vedere quel ragazzo dovremo esserci io e il suo eunuco! » concluse Akerat. Mine abbassó il capo sconsolata.
I giorni seguenti Mine riuscì a vedere Hapy come Akerat le aveva imposto, però il suo eunuco, Daimaat, incuteva sul ragazzo un timore assoluto. Nonostante l'uomo non avesse una vera indole malvagia, il suo fisico sussurrava il contrario.
«I miei amici pensano si cibi di carne umana » le disse Hapy un pomeriggio, mentre si trovava al fiume con lei e gli altri figli dei vizir.
Mine guardò il suo eunuco, poi sorrise. «Ma no. Quello realmente pericoloso è Obeyshur. Daimaat lo è solo se si arrabbia».
Hapy non sembrò davvero convinto delle affermazioni della ragazza. Quell'uomo sembrava scrutarlo come se lo volesse fare a pezzi da un momento all'altro.
«Volete tornare qui voi due? Il torneo sta per incominciare! » urlò loro uno dei ragazzini, schierato su una linea immaginaria insieme agli altri, pronti a incominciare la gara di salto agli ostacoli.
«Veniamo! » urlarono all'unisono e corsero verso i loro amici.
Prima che Mine tornasse a casa, Hapy le si avvicinò e le sussurrò all'orecchio che quella sera stessa lui l'avrebbe aspettata fuori dalle mura della sua abitazione, proprio alla foce del canale. Se lei voleva avrebbero potuto vedersi con un po' di tranquillità.
Mine accettò con entusiasmo.
Note aurore ✍️
Mehen è uno dei giochi da tavolo più antichi al mondo, assieme alla Tavola Reale di Ur e al Senet. Risale al periodo predinastico egiziano, databile a prima del 3100 a.C. ed è stato giocato per secoli prima di decadere in favore dei più famosi Senet, Aseb e Seejeh verso la fine dell'Antico Regno, intorno al 2300 a.C..
Mehen significa letteralmente "colui che è arrotolato" e fa riferimento sia alla forma a spirale del gioco, sia alla divinità predinastica Mehen, raffigurata per l'appunto in forma di serpente che si arrotola a spirale per proteggere il dio del Sole Ra nel suo viaggio attraverso la Duat nelle ore notturne come uno scudo dagli attacchi del dio del caos, il serpente Apophis.
Perizoma: Nell'antico Egitto (Basso Egitto, I Dinastia) veniva usato un perizoma di cotone, spesso in abbinamento a una cintura; quello di schiavi, soldati e contadini era abbastanza semplice, più raffinato e con alcuni ornamenti quello di giudici, sacerdoti e re.
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