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🪲Quarantunesimo capitolo 𓂀

L'anno egizio era nuovamente in procinto di finire, la stella Sopedet sarebbe sorta portando con se l'inondazione che avrebbe nutrito la terra.

Il faraone già pregustava il ricco raccolto, ma ebbe invece un'amara sorpresa.
Nei campi fertili aveva iniziato a crescere un'erba strana, alta e che i contadini avevano denominato "la divoratrice". Essa soffocava il grano e ogni tipo di culture che si cercava di coltivare.

«I nostri contadini hanno provato perfino ad estirparle con il fuoco, vostra maestà» disse uno dei soldati incaricati di aggiornare il re dell'andamento del suo regno. «Ma esse ricrescono nel giro di una notte».

Il faraone serrò la mascella, era furioso. Vedeva ovunque lo sguardo felino del vampiro Originario, non potendo attaccare lui aveva deciso di attaccare il suo popolo. Respirando pesantemente si sedette sul suo trono d'oro, con le mani congiunte all'altezza del viso, pensieroso.

«Andate» li congedò senza scagliare su di loro la sua frustrazione. «E non smettete di cercare quella ragazza nelle grotte nubiane».

Le guardie si inchinarono ed uscirono.
Cheope si chiuse nel suo silenzio, il suo popolo stava per affrontare una carestia senza pari, ma il suo pensiero era sempre e comunque rivolto ad Erdie. Non riusciva a percepirla, perciò pensò che doveva trovarsi ai confini del suo regno. Erano trascorsi mesi eppure nessuno aveva trovato neanche anche solo una traccia.

***

Trascorsero altri mesi, il raccolto fu esiguo e non sarebbe bastato a sfamare tutta la popolazione.
Il faraone percorreva avanti e indietro la sala del trono, si torturava le dita, sudava.  Le guardie e i vizir erano in attesa che comunicasse loro le sue decisioni.

«Chiuderemo i templi, tutti. La popolazione non deve più fare sacrifici e tutto ciò che abbiamo e avremo dal commercio con l'Arabia deve essere distribuito equamente».
«Padre, se farete chiudere i templi la popolazione si rivolterà...» gli fece notare suo figlio Kheper, il suo successore che passò poi alla storia con il nome di Djedefra nonostante suo fratello Chefren cercò poi di cancellarne la memoria.

Il faraone Khnum si avvicinò al figlio undicenne e gli accarezzò la guancia con affetto. «Non devi temere, figlio mio. Ricordati che io sono un dio. Io sono il raggio di sole».
Kheper sorrise e quando alzò il capo verso suo padre, il sole illuminò con scintille iridescenti quegli occhi scuri.

***

Gli anni si susseguirono, carestie e morte erano gli scenari che si affacciavano su un Egitto provato, ma il faraone non accennava a voler abbandonare l'idea di ristrutturare le rovine della più grande piramide che sorgeva fra le dune sabbiose; una delle tante tracce lasciate da antichi antenati millenni prima.

E il Lord non abbandonava la sua vendetta. Quasi ogni giorno il vampiro risvegliava mummie che sorgevano dai luoghi più reconditi del deserto, e tentavano di uccidere i vivi con i loro corpi ossuti e polverosi, accecandoli con i loro occhi rossi, ardenti come braci, specchi di quelli del Lord.

Era il giovane principe Kheper a contrastare i morti con la sua truppa, come quel giorno.
Egli combatteva con il suo Khopes*, la lama falcetto in bronzo cosparsa di polvere d'argento che soffocava il potere del vampiro Originario.

Le mummie rinsecchite di coloro che erano stati seppelliti nel deserto si scagliavano con le loro ossa contro i soldati, strappando loro carne, arti e vita. Non urlavano, i loro polmoni erano secchi eppure i loro corpi funzionavano benissimo.

Una delle mummie si scagliò contro Kheper, prima che la sua mano ossuta raggiungesse il cuore del giovane principe lui riuscì a tagliargliela e lanciargli contro l'ultima polvere di argento che gli era rimasta.

Il mostro si accasciò al suolo e i suoi occhi si spensero.
Con le ultime forze che restavano ai sopravvissuti, tutte le mummie furono accatastate e fu dato loro fuoco.
Il rogo divampò con il solito ruggito, come se tutte le urla di quelle creature mute avessero finalmente preso corpo, liberandoi come spiriti.

Quando i vincitori tornarono a palazzo furono accolti da tutti con gioia, tranne che da uno dei giovani principi. Nascosto dietro un'alta colonna all'interno della dimora reale, vi era un giovane Chefren che osservava il suo fratellastro con ripugnanza.

Era seccato da tutta quella gloria, si allontanò e percorse a lunghe falcate i corridoi a piedi scalzi, la sua pelle scura si confondeva a tratti con le zone d'ombra.

«Gedefhor, apri» disse contro la porta di uno dei suoi numerosi fratellastri. «Sono Chefren».
Avevano appena quindici anni, ma non la leggerezza della loro età. Il giovane Gedefhor andò ad aprire la porta, lasciando che il fratello entrasse nella stanza.

Gedefhor era uno dei discendenti di Imhotep e come lui vantava una vasta cultura: era stato lui, infatti, l'autore di "Insegnamento", l'insieme di dottrine che aveva iniziato ad essere utilizzato nelle scuole degli scribi.

«Kheper è sopravvissuto ancora una volta! »
Gedefhor apprese la notizia con riluttanza, ma se lo aspettava. «Non possiamo fare altro che pregare gli dei che la prossima volta quei demoni della Duat riescano ad ucciderlo».

«No, dovremmo farlo noi. Dovremmo ucciderlo noi e poi uccidere anche nostro padre. Solo in questo modo l'Egitto troverà pace».
«Tacci, stolto! » lo riprese suo fratello, precipitandosi verso la porta per controllare che nessuno avesse udito quelle parole.

Chefren abbassò lo sguardo, grattandosi la cicatrice da caccia che aveva sulla tempia. Sapeva che un complotto per un regicidio era punito con il castigo peggiore: la distruzione del corpo dopo la morte. Niente corpo, nessuna resurrezione nei campi di giunchi. Il suo Ka avrebbe sostato sulla terra distruggendosi.

«Per adesso limitiamoci a pensare al destino di Kheper. Nostro fratello ha simpatizzato talmente tanto con nostro padre che sarà certo di salire al trono dopo di lui».
«Perché non lo eliminiamo? Lui ha fatto lo stesso con Kauab! E non è stato smascherato. Se nostro...»

Sentire quel nome scosse profondamente Gedefhor, che deglutì ricacciando indietro le sue lacrime prima di rispondere. «Non crederà mai alla nostra parola, non abbiamo prove contro di lui».

Kauab era il primogenito della regina d'Egitto, sovrana delle due Signore, che Cheope aveva scelto dopo i numerosi rifiuti della vampira. Kheper desiderava a tal punto salire al potere che un giorno decise di avvelenare il fratellastro sapendo che, nonostante lui fosse più grande di Kauab era pur sempre figlio di una moglie secondaria e per questo non avrebbe acceduto al trono.
Con la morte del degno successore le linee di sangue secondarie avrebbero potuto avere a parità di diritto la successione. Kheper uccise suo fratello e fece ricadere la colpa su uno schiavo. Lo schiavo morì torturato.

Solo Gedefhor e Chefren sapevano la verità, sapevano cogliere i sorrisi scaltri del fratellastro, le sue sparizioni improvvise. E soprattutto avevano parlato con Kauab prima che morisse e lui li aveva informati dei contrasti verbali con Kheper, in cui lo accusava di non poter accedere al potere poiché la sua virilità era pari a quella di un uomo castrato.

Non c'erano prove per condannare il vero assassino.
«E cosa possiamo fare? Lasciamo che nostro padre continui a sfidare quel demone e condanni così la nostra terra? » Chefren era furioso, la sua impotenza lo frustrava.

Suo fratello allora gli si avvicinò, gli posò una mano sulla spalla e sfiorò il naso con il suo. Era una forma di alta esternazione di affetto in quel mondo orientale, paragonabile ad un lungo e stretto abbraccio.

Gedefhor vedeva che suo fratello era troppo agitato, la rabbia gli si leggeva sul volto.
«Non possiamo fare nulla» disse senza allontanarsi da lui, guardandolo nei suoi occhi neri. «Possiamo solo attendere. Gli dei ci assisteranno».

«Gli dei...» echeggiò l'altro con poca convinzione.
«Ora vai fratello. Sorridi e congratulati come sempre, non dar spazio alla tua ira».
«Io amo il nostro popolo, non riesco ad essere felice mentre soffre».
«Lo riscatteremo insieme» e sorrise.



Note autore:
Khopesh: è il nome dato dagli antichi egizi ad un falcetto-spada (o "spada-falce") cananeo dei Sumeri, in realtà più simile ad un'ascia. È traslitterato anche nella forma Kopesh.

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