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Fino a restare sepolti

In quella cazzo di stanza giallina fa troppo freddo.
Kei odia sentire freddo, gli si sono già ghiacciate le dita dei piedi nei calzini, tra poco gli cadranno.

Nome?
Tsukishima Kei.
Cittadinanza?
Giapponese.
Volo?
JL143 Aomori-Haneda
Nome del passeggero?
Kuroo Tetsurou.
Parente o amico?
Che domanda del cazzo. Parente.
Grado di parentela?
Innamorato come un imbecille da quindici anni. Certificato di partenariato.
Come prego?
Lo so, è una stronzata, vada a dirlo al governo. Ci amiamo. Scopiamo da una vita. Paghiamo lo stesso mutuo. Veda lei come lo vuole scrivere.

Tiene le mani strette intorno alla ceramica della tazza, che ormai emana solo un vago tepore. Impreca sottovoce, si alza, raggiunge il thermos piazzato su un brutto tavolo di plastica nell'angolo.
Le persone che ha intorno sono fantasmi. Quante sono? Non ha voglia di contarle.
Si respira, in quella stanza gelida, un'atmosfera sommessa e sospesa, che vibra di tensione repressa; al minimo rumore, tutti sobbalzano e gli sguardi si volgono in contemporanea verso la porta chiusa, poi, sempre in sincrono si sollevano verso lo schermo appeso al soffitto, con il suo elenco mutevole di numeri e codici. Tutti fissano la stessa scritta che continua a sembrare priva di senso: Rivolgersi COE Arrivi T8.
Kei si riempie la tazza fino all'orlo di tisana bollente.

Se allenterà anche solo per un attimo le redini del cervello, i pensieri gli sfuggiranno ed è ovvio dove andranno a parare: statistiche di sopravvivenza ai disastri aerei, scenari di atterraggi catastrofici. La voce insopportabile di suo padre che gli spiega che l'aereo è il mezzo più sicuro al mondo per viaggiare, benché il tasso di sopravvivenza in caso di incidente si avvicini allo zero: sui grandi numeri dei voli, quei morti non contano.
Ma i grandi numeri la JAL può infilarseli nel suo culo metallico, qui il numero che conta è uno solo: 17A, business class, finestrino, come recita la carta d'imbarco.
Tetsu gliela manda in mail tutte le volte: una sorta di rito apotropaico che hanno messo in piedi chissà quanti anni prima, per tenere a bada la sottaciuta, mai dichiarata, secondo lo scemo comica, paura di volare di Kei.
E chissà fino a che punto Tetsurou l'avrà davvero capito che le tutte le paure di Kei, proiettate su di lui, superano (e non di poco) quelle per se stesso.

La stanza color piscio del COE ha una finestra lunga e stretta che affaccia su uno scorcio inutile d'asfalto e magazzini, che ora sono scomparsi, persi in un bianco uniforme e piatto; enormi spatolate di calce, dal cielo senza vita al catrame, fino a dentro i bordi sfatti della coscienza di Tsukishima Kei.
Una nevicata di marzo, assurda e inaspettata.
Da quante ore sta nevicando? Da quante ore Kei si trova lì, insieme a quegli altri deportati, tutti a farsela sotto, ballando in silenzio sul confine fra la speranza e la disperazione?
È un confine del cazzo; solo due cose ci abitano: un terrore infinito e un vuoto altrettanto infinito.
Kei non è mai stato bravo a gestire il vuoto e quindi il terrore gli sta risalendo dentro, dal basso, dalle piante dei piedi; si arrampica strisciando fra le vene e i muscoli, quando arriverà al cuore, glielo fermerà.
Intanto la mente ha già iniziato a proiettare il suo spettacolo macabro: inizia con un poliziotto che entra con la faccia desolata. Un coro di urla. Un incubo di parole da cui uscire. Una bara. Cenere e ossa fragili a cui dare tutte le colpe, perché solo un cazzone egoista come Tetsurou potrebbe pensare di morire in un incidente aereo e lasciarlo lì.
A fare cosa? In che modo? A che scopo?
Non ha il minimo senso, la sua vita, senza lo scemo. Non ce l'ha mai avuto; anche prima di conoscerlo, Tsukishima Kei era solo un sedicenne arrogante che credeva di aver capito tutto, finché per un colpo di smodata fortuna non è incappato nell'unica cosa significativa della sua vita: amare (uno scemo con i capelli scombinati, privo di senso della misura e disgraziatamente magnifico).
E che non potrebbe amare nessun altro, in nessun'altra vita, è una verità amara e imbarazzante, che ha richiesto una dozzina d'anni per essere metabolizzata.
E proprio ora che si è arreso all'evidenza, lo scemo gli fa il brutto scherzo di morire in mezzo alle lamiere, sepolto dalla neve. Così, senza la decenza di un saluto, un'avvisaglia, uno straccio di malattia terminale con cui fare i conti qualche mese per prepararsi. Niente: crepa all'improvviso, un venerdì qualunque, proprio come fa le cose lui, senza un minimo di logica e di logistica, senza un grammo di cervello. Prima o poi lo incontrerà in un'altra vita e si toglierà la soddisfazione di prenderlo a calci fino alla successiva.
Forse la cosa migliore è ammazzarsi subito, per accorciare i tempi. Pare un'ottima idea; se si guardasse intorno, capirebbe che non è l'unico ad averla in testa.
"Scusi?" una voce di donna. "Mi scusi sta versando..."
Kei si riscuote: la tisana bollente gli scorre fra le dita, chissà da quanto tempo, il segno violaceo di una scottatura si sta già formando. Smette di far pressione sul rubinetto di plastica e il flusso si ferma. La donna gli sorride, porgendogli un tovagliolo, lui la ignora.
Raggiunge lo sgabello, ci si appollaia sopra e torna a guardare fuori la neve che si accumula contro il vetro.


Kei guarda fuori e la neve si accumula contro le porte finestre dell'aula magna della scuola. Sono già le undici e un quarto.
Preme il tasto di chiamata per la centoseiesima volta: dopo tre squilli, la voce automatica lo avvisa che il cliente chiamato non è raggiungibile.
Fanculo. Il cliente chiamato non è raggiungibile da dieci ore.
Chiama ancora.
Guarda ancora l'orologio.
Le undici e diciassette, lo scemo non verrà.
Non verrà, e fra pochi minuti lui dovrà fare quel discorso del cazzo, davanti a tutti.
È per quello che hanno litigato ieri sera. Un litigio telefonico furibondo e privo di senso, che Kei ha ingaggiato solo per nervosismo, frustrazione fisica, gelosia immotivata e una gigantesca, imprevedibile, fottutissima paura del futuro, che lo ha preso allo stomaco all'improvviso, quando ha realizzato che, sul serio, ci si aspettava che lui, da un giorno all'altro, navigasse a vista, senza nemmeno la misera protezione di un gakuran, di una graduatoria di merito, di un libro di testo a segnare la via.
Bloccato a Sendai per quattro anni, con Tetsurou che troverà lavoro chissà dove, sempre a distanza, sempre fuori fuoco.
Tetsurou ha usato la parola vigliacco. Kei ne ha usate di peggiori e poi la cosa gli è sfuggita di mano e ha esagerato.
Esagera spesso, quando si arriva a certi argomenti, perché quei milioni di anni luce fra Tokyo e Sendai gli bruciano i nervi, gli tolgono il senso della misura, l'equilibrio e la sanità mentale, ma stavolta lo sa di aver passato il segno.
Di fatto, lo ha lasciato.
Ogni volta che ci ripensa, avrebbe voglia di uscire da se stesso e prendersi a calci.
Lo ha lasciato. Così, liquidandolo per telefono, una follia degna dello squilibrato che è diventato da quando lo scemo gli ha incasinato la vita e rimescolato anima e corpo: ogni volta che si allontana, Kei si trova in apnea a rimettere insieme i pezzi, e la forma che viene fuori non è mai quella giusta.
Adesso è la forma di un cretino pentito.
Pentito non rende l'idea.
Era pentito dopo cinque secondi. Disperato dopo due minuti. Ma il telefono di Tetsurou era spento, e lo è ancora.
Non verrà.
Kei ha preparato un discorso molto cinico, molto breve, molto sarcastico, e ora non vede l'ora di gustarsi lo sguardo allibito del preside e quello imbarazzato del pubblico.
Se lo meritano, per aver scelto in assoluto la persona meno adatta.
Undici e trentanove.
Mentre l'aula magna si riempie, due figure sgusciano via dalla porta in fondo e poi passano correndo davanti alle finestre. Kei li avrebbe riconosciuti anche se l'arancione alieno dei capelli di Hinata non gridasse la sua identità lontano un miglio. Li segue con lo sguardo, inciampando nel pensiero che il Brasile li farà a pezzi. Ne è sicuro, perché lo ha imparato sulla propria pelle che la forza distruttiva dei rapporti a distanza è una funzione diretta dei chilometri moltiplicata per l'intensità di sentimenti e quindi i due prodigiosi cretini, innamorati persi a trentamila chilometri, non hanno alcuna speranza di uscirne incolumi. Ma loro non si pongono il problema, perché sono stupidi e si amano a un livello così istintivo che non l'hanno nemmeno realizzato. Kei invece l'ha capito e un po' - solo un po' - gli dispiace per loro. E per se stesso.
Undici e quarantaquattro. Lo scemo non verrà.
Per arrivare in tempo, l'ultimo treno possibile da Tokyo era quello delle nove e ventitré
Riprova a chiamare.
E dire che, per una volta, vorrebbe solo chiedere scusa.
In diciott'anni di vita, non gli è mai capitato di desiderare così tanto di scusarsi ed essere perdonato da qualcuno. In qualche modo, a pensarci bene, è persino umiliante. Eppure è così: tutto quello che Tsukishima Kei vuole in questo momento è rimangiarsi una per una le parole assurde che ha pronunciato, mandarle giù, cancellarle, riavvolgere il tempo e far tornare tutto identico a prima.
Paradossalmente, del discorso non gli importa più nulla. Del diploma, dell'università, dei provini per i Frogs, che sono fra un mese e ai quali si è iscritto (ma allo scemo voleva dirlo di persona) gli interessa meno di zero.
Non gli importa di nessun futuro in cui non ci sia Tetsurou, piazzato giusto in mezzo a tutto, nel fuoco dell'orbita della sua vita.
Si può essere sentimentalmente fottuti fino a questo punto?
Sì, evidentemente.
Fottuto e single, al momento. Che schifo.
Undici e cinquantaquattro: il preside e i professori salgono sul palco, la platea prende posto, i più solerti iniziano a scattare foto, Tsukishima Kei sale i tre gradini e impugna il microfono.
E mentre si schiarisce la voce, e fissa la sedia vuota accanto ad Akiteru, il discorso cinico che aveva preparato si cancella dalla sua testa.
Si schiarisce la voce, senza sapere minimamente cosa dirà, e gli torna in mente quella volta che Kuroo-sama, il nonno di Tetsu, gli ha fatto un discorso sul futuro, subito dopo una bellissima partita di shogi. Era piena estate, chissà perché Tetsurou non c'era.
Sono quelle di Tomo-sama le parole che gli escono di bocca, e, mentre le ripete, la porta sul fondo si spalanca e qualcuno entra, portando con sé folate di vento invernale, odore di neve e acqua che gronda da ogni dove.
"Bel discorso! Ma siamo sicuri sia farina del tuo sacco?" obietta stentorea la voce dell'ultimo arrivato. Che è lo scemo, in uno dei suoi momenti più teatrali.
Tutti si voltano a guardarlo e lui resta lì a ruscellare neve sciolta, al centro dell'attenzione generale.
Il sollievo e l'euforia entrano in circolo nel sangue di Kei con una scarica di adrenalina, pompate alla massima velocità cardiaca compatibile con le funzioni vitali.
Tossisce. "Qualcuno ieri mi ha fatto notare che il mio discorso faceva pena" dichiara nel microfono. "Era un po' tardi per rimetterci mano, quindi ho pensato che, visto che queste persone sarebbero state comunque costrette ad ascoltarmi, tanto valeva propinargli qualcosa di buono."
"Ottima scelta. Vuoi dirci chi è l'autore?"
"Kuroo Tomo" scandisce Kei e si gode il rimbombo di quel nome.
I presenti si guardano l'un l'altro confusi. Qualcuno millanta di aver riconosciuto il nome di un letterato, altri alzano le spalle, i più non vedono l'ora che finisca tutto.
E finisce tutto, infatti. Kei ringrazia, afferra la pergamena fra applausi poco convinti e scende di corsa in platea. Gli altri diplomandi si avvicendano.

Intanto lo scemo si è levato di dosso il giaccone inzuppato. Sotto, porta la divisa del Nekoma, che tira e stringe un po' dappertutto, ma in verità gli sta ancora benissimo.
"Dove lo metto questo?" domanda Kuroo con il giaccone in mano, Kei lo prende e lo lascia cadere per terra.
"Chissenefrega."
Poi spinge Tetsurou per le spalle fino alla porta, il maniglione antipanico si aziona e loro vengono proiettati fuori, sotto la neve che cade. Bianca, bianchissima, lucida.
Kei deve infilarsi le mani in tasca per non gettargliele al collo.
"Sei in ritardo, scemo. E sono dodici ore che non mi rispondi al cazzo di telefono."
"Kei.
Tu mi hai lasciato."
È un'accusa, con una nota dolorosa sul fondo.
"Indovina perché ti ho chiamato un milione di volte? Volevo scusarmi come si deve. Se solo non fossi un cazzone egoista e rispondessi... "
Tetsurou raddrizza la schiena e socchiude gli occhi, la neve gli impolvera i capelli. "Okay, fallo. Scusati come si deve."
È perentorio, quasi prepotente, ma Kei cede all'istante. Si inchina, addirittura.
Fanculo orgoglio, questione di principio, contegno: tutta roba che in quel momento non vale niente.
"Scusami. Sono un idiota. Per favore... Anzi, no, ti prego. Ti prego, torniamo insieme."
"Perché?"
"Perché senza di te neanche respiro."
E' una delle cose che Kei pensa di continuo e non credeva che avrebbe mai detto, invece gli esce di bocca senza filtri.
Il sorriso innamorato nello sguardo di Tetsurou è di quelli che bruciano il cuore.
"Meno male, pensavo di essere l'unico ad avere il problema di sopravvivere."
"Quindi, aspetta, questa entrata da primadonna era solo per farmela pagare?"
"In realtà no, è che il viaggio ha richiesto più tempo del previsto... me la sono fatta a piedi da Ochiaimaino."
"Da Ochiaimaino a qui? Cazzo, saranno venti chilometri."
"Diciannove. Ma in moto rischiavo di ammazzarmi. Quindi ieri notte mi sono fermato da mia zia a Tomiya e la moto l'ho lasciata lì."
"Ieri notte?"
"Ero partito ieri. Subito dopo... beh, quello che mi avevi detto. Non capivo più niente, ero sia incazzato nero che terrorizzato che facessi sul serio. Ho pensato di venire qui subito. Sono uscito di corsa e fra una cosa e l'altra ho lasciato il telefono a casa. Poi appunto c'era una bufera, quindi ho dormito da zia Mirai e stamattina ho scoperto che la JR aveva fermato le corse per la neve. Dato che mia zia non ha una macchina ... beh, non avevo alternative... sono saltato su un autobus fino a Ochiaimaino e da lì... "
"... ti sei fatto venti chilometri a piedi sotto la neve? Per venire al mio diploma."
"Era importante."
Era importante.
Nel calore bruciante di quest'importanza Kei si sente sciogliere le ossa e ribollire il cuore come magma. Getta uno sguardo intorno: a pochi passi, nell'aula magna, una folla di persone passeggia, chiacchiera e scatta fotografie. Mischiati a questi sconosciuti ci sono una ventina di compagni di classe impiccioni e molesti, l'intero corpo docente, e anche mamma e Akiteru, che probabilmente lo stanno cercando.
Ma sono tutti lontanissimi. Remoti.
Neanche vagamente importanti quanto baciare Tetsurou in questo preciso momento.
Quindi Kei lo fa. Lì, in mezzo al cortile del liceo Karasuno, sotto quell'assurda nevicata di marzo, infila la mano fra i capelli scombinati della persona che ama e compie l'atto sovversivo e immorale - perché non può che essere immorale amare in questo modo - di baciarla.
Un bacio breve ma esigente, che contiene rimorso, gratitudine, esaltazione, frenesia, nostalgia, fame e moltissime altre cose, che lasciano Tetsurou sbalordito e con gli occhi lucidi.
Kei riesce a tirare fuori un sorrisetto di superiorità, mentre si spinge in su gli occhiali appannati. "Lo vedi cosa mi fai fare? Sei proprio uno scemo. E che cazzo ti sei messo addosso?"
"Ecco, giusto, invece di sedurmi in pubblico, perché non fai il tuo dovere? Sono due anni che aspetto" ribatte Tetsurou, tendendo la mano aperta.
Kei sa cosa vuole, e ha sempre pensato che fosse una tradizione sdolcinata da ragazzine. Lo pensa ancora, mentre strappa via con un gesto secco il secondo bottone della divisa.
"Ecco qui, quante storie per un pezzo di latta" sbuffa, mettendoglielo in mano.
Un attimo dopo, anche nella sua mano c'è un bottone, uno serio, di metallo pesante, con il kanji KOMA dello shogi inciso sopra. Mentre lo stringe, scopre di averlo sempre desiderato: la ragazzina sdolcinata è lui. Si sente le orecchie in fiamme e gli tocca combattere contro un'ondata di emozione di quelle che travolgono senza preavviso.
La neve cade e Kei vede solo quella e il nero degli occhi di Tetsurou e il mondo che scompare sullo sfondo, seppellito dal candore.


Lo scemo verrà.
Si è fatto venti chilometri a piedi per un bottone tredici anni fa, non può certo impigrirsi adesso che si tratta di sopravvivere.
Lo scemo verrà e il brivido che Kei sente quando la porta si spalanca è di anticipazione più che di terrore. O forse entrambi, mescolati bene.
Entra una donna in uniforme da poliziotto. Sta sorridendo.
Sorride e muove le labbra, articola parole che Kei non capisce, perché il cervello rifiuta di collaborare. I suoi sensi sono tesi verso l'esterno, gli arrivano parole sparse.
Atterraggio di emergenza...motore in avaria... feriti... la neve ha attutito... molto fortunati... le liste con i nominativi...
"Kei!"
Eccola, la voce dello scemo. Roca, ammaccata, bassa, ma Kei la distingue perfettamente. Oltre il brusio della stanza, il rumore dei singhiozzi, le sirene delle ambulanze.
Il sollievo lo inonda. Un'inondazione vera: lacrime, sudore, saliva, forse se la fa anche addosso, ma non sembra affatto importante.
Poi lo scemo compare alla porta.
Vivo.
Ha un livido viola in faccia, una fasciatura ridicola e storta sulla testa, la giacca e la camicia sporche di sangue, le mani che tremano, la neve fra i capelli e sulle spalle.
È decisamente la cosa più bella che Kei abbia mai visto e mai vedrà.
Inizia a baciarlo nel pensiero, ancora prima di raggiungerlo, visto che le gambe non gli obbediscono, le ginocchia sono di burro, i piedi troppo piccoli e instabili per trascinare in giro il suo altissimo corpo.
Lo bacia nel pensiero, e poi finalmente anche nella realtà, quando Tetsurou riesce a raggiungerlo, lo circonda con le braccia, gli affonda il viso nel collo.
Lo bacia e scopre che è precisamente quello il sapore della vita: ferro e sale impastati sulla lingua, fra le dita delle mani intrecciate, negli occhi che bruciano, dentro le costole che faticano a contenere il battito del cuore. La vita che palpita e celebra se stessa.
La stanza gialla, nel riverbero della neve, è sepolta di luce.

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