Capitolo 1
Los Angeles, California.
No, no. Non andava bene così. Era, non so, troppo artificioso?
C'era una volta, in una landa desolata della California...
Nemmeno. Non stavo scrivendo una fiaba.
A Los Angeles il cielo era terso e limpido, il sole batteva sulle vetrate dei grattacieli esplodendo in una miriade di colori accecanti...
Forse...
Accesi una Lucky Strike. Inspirai il fumo, l'amore per l'arte, la brama di successo. Espirai, ma dalla mia bocca spirò solamente una cortina di fumo. Stephen King, Edgar Allan Poe, Charles Bukowski e buona parte degli scrittori della beat generation erano fumatori, quindi ritenevo giusto esserlo anch'io. Bisogna seguire l'esempio, sapete. Ammetto che c'era la disperata possibilità che avrei iniziato a farmi regolarmente di coca come Robert Louis Stevenson, e, voilà, anch'io avrei scritto il mio libro in sei giorni e in sei notti, battendo i tasti della macchina da scrivere come un forsennato, in uno stato di perenne veglia. Non era un'ipotesi da escludere. Tuttavia in futuro - possibilmente in un futuro prossimo - quando i giornalisti si accalcheranno davanti ai cancelli della mia villa a Santa Monica (la quale non era ancora stata costruita, ovviamente) con la speranza che concedessi loro un'intervista smetterò di fumare, lo giuro.
Prima però avrei dovuto pubblicare il mio romanzo. Il mio primo romanzo, per intenderci. Quello d'esordio, quello che mi avrebbe aperto i cancelli del paradiso. Ah, già, prima ancora avrei dovuto scriverlo, e magari a riuscire a mettere in piedi un incipit accattivante, o perlomeno decente.
Le mie fantasie dallo sfondo letterario erano nate e state modellate dalla mia mente malsana dopo numerose conversazioni con la bottiglia. In principio erano solo sussurri che udivo a malapena quando buttavo giù i primi sorsi di bourbon. A metà bottiglia i sussurri diventavano voci, un po' come quelle che sentono gli schizofrenici. 'Muoviti, Tristan, prendi la penna in mano e diventa qualcuno', 'Vedi di fartelo alzare e fa' l'amore con le lettere, le parole, le frasi, e butta via quella bottiglia', così dicevano. Sapevano essere cattive, queste voci: mai una parola gentile o una frase d'incoraggiamento, nossignore. Ma non le ascoltavo, anzi, cercavo di farle tacere continuando a tracannare Beam Jem.
Invece, quando mi ero scolato l'ultima goccia del nettare magico, le voci mutavano lentamente in visioni di fama e gloria che vorticavano nella mia mente: la mia firma su un contratto di una prestigiosa casa editrice; file interminabili di lettori fuori dalle librerie per farsi autografare la copia del mio libro; io che discutevo in salette dall'arredamento vittoriano con altri scrittori sul futuro della letteratura sorseggiando brandy invecchiato di vent'anni e che ottenevo la loro approvazione grazie alle mie idee innovative e avanguardistiche; Hemingway che risorgeva perché Dio riteneva che non avrebbe avuto pace finché non avesse letto il mio romanzo.
Infine mi afflosciavo da qualche parte privo di sensi: sul pavimento, sul marciapiede, a letto, sul cofano di una volante, e al mio risveglio accarezzavo i frammenti sfocati di quelle fantasie che ricordavo a malapena, tra una sigaretta e l'altra.
Alla sbronza seguente aggiungevo sempre nuovi dettagli a quelle fantasie, le modellavo, le palpavo, a volte con delicatezza, a volte con violenza, come fa un amante geloso con il seno della donna che ama, ma che è sposata con un altro uomo - e legata a lui da un pezzo carta, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà. Ci facevo l'amore, fino ad annegarci dentro e a perdere i contatti con la realtà.
Posai la sigaretta sul posacenere e la contemplai consumarsi, divenire polvere, cenere e fumo.
Alloggiavo in una sudicia stanza di un motel, che avevo prenotato per un lasso di tempo indeterminato, ovvero fino a quando la signora Montgomery non mi avrebbe sbattuto fuori a pedate nel fondoschiena. Sapete, era uno di quei motel che preferivano mantenere una reputazione anonima, lontano da sguardi indiscreti, dove spesso le stanze vengono pagate a ore e in cui la donna delle pulizie aveva un urgente bisogno di un paio di guanti per maneggiare le lenzuola, non so se mi spiego.
Per mia fortuna, la signora Montgomery era una donna dotata di infinita pazienza e fiducia nel genere umano, che si faceva andare bene che quasi ogni settimana versassi la mia parte d'affitto con un ritardo di qualche giorno. Il pagamento (in teoria) doveva avvenire il sabato pomeriggio, ma solitamente mi presentavo nell'ufficio della signora Montgomery solamente il martedì o il mercoledì della settimana seguente, con una manciata di banconote e spiccioli, per un totale di ottanta dollari, che sbattevo sfrontatamente sotto l'espressione sollevata della signora Montgomery. Questo mi faceva dedurre che gli affari del Montgomery Motel non andassero esattamente a gonfie vele, anche se preferivo pensare che la signora Montgomery fosse una vera e propria santa, e che volesse dare un tetto e quattro mura a un aspirante scrittore per puro e casto spirito caritatevole. Tuttavia non potevo certo dire fosse dotata di buon senso: non mi aveva mai fatto domande riguardo a come riuscissi - in un modo o nell'altro - a cagare fuori dal culo i soldi per pagare la pigione. Se venisse a conoscenza di alcune fonti della mie entrate, a quella povera donna prossima alla demenze senile verrebbe un attacco cardiaco, seguito da una chiamata alla centrale di polizia del distretto più vicino. Era convinta che io fossi una brava persona, che non fossi disposto a vendere l'anima al diavolo per un pugno di dollari, quell'illusa.
Oggi era lunedì, quindi se la signora Montgomery avesse aspettato ancora un paio di giorni non sarebbe stata la fine del mondo. Anzi, sarebbe stato strano se avessi saldato la pigione settimanale oggi. Nessuno se lo sarebbe aspettato, non da me.
Me ne stavo rintanato nello squallore della mia stanza da troppi giorni. Credo sia inutile specificare che abbia trascorso le giornate ad ubriacarmi, a rotolare nello mio stesso vomito e a bruciarmi i polmoni: a volte - nei rari momenti di lucidità - temevo che avrei iniziato a tossire catrame e fosforo; dovevo darci un taglio con il fumo, mi stava uccidendo.
Ma non chiedevo niente di meglio.
Come avevo accennato, mi ero abbandonato alla solitudine per molto tempo. Cioè, erano passati solo pochi giorni, probabilmente. Però la mancanza di contatti umani e il vano tentativo di buttare giù uno straccio di poesia dettato dai fumi dell'alcol avevano rallentato lo scorrere del tempo, fino farmi scivolare in uno stato simile all'oblio, dove esistevano solamente bottiglie vuote sparse sul pavimento, una montagna di lattine di birra accatastate in un angolo, una penna a sfera prossima a finire l'inchiostro, un posacenere che straripava di mozziconi, bozze di versi di poesia che Frost definirebbe 'eresia nei confronti dell'arte americana' e che sarebbe lieto di bruciare personalmente, le note del pianoforte di Mahler, e tracce di autoerotismo, quindi forse era il caso di uscire da quella camera reduce della mia perdizione e di fare un'attività che mi avesse risanato il corpo, la mente e lo spirito. Sì, era giunto il momento di uscire da quelle quattro mura infestate dai miei demoni personali, e di immergermi nella notte infinita di Los Angeles, la città che aveva ridato vita, piacere e disperazione a Fante, Bukowski, Ellroy, nonché meta di attori e attrici destinati a morire di fame, e a marcire nel deserto del Mojave sotto il sole cocente; un trampolino per l'Oceano Pacifico e per il Regno dei Cieli, e una fossa che può farti abissare tra i dannati dell'inferno.
Los Angeles, la mia maledizione.
Camminai sotto il cielo notturno della Città degli Angeli, fino al varcare la soglia del Blue Tavern, la tana degli alcolizzati e dei sognatori - due categorie di cui facevo fieramente parte. Il Blue Tavern era un bar in perenne penombra, rischiarato solamente da luci blu al neon e dalle effimere fiammelle degli accendini e dei fiammiferi degli avventori, e lungo il bancone era costeggiata una fila di alti sgabelli dal cuscino di tessuto rosso. In un angolo c'era un massiccio pianoforte ricoperto da un velo di polvere che poteva risalire all'epoca della Guerra di Secessione: ero un cliente abituale del Blue Tavern da molto, troppo tempo, e mai nessuno l'aveva suonato, neppure un'anima ubriaca in vena di follie, quindi presumevo che Roger l'avesse abbandonato a sé unicamente per usarlo come arredamento, per dare un tocco di eleganza a quella gabbia di matti.
Dalla radio si librava nell'aria la voce di Bobby Darin, che cantava Dream Lover, e l'atmosfera del Blue Tavern la faceva sembrare una litania malinconica. Seduto su uno sgabello c'era Lloyd, un membro ormai quasi quarantenne della nostra allegra cricca di rifiuti umani. Teneva una sigaretta tra il dito medio e l'indice, senza fumarla, e la testa ciondolava sopra un bicchiere di birra sgasata. Non era messo molto bene, ma l'avevo visto in stati peggiori di quello.
Ero pronto a scommettere i miei ultimi quarantuno dollari e settantacinque centesimi (che avrei dovuto preservare per pagare l'affitto della scorsa settimana) che si era perso in uno dei ricordi che comprendeva la sua ex moglie, e magari anche la figlia di cui aveva perso la custodia. Mi aveva raccontato fino alla nausea il loro primo appuntamento, la loro prima scopata, i pomeriggi passati assieme a Long Beach e di quando infine lei aveva chiesto la separazione per fuggire al tramonto con un camionista che fumava crack per colazione, stando a quello che diceva Lloyd.
Quella sera non ero in vena di sorbirmi i suoi drammi melensi, allora mi sedetti accanto a lui senza proferire una parola, e non si accorse della mia presenza. Sfilai dalla tasca della sua giacca un pacchetto di Palmall, ma quando lo aprii constatai con un senso di amarezza sulla lingua che era vuoto. Pazienza, mi dissi, le Palmall non mi piacciono nemmeno, hanno il sapore che credo abbia la merda delle mosche. Glielo riposi nella tasca.
Roger, che aveva assistito a quella patetica scena mentre puliva il bancone con uno straccio, si limitò ad alzare gli occhi al cielo. Aveva visto cose peggiori di un tentativo di furto di sigarette; e finché pagavamo si faceva i cazzi suoi. «Che ti porto, Tristan?»
Accesi una sigaretta, una delle mie, e ordinai tre dita di bourbon e una birra: era un buon modo per iniziare la serata, che al momento prometteva di essere una delle più soporifere della travagliata storia del Blue Tavern: Lloyd ne era la prova vivente.
«Allora, scrittore, come procede il tuo romanzo?» chiese Roger versandosi un bicchierino di tequila. Talvolta, nelle sere in cui il bar era mezzo vuoto (come stasera), si faceva qualche bicchiere anche lui per ammazzare il tempo.
Mi dava le spalle, ma ero certo che stesse nascondendo un sorriso sarcastico. «Me l'hai domandato anche l'altra sera, se non erro, e la risposta è sempre la stessa. L'ho quasi finito, ricordi?»
«Sì, certo, stai scrivendo l'ultimo capitolo. Da un mese, ormai».
«Ho davvero detto così? Devo essermi spiegato male, allora». Bevvi un sorso di bourbon e feci un lungo tiro, per temporeggiare. «L'ultima parte, sto scrivendo l'ultima parte».
«E quando avremo l'onore di leggerlo, noi comuni mortali?»
Roger non l'avrebbe mai ammesso, ma farmi il terzo grado sul mio fantomatico romanzo glielo faceva venire duro, lo divertiva troppo. Probabilmente credeva che avessi scritto solamente qualche pagina, e sapeva che quando bevevo mi veniva la malsana tendenza ad esagerare e a distorcere qualsiasi cosa dicessi. Se, ad esempio, avessi raccontato dell'ultima prostituta che avevo fottuto - una cinquantenne vicina alla soglia dell'obesità che era costata una cinquantina dollari - l'avrei descritta come una modella ventenne dalla pelle diafana e con una cascata di capelli dorati che le scendevano fino al culo sodo, e senza un chilo di troppo. Lo so, era un comportamento molto meschino, il mio, ma l'impulso di dire cazzate per compiacere le persone era più forte di me. Credo che avessi soltanto bisogno di ricevere un po' di attenzioni, come una ragazzina viziata. Allora decisi di spararla grossa, giacché il danno era irrimediabile.
«Tra poche settimane, credo. Ma avrò terminato solo la prima stesura, sai, quella che sto scrivendo è solo un'insulsa bozza. Tra due mesi forse la seconda sarà pronta, se tutto andrà bene. E, Roger, hai idea di quanto siano lunghi i tempi di pubblicazione? Mesi, ci vogliono mesi, finché un manoscritto passa dalle scrivanie di una casa editrice agli scaffali delle librerie...»
Sbuffò e parve rinunciare alla sua piccola crociata nei confronti della mia carriera da scrittore. «Ho capito, ho capito...»
Usai l'ultima carta che avevo da giocare, accennando alla bottiglia di tequila. «Se offri il prossimo giro, però, ti regalerò una copia autografata. Parola di scout».
Scosse la testa, ma riempì lo stesso un bicchierino e me lo passò facendolo scivolare lungo il bancone. Niente sale, niente limone, non per chi beveva a scrocco. «E quando, precisamente, sei stato uno scout? »
. Sghignazzai e bevvi subito lo shot, prima che cambiasse idea. «Non saprei, in una vita precedente, magari, una in cui scopavo Marylin Monroe e sorseggiavo sherry con Kerouac».
Roger corrugò la fronte: «Ke... chi? »
Sospirai. «Jack Kerouac, uno scrittore, un poeta».
«Sai, Tristan? Ho sempre invidiato gli scrittori... » Mi schiarii la gola in segno di dissenso. «Voi scrittori. Avete un dono, e non solo di riuscire a bere più di un camionista o di un muratore, ma anche quello di riuscire a creare un mondo intriso d'inchiostro e di speranze, racchiuso in tre o trecento pagine, che allontana il lettore da questo schifo di mondo per qualche ora, e, alla fine, quando il viaggio è terminato, ha una nuova consapevolezza di sé e della realtà».
Adesso, il suo sorriso sarcastico si era trasformato una maschera di amarezza che gli ricopriva il viso, e mostrava rughe che non avevo mai visto prima. Riempì nuovamente il bicchiere e fece altrettanto con il mio. Brindammo. La canzone del juke-box era terminata da un pezzo, senza che nessuno dei due se ne fosse accorto, e il tintinnio dei bicchieri si perse nel silenzio della serata più deprimente del Blue Tavern.
«È vero, ci sono corsi di scrittura creativa e centinaia di migliaia di autori del passato e del presente a cui ispirarsi, dai quali si può attingere le parole, le idee, lo stile», continuò Roger. «Ma la capacità di trasmettere la propria essenza su un pezzo di carta è un dono innato, che non possiede qualunque idiota».
Terminò il suo discorsetto mordendosi il labbro. Okay, questo mi faceva pensare che Roger in un'altra epoca - quando non aveva ancora iniziato a perdere i capelli e non beveva gin a colazione - aveva tentato di campare con le parole. E il risultato era di fronte a me: un uomo attempato con le unghie giallastre del dito medio e dell'indice per le troppe sigarette, con più alcol che sangue nella vene e gli occhi che nascondevano i rimpianti di una vita lontana, appassita tra i bassifondi di Los Angeles, la cui carcassa era stata dilaniata dagli avvoltoi del deserto.
Ero a disagio, avevo sempre visto Roger soltanto come un ostacolo che si frapponeva tra me e gli alcolici del bar, un uomo senz'anima e senza cuore che dava sollievo alla mia esistenza in cambio di vile denaro. Pensare che avesse avuto ambizioni più grandi di rovinare il fegato a noialtri era troppo da digerire: sarebbe stato più facile accettare il culo di donna nera con tendenze omosessuali sulla poltrona della Casa Bianca.
Per fortuna Lloyd si destò dal suo stato comatoso, salvandomi da quella situazione imbarazzante: la sigaretta che teneva in mano si era pian piano consumata fino al filtro, e cadde a terra. «Cazzo!», esclamò esaminandosi la mano. «Potevo andare a fuoco».
«Buongiorno, principessa. Hai dormito bene?»
«Oh, ciao, Tristan». La sua mano si tuffò nella tasca della giacca, ma quando si rese conto che aveva finito le sigarette imprecò. Gliene porsi una. «Ah, grazie, domani te la ridò».
«Certo, come al solito», dissi con una smorfia.
Incastrò la sigaretta tra labbra e parve riflettere se accenderla o meno. La posò sul bancone, e la sua birra sgasata sparì nella sua bocca. Deglutì con forza. «Il sapore e il colore sono uguali a quello del piscio». Infine, accese la sigaretta e fissò ipnotizzato la boccata di fumo che saliva verso il soffitto, confondendosi alle luci blu emanate da soffitto. Perfetto, era ritornato al suo stato catatonico, perso nel deprimente viale dei ricordi che conduceva alle impronte di sua figlia sulla sabbia rovente di Long Beach e al seno della sua ex moglie.
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