12. Viva gli sposi!
Mi presento al matrimonio in pantaloncini e scarpe da tennis, perché sono le cose più accettabili che ho in valigia, per quanto stropicciate e informali. La vicinanza di Sam mi regala un profumo di sudore maschile, nel caso decidessi di cambiare sponda e provarci con qualche ragazza single presente alla festa.
Gianluca è in infradito. La scarpa non si è asciugata.
Non so se somigliamo di più a degli sfollati, o a dei turisti rapiti sulla via per la spiaggia.
Stringo mani a tizi che manco conosco, ma che mi trattano come quella lontanissima cugina che non vedono da una vita. Qualcuno cerca anche di cacciare in bocca a Marco una frittella additandolo come "sciupato".
Non so neanche come abbiano fatto a ricavare quattro posti in più da un giorno con l'altro, ma non faccio troppe domande.
Siamo nel giardino ben curato di un grazioso ristorante, c'è profumo di pesce arrosto e patatine fritte. Il tavolo del buffet è adornato da così tanto cibo da poter sfamare gli invitati almeno tre volte e il dj sta suonando da mezz'ora una compilation di sottofondi musicali di soli fiati. La sposa, Patrizia, è imboscata da qualche parte a fare lo shooting matrimoniale. Non ricorda più una ragazzina dark in fase emo, ma non ha comunque perso il vizio di rispondere per monosillabi — sembra di avere a che fare con un Marco particolarmente stronzo.
Tutto molto bello, addirittura mi dimentico della pandemia ancora in corso — complice la totale inesistenza di mascherine addosso a personale e invitati.
Unica pecca: a quanto pare, per il pranzo, siamo stati posizionati al tavolo dei bimbi. E a Gianluca, i bambini, non piacciono. S'ingozza di mozzarelline in carrozza per non pensare alle ore che lo attendono.
Seduto sotto gli alberi a fumare come una vecchia raffineria, c'è il nonno di Paolo: è molto più rattrappito rispetto a come me lo ricordavo, ma non è tanto questo a impensierirmi. Sua moglie non si vede da nessuna parte. Spero che in questo momento si trovi in una casa di riposo a giocare a tombola, e non sotto sei metri di terriccio e ghiaia come suo nipote. Non l'ho vista sulla mensola dei morti della signora Nunzia, il che mi dona un po' di sollievo.
Quando Patrizia, alla buon'ora, pone fine al suo set fotografico, Gianluca si dirige verso il tavolo dei bimbi con l'allegria di un condannato all'iniezione letale. Questo tavolo, tra l'altro, è più basso di quasi trenta centimetri rispetto a quello degli adulti. Sembra di stare seduti sul pavimento e Sam ha le gambe così piegate vicino al busto, da sembrare accovacciato su una turca per scaricarsi.
Per la prima volta dall'inizio di questo viaggio, tuttavia, riesco finalmente a leggere una sincera emozione di disperazione sul volto di Emme quando, dopo aver dimenticato in modo sbadato una delle sue macchine usa e getta su un tavolo, un nipotino della sposa gliel'ha aperta — bruciando il rullino al suo interno.
Un bimbetto che non sembra superare i nove anni ci guarda fisso da cinque minuti. Sam gli lancia delle occhiate infastidite, Marco evita lo sguardo e Gianluca, infine, gli fa la linguaccia per spaventarlo. Gli picchietto il lato del piede contro il suo per convincerlo a smetterla, ma così mette il muso pure a me.
«Cosa ci fate qui?» ci chiede all'improvviso.
Arriccia il naso con fare snob, mi ricorda fin troppo l'espressione imbronciata di Patrizia quando, sei anni fa, ci siamo presentati a casa di sua nonna.
Il DNA è una materia meravigliosa di cui sappiamo ancora troppo poco.
«Suoniamo la cornamusa.» risponde Gianluca.
Gli tiro un calcio.
«Nunzia, tua... zia? Cugina di ventesimo grado?» si inceppa Sam, «Va beh, lei, ci ha invitato al matrimonio di Patrizia, tua... Patrizia, la sposa.»
In effetti, quando la signora Nunzia ha tentato di riassumerci le diverse parentele con ognuno degli invitati, mi sono persa anche io. Devono aver rispolverato l'albero genealogico fino al trentesimo grado di parentadi per organizzare questo benedetto matrimonio.
Il bambino, nonostante il tono gentile di Sam, non accenna nemmeno l'ombra di un sorriso. Sposta gli occhi scuri su Marco e lo indica con il suo indice ossuto.
«Tu hai le orecchie a sventola.»
Marco lo guarda impassibile.
«Lo so.»
Dopodiché si volta verso Gianluca, lo squadra ben bene come se si trattasse di un capello nel piatto di pasta.
«Tu hai la faccia scottata.»
«Tu i denti storti.»
Gli tiro un altro calcio. Lui mi posa una mano sul ginocchio per tenermi ferma la gamba. Il suo tocco sembra ustionarmi — e non solo perché ci sono cinquanta gradi all'ombra. I nostri occhi si incrociano.
Sam, di fianco a me, si lascia sfuggire una risatina strozzata mentre si caccia in bocca un pezzo di pane casereccio. Ci giriamo entrambi a guardarlo con aria interrogativa.
«Virgi, sei ancora convinta di voler portare avanti la farsa del finto fidanzato con Fuma? Sarebbe davvero un pessimo padre.»
Ma chissenefrega del pessimo padre, mi dico. Come se questa fosse la mia prima preoccupazione.
«Ancora con questa storia? Mi pareva che i ruoli ormai si fossero consolidati.»
«Siete fidanzati?» s'intromette un'altra bambina.
Tutti i loro amichetti emettono un "oooh" in coro, sembra una scena tratta da una commedia.
Ancora una volta lascio parlare Gianluca.
«Ehm... no.»
Sento ancora una volta la sensazione di una puntura in mezzo al petto. Non mi lancia nemmeno un'occhiata di sottecchi.
Peccato, dopo ieri sera mi sembrava che qualcosa fosse cambiato. Ricordo benissimo il modo in cui mi guardava e ricordo altrettanto bene le allusioni all'essere il mio principe azzurro. Possibile che io abbia frainteso tutto?
«Bene, perché sei antipatico.» riattacca il bimbo, quello che ha dato inizio a questo scambio di insulti.
«E tu sei un rompiscatole.»
Sono le sette di sera, si è alzata una piacevole brezza estiva, nonostante le temperature ancora fin troppo elevate. Sediamo a bordo della pista da ballo a sorseggiare Spritz da un bicchiere di plastica, mentre gli altri invitati — più ubriachi di noi — si lanciano in improbabili passi di danza. Osservo la sposa cercare di liberarsi dei bimbetti che per gioco le si lanciano sulla gonna del vestito. Marco muove le gambette e la testa a tempo di "Mi fai impazzire", Gianluca scalpita dalla voglia di fiondarsi anche lui a ballare insieme agli altri. L'unico assente è Sam, che da circa le quattro sta pedinando una lontana cugina di Paolo; una ragazza timida e timorosa che lui, in modo goliardico, ha iniziato a chiamare di punto in bianco "sua moglie". Se solo Paolo fosse qui avrebbe già avvertito la poveretta di avere a che fare con un deficiente.
«Menomale è finita. Racconterò di questo matrimonio ai miei, domani sera.» mi lascio sfuggire di punto in bianco.
Giurerei di aver visto Marco accennare a un sorriso ancora più strano del solito.
«Ma come? Non ti piace tutta questa atmosfera festiva?» mi prende in giro Gianluca.
Ancora, non mi nega il ritorno a casa. Che abbia sbagliato, e che sia davvero questo l'ultimo nostro giorno in Salento? Ci passa davanti una signora con in mano un tovagliolo pieno di bignè alla crema, per cui Paolo andava matto.
«Se stessimo celebrando il matrimonio della mia, di cugina, andrebbe anche bene. Quello di un'estranea, peraltro in pantaloncini e infradito? Anche no.»
Al sentir nominare le sue Flip Flop, Gianluca muove le dita dei piedi in modo ritmico.
«Sempre così critica, Virgi. Viviti il momento.»
«Il momento è vestito da spiaggia in mezzo a gente con il frac.»
«Il momento è anche tutti noi insieme: tu, io, Emme, e quel cretino là in fondo. Incredibile, rimorchia anche in costume da bagno. Secondo me è l'altezza, a voi ragazze piacciono sempre quelli alti.»
Evita di menzionare l'assenza di Paolo, comunque presente a suo modo. Lascia che il suo ricordo — e la sua mancata menzione — rimanga sospesa in aria per un secondo. Mi sembra quasi di poter udire il "e io, brutto ingrato?" che gli avrebbe berciato Paolo se solo ci fosse stato, un attimo prima che il dj cambi musica.
L'inizio è inconfondibile.
Anche perché in macchina l'avremo sentita come minimo trenta volte.
È "Questa sera" di Marco Mengoni. Non è nemmeno nello stile di Gianluca, ma per qualche motivo sembra adorarla e io, per riflesso, l'apprezzo in egual modo.
Schizza in piedi ancora prima che qualcuno possa esclamare di averla riconosciuta.
Credo di vederlo precipitarsi in pista da solo, ma prima ancora che possa formulare per intero questo pensiero si volta per strattonarmi con la mano libera.
«Vieni!»
Oppongo resistenza per un secondo, lui mi rivolge un'espressione implorante.
«Questa me la devi concedere, Virgi.» mi sollecita.
Ricorre a un altro sguardo di supplica, manca solo il labbro inferiore protendente. E così ci casco di nuovo: non riesco a dirgli no anche se lo vorrei. Come l'altro ieri notte, quando mi ha lanciato la ghiaia del mio stesso giardino contro la finestra per chiedermi di imbarcarmi in questa follia.
Quando mai mi hai vista ballare, Fuma? Vorrei dirgli.
Tuttavia, quello che invece mi ritrovo a fare, è allungare reticente un braccio verso di lui per farmi trascinare.
I miei primi passi di danza sono incerti, sembra di vedere ballare Pinocchio prima di venir trasformato in bambino. Sono in evidente imbarazzo e vorrei solo poter sgusciare via a gattoni per porre fine a questa tragedia del genere umano. Gianluca non sembra farci caso; mi afferra saldo il palmo per farmi fare una piroetta mentre la musica — così forte da darmi un lieve fastidio ai timpani — sembra cancellare tutto quanto. Per me ora esiste solo Gianluca e il sorriso a trentadue denti che mi rivolge. Gli occhi sono socchiusi per la felicità e non li distoglie mai dai miei, se non quando mi fa fare le giravolte.
Alla fine, ballonzolare con lui non sembra più così tanto una vergogna, quanto una benedizione. Se c'è un finale ancora migliore a questa parentesi festosa, è un bacio. Non mi importa se siamo in pubblico, se a Sam verrà un infarto o se Marco ne rimarrà traumatizzato a vita. So per certo che se Gianluca impazzisse, in questo preciso momento, e si piegasse per rubarmene uno, io non mi ritirerei.
Non come ieri sera.
Quando la canzone finisce, mi immobilizzo in attesa del mio finale da fiaba. Lo fisso dritto in faccia come invito, ma una parte di me spera di non apparire come uno di quei pesci imbalsamati all'ingresso dei ristoranti, con le biglie di vetro al posto degli occhi. Anche lui mi guarda, il sorriso sembra allargarsi ancora di più e mi tira a sé.
È il momento, mi dico.
Inizio a strizzare le labbra ma, invece di sentirci sopra le sue, mi ritrovo a baciare la sua camicia hawaiana all'altezza della spalla.
Mi ha dato un abbraccio.
Lo stringo cercando di non dar troppo a vedere la mia delusione, ma non posso fare a meno di piegare verso il basso la bocca.
Nel momento in cui si allontana, sollevo lo sguardo per cercare ancora il suo. Mi sorride ancora.
«Ti hanno mai detto che dovresti andare a ballare all'Opera?»
«Ci vai da solo o ti ci devo mandare io?»
Mi abbraccia di nuovo, questa volta ondeggia anche sui lati spostando il peso da una gamba all'altra.
Nella mia testa si materializza l'immagine — mai vista, ma comunque nitida come se fosse reale — di Paolo a bordo pista, con un piglio compiaciuto, che manca la cannuccia del drink quando cerca di metterla in bocca, perché troppo occupato a osservare noi.
Inizia un'altra canzone, ma non faccio caso a quale essa possa essere. Ho la testa altrove. Anche se la vergogna di aver danzato come un ciocco di legno mi aliena e lo farà per il resto dei miei giorni, vorrei comunque poter ripetere l'esperienza.
Nel mio campo visivo si fa strada un flash improvviso. Penso che possa essere una delle tante macchinette usa e getta di Emme, ma quando lo cerco lo trovo perso nel suo mondo.
«Cià», inizia Gianluca, «penso sia arrivato il momento di andare a salvare la sfigata presa di mira da Sam.» si guarda attorno.
«E quindi l'ingrato compito tocca a te?»
«Precisamente.»
Quando li individua, sul suo viso si dipinge un'espressione burlona.
«Vado.»
Mi dirigo in direzione di Marco rigida come il tronco di un albero, le mani che si aprono e chiudono per permettermi di scaricare almeno un po' la tensione. Questo mi presta poca attenzione, magari non ci ha nemmeno guardati. Conoscendolo, potrebbe aver passato i precedenti tre minuti a fissare il nulla e a vagare per i propri pensieri.
Se solo ci fosse stato Paolo, mi avrebbe strizzato l'occhio malizioso.
Tutto quello che ricevo sedendomi al suo fianco è silenzio e scarsa considerazione. Forse è meglio così, ma non nascondo che mi sarebbe piaciuto sentire il calore di una pacca tra le scapole e qualche frase ambigua per stuzzicarmi. Magari mi avrebbe poi invitato a ballare anche lui e, al mio no, si sarebbe gettato nella mischia per scatenarsi con qualche passo altrettanto sgraziato.
Paolo, quanto ci manchi. Troveremo mai il modo di riempire il vuoto lasciato dalla tua perdita?
«Non torneremo a casa, domani.»
Mi giro di scatto verso Emme.
«Eh?»
«Non torneremo a casa, domani.»
«Avevo sentito benissimo.»
«E allora perché—»
«Era ironia, Emme!» esplodo irritata.
Faccio anche un respiro profondo.
«Spiega: dove andiamo?»
«Forse in un posto che voleva visitare Paolo, prima che...» lascia cadere la frase.
Tanto il finale lo conosciamo entrambi.
«E tu come faresti a saperlo?»
«Fuma l'ha detto al telefono ai suoi, ieri sera.»
Mi sento tradita. Ancora una volta, Gianluca aveva in testa un piano preciso e me l'ha tenuto nascosto. Diceva di non sapere dove andare, quando mi si è presentato sotto casa alle due di notte, eppure aveva già pianificato il viaggio verso la Puglia; diceva di essere partito solo per vivere la vita, ma voleva portare ai parenti di Paolo dei misteriosi CD dal contenuto ancora più misterioso; adesso diceva che mi avrebbe riportato a casa, quando invece ha già messo a punto le basi per un altro viaggio della speranza. Anche questa volta chissà per dove.
Scoprire tutte le sue macchinazioni solo perché, come tutti, abbia commesso l'errore di dimenticarsi della presenza costante di Marco, mi ferisce.
«Cosa ne pensi, Virgi?»
Penso che potrei urlare, penso che vorrei andare a prendere Gianluca per litigare, ma soprattutto penso che, arrivati a ciò, a lui interessi molto poco il mio parere. Che stupida ad aver pensato il contrario.
Stupida, sciocca Virginia.
Ma queste cose, io, a Emme, non posso confessarle. Mi limito a non fiatare e a guardarlo a bocca aperta.
«Anch'io voglio tornare a Lecco.»
Ora mi è tutto più chiaro: l'abbiamo seguito solo per affetto, non perché davvero entusiasti di farlo.
Taccio. Anche perché non mi uscirebbe nulla di buono.
«Ti penti di avergli dato retta, Virgi?»
Marco mi fissa dritto in volto con la fronte aggrottata. Mi sento come se si stesse facendo strada nel mio cervello, sgomitando a ogni ansa, per leggere tutte le mie riflessioni. Sono nuda.
Non ho mai sostenuto una conversazione del genere con lui.
Riesco solo a pensare al fatto che Gianluca, con quei sorrisi ammalianti e i toccamenti fugaci che sempre mi hanno confusa, me l'abbia fatta proprio sotto al naso.
Ora ci si avvicina con stampata in viso l'espressione allegra con cui l'avevo lasciato, al vedermi gli angoli delle sue labbra rosee si tirano ulteriormente verso l'alto.
Nella mia mente, il ripetersi incessante di una frase.
Mi hai tradita.
Buondì! Mi fa sempre molto strano lasciare note in questa storia, ma la mia curiosità e la nostalgia del mare (che quest'anno vedo solo in foto) stanno avendo la meglio: da dove mi leggete? Come avete trovato questa storia?
Sai che ridere se ora saltano fuori lettori di Otranto o di Como...
Al prossimo capitolo!
Lily :*
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