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1. Mi è sempre piaciuta l'avventura

Mi è sempre piaciuta l'avventura, ma quella dei film. Mica quella della vita vera.

È quello che penso quando Gianluca mi si presenta sotto casa, alla comoda ora delle due del mattino, e tira sassi alla mia finestra.

La spalanco arrabbiata, anche perché se continuo a ignorarlo rischio di ritrovarmi con una pozzanghera in stanza al primo acquazzone. Nemmeno tenta di nascondersi dietro una siepe, il lampione della mia via sembra illuminarlo come un faro puntato su un attore in mezzo al palcoscenico. È ancora vestito come al funerale, ma i capelli biondi sono scompigliati.

«È notte fonda, Fuma!»

Un'altra cosa che io e Gianluca abbiamo in comune — oltre agli occhi chiari — è il cognome. Fumagalli.

Non siamo parenti, l'incesto mi mette i brividi, ma a quanto pare qui a Lecco ci sono talmente tanti Fumagalli che non è nemmeno così improbabile trovarci tra noi.

Sembra una scenetta di Romeo e Giulietta: lui in strada, io sul balcone. Speriamo di non crepare anche noi nel finale della nostra storia.

«Virgi fammi entrare, ho avuto un'idea.»

Mi si gela il sangue al pensiero che questa genialata improvvisa possa per davvero coinvolgere l'opera di disseppellire la salma di Paolo. E poi che cosa? Magari portarla a bere una pinta di birra? Gianluca rimedierebbe ai suoi occhi chiusi con un grazioso paio di occhiali da sole. Non può uscire nulla di buono da un'intuizione partorita a quest'ora del mattino.

Sento puzza di pentimento — il mio — mentre sbadigliando mi dirigo ad afferrar le chiavi di casa. Conoscendo le sue trovate, come minimo rischio la galera.

Quando apro il portone, mi rivolge un sorriso angelico. Ora lo riconosco, non sembra più nemmeno la stessa persona di stamattina. È come se fosse andato a farsi una pennichella per scrollarsela di dosso. Se sta soffrendo, non lo dà a vedere.

È bello, non c'è niente da fare.

Osservo lo stirarsi delle sue labbra con la stessa meraviglia che riserverei a una pioggia di stelle cadenti la notte di San Lorenzo. È meno luminoso del solito, ma ciò non lo rende meno ipnotico. I suoi tondi occhi azzurri sono puntati su di me, brillano di una grinta che solo in poche occasioni ho avuto modo di scorgere. Rimango muta.

«Fa' le valigie, tra qualche ora partiamo.»

L'espressione beota che devo aver dipinta sul viso mi muore.

Tra qualche ora partiamo.

Devo aver capito male. Ricordo di avere tanti piani per i giorni a venire, ma nessuno di questi coinvolge un viaggio.

Tra qualche ora partiamo, ma per dove? E con chi?

Mi assale il terrore che Fuma sia diventato tutto scemo come Marco e mi domando come farò a gestire anche la sua, di follia.

«Eh?» è tutto quello che riesco a dire.

I dubbi mi si affollano in testa.

«Ti aiuto io se vuoi—»

«No, Fuma.» lo fermo. «Partiamo per andare dove?»

Lui mi fissa. Per un attimo rimaniamo così. Poi sembra sbloccarsi, sposta il peso sull'altra gamba.

«Non lo so.»

Brutto segno.

«E chi verrebbe in non lo so

«Per ora ci sei solo tu.»

Pessimo, pessimo segno.

Mi convinco che il dispiacere per la morte di Paolo sia stato troppo da sopportare e che, durante il pomeriggio e la sera, Fuma abbia perso il senno. L'altra opzione è che abbia architettato tutto per liberarsi della sottoscritta, ma a questo punto l'idea diventa insopportabile e incomprensibile. Mi passo una ciocca di capelli castani tra le dita e lo guardo impietosita.

«Andiamo dove ci porta l'istinto, viviamo questa vita come se dovessimo andarcene domani.» mi spiega con un'alzata di spalle.

È un ragionamento troppo da Gianluca: buttarsi a capofitto in un qualcosa di improvvisato, senza fermarsi a ragionare sul da farsi finché questo non si trasforma in un ostacolo. Comportamento che a me, personalmente, ha sempre innervosito.

Lui è un impulsivo, io una stratega.

«Te sei matto.» gli dico.

«No, ascolta—»

«Tutto scemo.»

Vorrei rimproverarlo e fargli notare che non è così che si organizza una partenza e che, con una gestione del genere, il massimo a cui potremmo mai aspirare è una scampagnata a Molteno. Ma invece, così come mi succede fin troppe volte, finisco per tacere. Sono le due del mattino, dodici ore fa abbiamo seppellito quello che era il suo migliore amico: sono sicura che sia in grado di tollerare le mie accuse, ma non le mie puntualizzazioni. Anche se mi sorride come se volesse ammaliarmi e anche se potrei cascarci come una pera cotta, percepisco la lama su cui sto camminando durante questa assurda conversazione.

Basterebbe la frase sbagliata per farlo innervosire e spronarlo a lasciarmi qui. Ormai Gianluca è partito — sia con la fantasia, sia con la testa.

«Eddai, Virgi. Abbiamo superato i vent'anni, lavoriamo entrambi e peraltro è pieno agosto. Cosa potrebbe mai andare storto? I ragazzini a cui fai ripetizioni sono tutti al mare, non fai torti a nessuno.»

Cosa mai potrebbe andare storto? Troppe cose. Così tante che su due piedi non riesco nemmeno ad abbozzare un numero. Peraltro, tra noi due, l'unico a lavorare per davvero è lui; nonostante le ripetizioni di matematica, resto ufficialmente solo una studentessa di astrofisica.

Davanti al mio silenzio, lui prosegue:

«Cosa ci direbbe Paolo, se solo fosse qui?»

«Ti darebbe dello scemo come ho fatto io.»

«Anche, ma cos'altro?»

Paolo.

Mi sembra di sentire ancora la sua voce armoniosa mentre pronuncio quello che, con ogni probabilità, sarebbe uscito dalla sua bocca.

«"Piantatela di pensare a me e andatevene".»

Il russare di mio padre, dalla camera matrimoniale aperta, cessa all'improvviso. Mi aspetto di vederlo spuntare dall'uscio sbadigliando, ma dopo qualche secondo di attesa lo sento ancora grugnire.

«Esatto. Non vorrebbe mai che noi ce ne stessimo qui a piangere per il suo lutto senza fare niente. Se la sarà goduta un mondo per i primi cinque minuti, ma sicuramente ora vorrà che la piantiamo.»

L'immagine di Gianluca pallido davanti alla bara è ancora fresca. Ho la sensazione che questo viaggio sia un modo per non rimanere da solo con il proprio dolore, più che un effettivo ultimo desiderio del nostro amico. Gli farebbe tanto bene distrarsi, tenere la mente occupata sulla strada davanti a sé e non su quella che ha alle spalle...

E poi, diciamocela tutta: con un'organizzazione così scarsa, saremo di ritorno ancora prima di aver raggiunto il casello di Melegnano. Mezza giornata al massimo.

Sospiro.

Cosa non si fa per amore.

Lo seguirei fin in capo al mondo, se solo mi consentisse di star al suo fianco.

«Va bene.»

Il suo viso si illumina di gioia. Ora lo riconosco per davvero.

Gianluca è sempre stato un ragazzo allegro, talvolta spensierato in modo patologico. Gli presenti un problema e lui, dopo qualche macchinazione e grattatina di capo, te lo ripresenta più grande di prima, ma con un sorriso sulle labbra.

«Sei super! Prendi tenda e sacco a pelo, vado ad arruolare anche gli altri! Ci vediamo tra due ore!»

E con la stessa esuberanza con cui è venuto, Gianluca mi dà le spalle e se ne va. Mi incanto a osservare l'ondeggiare delle sue spalle larghe a ogni passo e il modo sereno con cui mette un piede davanti all'altro. Non è niente che non abbia già notato altre volte, ma è più forte di me e non riesco a distogliere lo sguardo finché non lo vedo sparire dentro l'abitacolo della sua macchina.

> Mamma, papà,

non c'è bisogno di spaventarsi: Paolo aveva un buono vacanze vacante e che sarebbe scaduto molto a breve. Sono partita con Fuma e gli altri. Tornerò presto, non preoccupatevi per me.

Devo essere sincera: per il momento, l'unica spaventata, qui fuori, sono io.

La prima persona che vedo appena aperta la porta di casa è Sam. O meglio: l'imponente silhouette di Sam. Sam non è nemmeno il suo vero nome. Si chiama Niccolò, ma per qualche motivo l'abbiamo sempre chiamato così. Nessuno di noi riesce a ricordarsi perché. Mi lancia un'occhiata divertita prima di camminare nella mia direzione con passo deciso e braccia aperte. Si è legato una bandana rossa tra i capelli neri, sulle gote un accenno di barba.

Mi domando dove Gianluca abbia programmato di infilarlo, dal momento che Sam è così alto che l'unico modo per farlo stare comodo nella sua Fiat Panda, sarebbe farlo sedere dietro ed eliminare il sedile davanti.

Ha uno stuzzicadenti stretto tra canino superiore e inferiore; come faccia a parlare senza farlo cadere, rimane un mistero della fisica moderna. Lo tiene in bocca ben oltre il momento post-prandiale, quasi come un accessorio. Nemmeno lui sembra reduce da un funerale.

«Pronta per il Salento?» mi domanda con un sorriso.

Neanche sapevo che fossimo diretti verso il Salento, tanto per cominciare.

Giungo alla conclusione che Gianluca, durante il suo saltellare da una casa all'altra, abbia finito per condire la sua storiella con numero crescente di dettagli, ed essendo stata la prima, a me sia toccato lo scheletro iniziale.

Ma poi è davvero un caso che Paolo fosse mezzo salentino e che l'obiettivo sia puntare proprio là? Non so se essere sollevata che Gianluca abbia finalmente fissato una meta, o preoccuparmi di più.

«Prontissima.» mento.

Gianluca è in piedi davanti al baule aperto della Panda di seconda mano, sembra felice di vedermi. Per un attimo mi dimentico della pessima idea che ha architettato e mi soffermo solo su di lui. L'alba nascente mette in risalto il chiaro-scuro creato dai suoi bicipiti.

«Buongiorno.» inizia. «Di nuovo.»

Mi si avvicina con la mano tesa davanti a sé come invito a passargli il borsone. Si lascia sfuggire uno sbuffo non appena ne percepisce il peso e strabuzza gli occhi azzurri.

«Ma qualcosa te la sei portata, almeno?»

Non credo affatto a questa gita in Puglia, ma ci ho messo dentro lo stretto necessario per farti credere di fidarmi e di voler partire.

O almeno questo è ciò che vorrei dire.

«Vestiti, sapone, pigiama... le cose importanti.»

Un angolo delle labbra di Gianluca si solleva verso l'altro in un ghigno divertito. Ci guardiamo negli occhi per una frazione di secondo, poi, senza distogliere lo sguardo, finalmente mi dà le spalle.

Penso di aver appena avuto una caldana.

Sono entrambi in bermuda e canottiera nonostante tiri una fastidiosa arietta fredda. All'orizzonte delle nuvole violacee — cattivo presagio, forse?

Li guardo trafficare con la mia valigia per incastrarla nel baule, quando mi rendo conto di come all'appello manchi una persona: Marco. Vuoi vedere che quello, zitto zitto, ha mostrato più senso logico di tutti e ha disertato?

«Ma Emme?»

L'abbiamo soprannominato "Emme" perché è l'iniziale del suo nome, ma io avrei sempre voluto poterlo chiamare "Marco – morto" a causa del suo essere così... smorto.

Non appena pronuncio queste parole, ecco spuntare le sue orecchie a sventola. Si era solo sdraiato sui posti indietro. Mi mostra l'indice alzato come se stesse rispondendo alla chiamata della prof, ma come al suo solito non apre bocca.

Sono sconcertata dal fatto che nonostante il lutto fresco, si siano tutti imbarcati in questa follia. C'è anche la sottoscritta, ma almeno io ho la scusa di farlo per amore — e per quanto avvenente possa risultare Gianluca, dubito che anche gli altri due siano caduti in questo tranello.

Fuma dà una spallata al mio borsone per conficcarlo meglio, lo vedo sudare per lo sforzo. Maledice tra i denti il fatto di avere una macchina così piccola ed è la prima volta che lo sento mettere in dubbio la sua assoluta magnificenza. Sam inizia a preoccuparsi di doversi fare il viaggio sul tettuccio e s'infila nei sedili posteriori — cacciando via Emme — per tenere la valigia da uno dei manici ed evitare che caschi a terra non appena Fuma la lasci andare. Infine, come in un miracolo, il portellone si chiude.

A fatica, ma si chiude.

Sono riusciti a far entrare tutti i bagagli. Stento a crederci.

«I più bassi dietro.» afferma Sam guardandomi.

Supero la media di cinque centimetri, avrei voluto rispondere. Ma cosa sono cinque centimetri, per uno che lo fa di ben quasi quindici? Mi siedo dietro a Fuma, Sam fa scorrere il proprio sedile così tanto addietro che per un attimo temo possa tranciare le gambe di Emme. Il suo borsone da calcio sul posto centrale ci fa da separé, pronto a capitolarci addosso alla prima curva a gomito. Come se non bastasse, in cima a esso Emme ci posa un sacchetto pieno di vecchie macchine fotografiche usa e getta — anch'esso pronto a finire sulle nostre teste al più trascurabile movimento.

«E queste?» gli chiede Sam.

«Per fare le foto.»

«E non potevi farle con il cellulare come tutti i cristiani? Che so, prenditi una polaroid, se proprio vuoi fare l'hipster...»

Fuma sospira profondamente per tagliare il discorso, si passa una mano tra i capelli biondi e, infine, posa entrambe alle dieci e dieci.

«Partiamo. Destinazione: Otranto.»  

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