Marion XVII
Il vento era arrivato la notte precedente.
Aveva sibilato tra gli scuri delle finestre, svegliando Keme, e s'era infranto con forza inaudita contro le porte, quasi a volerle buttare giù. E si era intensificato dopo l'alba: mentre Marion si aggirava per l'aia le alzava le gonne, bizzoso come il suo umore, giocava con i capelli che sfuggivano alla cuffia rammendata e scompigliava il fieno nella mangiatoia delle pecore.
Suo marito si era fermato una sola notte a casa, ma non aveva dormito con loro nella camera padronale, né aveva rivolto più la parola a Marion; e ora che era partito insieme a Étienne alla volta di Montréal su una strada irta di pericoli, la donna si rammaricava di non aver almeno tentato di ricucire lo strappo tra loro.
"Non è un uomo irragionevole, se si tiene alla larga dal vino. Sono certa che non intendesse essere così brusco" si ripeté. Non avrebbe saputo dire neanche a sé stessa perché desiderava che quelle ultime sue parole – questo matrimonio non potrà mai funzionare – fossero false.
Il matrimonio era sacro e di questo Marion non aveva mai dubitato; mai le era sovvenuto che il legame affettuoso che i suoi genitori avevano condiviso potesse essere una felice eccezione, invece che la regola.
Inoltre, in quei cinque giorni di solitudine aveva scoperto che essere irata con suo marito era più difficile di quanto il carattere di lui lasciasse a intendere. Nonostante rimanesse muto di fronte a lei, infatti, Marion l'aveva udito ordinare a Pierre di vegliare su di lei e su Keme in sua assenza: nel farlo, il suo tono s'era addolcito in una maniera che le aveva spinto il cuore in gola e le aveva confuso i pensieri.
Il vento le schiaffeggiò il viso e le portò al naso un odore curioso – odore di grasso misto a cenere e al profumo pungente della terra.
Si voltò verso i campi: le schiene chine di Pierre e Le Loup, intenti a sradicare le ultime sterpaglie, spiccavano tra le zolle nere e rivoltate e il cielo di un azzurro pallido, slavato, che prometteva pioggia.
Louis alzò lo sguardo per un istante, la vide, le fece un cenno di saluto; Marion abbozzò un sorriso.
"Non ho ragione di essere inquieta. Sarà di ritorno tra pochi giorni e allora avremo tutto il tempo di appianare le nostre divergenze" si disse e con cuore più leggero decise di rientrare in casa e tornare alle sue faccende. Keme di certo si era alzata e l'attendeva per fare colazione.
Le Loup, alle sue spalle, lanciò un grido.
Sulle prime Marion pensò che si fosse incaponito su un'erbaccia particolarmente tenace, ma altre voci si aggiunsero a quella dell'uomo – urla di guerra in una lingua che non era il francese.
Voltandosi, la donna scoprì che la foresta aveva preso vita.
Perse istanti preziosi a comprendere che quelle figure che sciamavano verso di loro non erano alberi improvvisamente animati, bensì selvaggi dipinti di nero e rosso che correvano verso la fattoria come se fossero guidati da un'unica mente.
Il terrore le chiuse la gola e non poté far altro che restare a guardare mentre gli Irochesi circondavano Pierre che, roteando il forcone attorno a sé, pareva deciso a fare scudo al vecchio. Brandiva quell'arma improvvisata con una tale perizia e ferocia che per qualche istante i selvaggi parvero esitare nel loro assalto; ma fu, appunto, il ghiribizzo di un momento.
Un'ascia si abbatté sulla testa dell'uomo e anche se distava da lei almeno mezzo miglio, Marion emise un singulto d'orrore, ché era morto di certo e la terra si stava già abbeverando del suo sangue.
Le Loup, che in un primo momento aveva tentato di scappare con la sua andatura scomposta, alla vista di quello scempio sembrò rendersi conto della futilità della sua fuga e imbracciò la vanga come fosse stata un'alabarda.
«Correte, signora!»
Solo allora Marion riuscì a liberarsi dalla paralisi in cui la paura l'aveva gettata e, incitata dalle urla dei selvaggi alle sue spalle, sollevò le gonne e si diede alla fuga.
«Henri!» strillò, guardandosi attorno disperata. «Henri, il moschetto!»
Ma il ragazzo non si vedeva da nessuna parte.
"Ha visto la mala parata ed è scappato" pensò. "Ma dove andare? In che direzione?"
Gli Irochesi ormai erano così vicini che se si fosse voltata avrebbe potuto distinguere i loro lineamenti sotto le maschere che si erano dipinti sul viso. Tuttavia Marion continuò a correre, affondando i tacchi delle scarpe ora nell'erba ora nella terra battuta, alla ricerca di una via d'uscita.
Poi, un pensiero s'impose su tutti gli altri e le mozzò il respiro.
«Keme!»
Chiamò la bambina con quanto fiato aveva in gola, incespicando verso la porta della cucina: Keme era lì e la osservava con occhi esterrefatti e confusi. Marion tese le braccia e in cuor suo formulò la preghiera più sentita che avesse mai rivolto al cielo:
"Fammela stringere al petto e la porterò in salvo, al sicuro."
Qualcosa la colpì sui reni e la fece crollare a terra senza un suono.
Riversa sul terreno, tra le lacrime che le offuscavano gli occhi scorse un selvaggio sollevare Keme come fosse stata una piuma e scrutarla con evidente curiosità mentre la bambina si dibatteva e strillava.
«No...» balbettò, facendo leva sui gomiti per rialzarsi.
Il suo corpo si rifiutava di obbedirle e Marion fu costretta a strisciare nel terreno fin sotto i piedi dell'Irochese, le mani giunte tese verso di lui.
«È mia figlia e non vi ha fatto alcun male» disse, con la voce resa più acuta e chiara dall'angoscia.
Il terrore di pochi attimi prima aveva lasciato il posto a una lucidità spietata.
«È una bambina innocente che non potrà mai nuocervi, vi prego... Lasciatela vivere. Prendete me al suo posto e lasciatela andare.»
Gli occhi del selvaggio la fissavano con lo sguardo immoto delle statue.
"Non mi darà ascolto."
Un raggio di sole danzò sul filo affilato dell'ascia che teneva in mano.
«È una bambina» mormorò di nuovo, con più frenesia, aggrappandosi alle ginocchia dell'uomo in un ultimo tentativo di abbracciare Keme.
Keme che la guardava come l'aveva guardata Catherine per l'ultima volta, con lo stupore dei bambini messi di fronte alla morte.
L'Irochese se la strinse al petto, arricciò le labbra in un sorriso candido e terrificante e mormorò qualcosa nella sua lingua.
Poi si chinò su Marion, portando il viso così vicino al suo che la donna riuscì a scorgere le rughe d'espressione sotto la pittura nera. Su una guancia v'erano quattro gocce di sangue — di Pierre, o forse di Le Loup.
Quando il selvaggio parlò di nuovo, lo fece in un francese stentato e quasi incomprensibile:
«Alzati, donna. Vieni anche tu.»
NOTE STORICHE
• Facendo un po' il punto sugli Irochesi, come ho già detto in precedenza in questi anni la lega delle cinque nazioni si è mobilitata al fianco di inglesi e olandesi contro l'impero francese; i francesi gli avevano infatti promesso di includerli nel lucroso commercio delle pellicce, ma quando gli Irochesi avevano risalito il San Lorenzo si erano rifiutati di comprare le pelli direttamente da loro e gli avevano imposto di usare gli Uroni come intermediari. All'inizio degli anni '60, gli Irochesi smisero di combattersi tra loro e iniziarono una sistematica guerriglia nei confronti sia dei coloni sia delle popolazioni indigene.
E qui si chiude la seconda parte... Il capitolo è corto, lo so, ma spero che il contenuto scoppiettante sopperisca a questo fatto 😂
Dato che la sessione si avvicina, come l'altra volta vorrei prendermi una settimana di pausa dalla pubblicazione per ultimare i prossimi capitoli (senza ritrovarmi poi la domenica sera con l'acqua alla gola e finire per pubblicare qualcosa che non mi convince).
Però non disperate, che insieme al divisorio della terza parte la prossima settimana arriverà un piccolo extra 🥰
Ora sono curiosissima di sapere la vostra su questo capitolo, che ho in mente da quando ho iniziato a scrivere FDR 🤭😝
Enjoy ❤️
Crilu
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