Marion XV
Non appena mise piede all'interno della casa dei parenti di suo marito, per qualche istante Marion fu avvolta dall'oscurità. Il cuore le balzò in gola e la schiena fu scossa da un brivido, perché davanti a lei si estendeva una galleria senza fondo, con pareti che s'incurvavano sopra la sua testa: le pareva di essersi addentrata nel ventre di una bestia infernale.
Al suo naso giunse l'odore di fumo che le chiuse la gola e le fece lacrimare gli occhi e così, cieca e muta, la donna barcollò a tentoni nella casa. Poi la vista le si schiarì e riuscì a mettere a fuoco i numerosi focolari disposti a intervalli regolari davanti a lei; quando il sole fosse tramontato avrebbero potuto illuminare a giorno l'ambiente, ma a quell'ora del pomeriggio c'erano solo delle braci che rosseggiavano debolmente.
"Non sembrava così spaziosa" pensò Marion e nonostante il timore non poté fare a meno di guardarsi intorno affascinata.
Quella che dall'esterno le era parsa una rozza capanna ricoperta da fogli di corteccia era in realtà sorretta da una possente impalcatura di legno che le ricordava le gabbie di vimini intrecciati in cui si custodivano gli uccelli vivi – rettangolare nel corpo, ma arrotondata alle estremità.
Sui due lati dei focolari si aprivano numerosi loculi, che misuravano all'incirca venti piedi di lunghezza e dieci di larghezza, da cui si affacciavano i visi un poco allarmati e un poco curiosi di donne e ragazzi di varia età.
Marion s'immobilizzò all'istante sotto i loro sguardi: erano in molti, troppi per contarli, e all'improvviso le sovvennero le ampie camerate dell'ospizio a Parigi che aveva dovuto condividere con decine di sconosciute.
"Sono indigenti? È per questo che vivono tutti insieme?" si chiese. "O forse sono parenti? Le loro facce mi sembrano tutte uguali..."
Dato che nessuno le si dimostrò palesemente ostile, Marion azzardò qualche passo in avanti, scrutando gli amerindi alla ricerca della nonna di Keme.
«Chosovi?» chiamò, incerta.
Quel nome parve ispirare un fremito collettivo nei presenti, finché una donna non la invitò coi gesti a seguirla; attraversarono gran parte della casa, finché Marion non scorse una seconda porta alla fine della galleria, identica a quella da cui era entrata. Invece di uscire, però, la donna si fermò davanti all'ultimo loculo e le fece cenno di entrare.
A circa un piede d'altezza era stata innalzata una panca che si estendeva per quasi tutta la lunghezza dello spazio ed era chiusa alle estremità da dei tramezzi in legno: sopra di essa, comodamente adagiata tra le pelli che ricoprivano anche il muro alle sue spalle, riposava una vecchia.
Il viso aveva la stessa ossatura allungata di quello suoi figli, con zigomi alti e spigolosi e un grosso, lungo naso che svettava sotto due occhietti neri e incredibilmente vividi: qualcuno – il buon Dio, o forse il diavolo – vi aveva acceso dentro un fuoco indomabile, che si faceva beffe dell'età e del corpo ormai fragile. Anche in quella posizione, con la schiena appoggiata al muro e le gambe incrociate, si poteva intuire che la donna era di bassa statura, dato che i lunghi e fluenti capelli grigi la circondavano come un manto e arrivavano a lambirle le caviglie. Quando distese le braccia intorpidite verso l'alto, Marion capì anche perché Chosovi avesse bisogno di riposarsi: le ossa sporgevano in maniera innaturale sotto la pelle fragile, solcata da vene verdi e contorte come rovi.
«Cosa stai aspettando?» domandò la donna, storpiando un poco le parole francesi. La voce chiara e squillante, come gli occhi, non rendeva affatto giustizia al suo aspetto.
«Salve» replicò Marion per prendere tempo, cercando al contempo qualcosa di intelligente da dire: quello sguardo deciso non la lasciava andare neanche per un istante e iniziava a metterla in soggezione.
«Io sono...»
«La figlia del Re» ghignò Chosovi. «Ti chiami Marion e hai avuto la sventura di sposare Serge Roux. So già chi sei e tu sai già chi sono io, dunque perché resti lì a sorreggere la porta, ragazza mia? Vieni avanti, siediti un poco qui con questa vecchia!»
Marion obbedì, con addosso la sgradevole sensazione di non poter fare altrimenti.
Nel sedersi dovette chinarsi per non sbattere la fronte contro lo scaffale che sporgeva sopra alla panca e su cui erano affastellate stuoie e pellicce e utensili il cui scopo le era sconosciuto. Decise anche di sfilarsi il mantello dalle spalle, ma non sapendo dove appoggiarlo se lo mise in grembo – un'ulteriore barriera tra sé stessa e Chosovi, che continuava a fissarla con il fare astuto di un predatore.
«Come fate a conoscermi?» mormorò infine, agitandosi alla ricerca di una posizione più comoda.
La vecchia ruotò il busto e appoggiò una spalla ossuta contro il muro in modo da poterla studiare meglio: erano così vicine che Marion poteva scorgere ogni singola ruga che le solcava il viso.
«Vedi, non mi muovo spesso – le mie gambe non me lo permettono – ma le notizie viaggiano veloci anche presso di noi e prima o poi arrivano tutte a me. Quando Ahiga e Ahanu mi hanno detto che Serge aveva ripreso moglie ho capito che dovevi essere venuta da di là del mare: nessuna donna nei dintorni di Québec sarebbe stata altrettanto folle o disperata.»
«Forse le donne e gli uomini dei dintorni lo giudicano troppo duramente» replicò Marion, stringendo le labbra per trattenere un improvviso moto di stizza.
«E forse anche voi lo fate.»
Un'emozione emerse e scomparve dal volto di Chosovi, veloce quanto un battito di ciglia: Marion non riuscì a capire se fosse divertimento o scherno.
«Cosa ne sai, tu, di quel che penso di tuo marito?»
«So che vi aveva affidato sua figlia nel momento del bisogno e che voi vi rifiutate di lasciarla andare.»
«Sua figlia, che è anche mia nipote, aveva bisogno di una madre. Quando Serge si risposò gli concessi di prenderla con sé, ma credo che oramai tu sappia come sia finita.»
«E intendete continuare ancora a punirlo per un errore di giudizio?»
Chosovi rimase in silenzio a lungo e quando riprese a parlare Marion fu spiazzata dalla maniera brusca con cui cambiò argomento.
«Nei miei più lontani ricordi ero schiava del popolo che voi chiamate Irochesi insieme a mia madre. Poi fui catturata di nuovo e arrivai presso i Wyandot; incontrai un uomo, lo sposai e partorii i suoi figli. Ho vissuto una lunga vita – una vita felice, se non fosse macchiata dal fatto di aver perso la mia unica figlia – ma ovunque io sia andata sono rimasta una straniera.
Ho vissuto con gli Irochesi fino al compimento delle quindici primavere, ma tutto ciò che mi è rimasto di quel tempo è l'odio che provo nei loro confronti.
Vivo con i Wyandot da quasi cinquant'anni. Quando gli Irochesi vennero a cercarci dopo averci sconfitto in battaglia, fui io a guidarli verso le terre che popolavano le mie memorie di bambina e così facendo ho salvato loro la vita... Li ho visti nascere, li ho visti morire, ma io non appartengo a questa gente e loro non appartengono a me.»
All'improvviso le afferrò la mano con una forza spaventosa: Marion provò a sottrarsi alla sua presa, ma le lunghe unghie di Chosovi affondarono nella sua carne e la immobilizzarono. Gli occhi avevano perso ogni traccia di benevolenza ed erano diventati severi e terribili come quelli di un giudice prima della sentenza.
«Bada che ti sto raccontando questa storia per un motivo e questo non è suscitare la tua pietà da cristiana! Voglio che tu comprenda che le uniche persone a cui sono fedele sono i miei figli e, di riflesso, i loro figli. Keme appartiene a me come io appartengo a lei e Serge Roux, col suo giudizio annacquato dal vino a cui è tanto devoto, l'ha messa in pericolo. Non è una cosa che posso perdonare facilmente.»
Marion si alzò di scatto e barcollò quando Chosovi la lasciò andare senza fare resistenza: sembrava essersi acquietata, la vaga minaccia insita nella sua voce era scomparsa e nei suoi occhi si era riacceso l'interesse nei suoi confronti.
Marion stropicciò il mantello tra le dita, passandolo da una mano all'altra senza trovare il coraggio di infilarselo e marciare fuori da quella casa, lontano da quella vecchia che le metteva addosso tanta inquietudine. Nonostante fossero passati quattro mesi da quando era partita, su quel pezzo di stoffa blu permaneva ancora l'odore di Parigi: forse per quello, o forse per la fierezza con cui Chosovi aveva difeso le proprie ragioni e la propria famiglia, Marion avvertì le lacrime pungerle gli occhi.
"Anch'io non mi sento a casa" avrebbe voluto dire. "Neanche io appartengo a questo posto, a questa strana gente, a questo marito disperato."
Per quanto quelle parole pesassero sul suo cuore, però, non riuscì a pronunciarle.
"Ho fatto la mia scelta" si disse. "Non nel municipio di Québec, ma l'altra notte, quando ho salvato Roux dall'annegamento. Non posso tornare indietro."
Tornò a guardare Chosovi negli occhi. La vecchia non si era mossa, eppure qualcosa nel suo aspetto le appariva diverso: ora riusciva a vedere la tristezza nascosta nelle pieghe ai lati della bocca e il leggero tremito delle dita nodose.
Per la prima volta da quando si era svegliata quella mattina, Marion fu libera da ogni sorta di timore.
«Non vi sto chiedendo di perdonarlo. Egli ha, in effetti, la malsana abitudine di commettere atti imperdonabili. Tuttavia gli avete dato la vostra unica figlia in sposa e questo vorrà pur dire qualcosa.»
Chosovi buttò indietro la testa e dischiuse le labbra in un sorriso.
«Vuol dire che anch'io sbaglio, a volte. Ho permesso a Roux di sposare Yarhata perché lei ne era innamorata e riuscì a convincermi che il loro amore l'avrebbe avuta vinta su ogni cosa. Così non è stato e io non me lo perdonerò mai... Né commetterò lo stesso errore due volte.»
Sotto quello sguardo che pareva in grado di scrutare gli angoli più nascosti del suo cuore, Marion si sorprese ad arrossire come una fanciulla inesperta.
«Non v'è questo pericolo nel nostro caso» mormorò, lasciando correre lo sguardo sulle pareti di legno e sulle morbide pelli che vi erano appese.
Suo marito aveva vissuto lì dentro, da ragazzo, in tutto e per tutto uguale a un selvaggio. Si chiese se fosse stata quell'esperienza a rendere più ruvido il suo carattere, o se invece l'amore di Yarhata e della sua famiglia fosse stato ciò che l'aveva salvato, impedendogli di diventare meschino come suo padre.
"Cos'è più forte, il richiamo del sangue o quello del cuore?"
La risposta al quesito che Keme rappresentava era tutta lì, in quel pensiero.
«Avete detto che Keme appartiene a voi e io non lo posso negare. Sposando Roux, tuttavia, vostra figlia aveva accettato di crescere i loro bambini in seno alla nostra gente. Keme è e sarà sempre anche figlia di suo padre: vi sembra giusto sottrarla a lui? Privarla dell'eredità che è sua di diritto, del futuro che potrebbe avere vivendo con noi?»
«Il futuro di Keme è qui.»
La voce di Chosovi era talmente bassa e carica di rabbia che Marion fece d'istinto un passo indietro.
«Credo che il futuro di Keme sia ovunque lei deciderà di cercarlo» replicò.
"Io posso solo pregare il Signore affinché la conduca sulla retta via" concluse tra sé e sé.
Notò con un intimo moto d'orgoglio che la vecchia era rimasta senza parole; a giudicare da ciò che Roux le aveva detto su di lei, era un fatto raro.
Infine Chosovi si lasciò scivolare sul pavimento.
La sua testa arrivava a stento al seno di Marion, ma la donna si affrettò a lasciarle il passo mentre la vecchia si dirigeva fuori dalla capanna. I suoi movimenti erano macchinosi e incerti come se non avesse usato gli arti da tempo immemore.
"Dovrei offrirle il braccio?" si chiese Marion, perplessa, ma temendo di suscitare le sue ire si limitò a seguirla in silenzio attraverso il villaggio.
In uno spiazzo, dei bambini stavano giocando. Un paio se ne stavano fermi alle due estremità del campo con in mano dei lunghi bastoni a cui erano appese delle reti, ma la maggioranza – trenta o quaranta fanciulli di varia età – stava correndo e facendo un gran baccano, all'apparenza senza motivo; solo aguzzando la vista si poteva vedere la piccola palla fatta di pelle per cui sembrava si stessero azzuffando.
Tra loro, Marion vide guizzare la piccola e ridente faccia di Keme, che s'immobilizzò quando la nonna la chiamò con voce potente e fece cenno di venire con loro.
La bambina le trotterellò dietro, tra le proteste dei suoi compagni, e dall'espressione seria che aveva in viso doveva aver intuito che fosse accaduto qualcosa di grave.
Non poté fare a meno di osservare Marion con la bocca socchiusa mentre Chosovi le conduceva verso l'entrata del villaggio; un paio di volte sembrò anche sul punto di rivolgerle la parola, ma all'ultimo era vinta dalla timidezza, o forse dall'autorevole presenza della nonna.
Marion colse l'esatto momento in cui padre e figlia si accorsero l'uno della presenza dell'altra.
Roux era in compagnia dei gemelli e di un amerindio più anziano e aveva la faccia scura come una nube temporalesca, ma alla vista della bimba sussultò e si portò una mano al petto, quasi avesse ricevuto un colpo fisico al cuore.
Poi sorrise e d'improvviso Marion vide il ragazzo che era stato, il giovane uomo di cui Yarhata doveva essersi perdutamente innamorata; e capì il motivo per cui Keme continuava a tornare alla fattoria di nascosto, sfidando i pericoli del bosco e i divieti della nonna.
"Ti proteggerò da ogni cosa" parevano dire i suoi occhi. "Andrà tutto bene, perché ti amo più della mia stessa vita."
Marion non sapeva se quelle promesse fossero rivolte a Keme o piuttosto allo spirito di sua madre, ma erano così cristalline e appassionate che la gola le si chiuse per la commozione.
«Hatauh... A'istęh?» strillò Keme, gli occhi accesi dalla meraviglia.
«Hao, anyęah» mormorò suo marito in risposta. Gli tremò la voce sull'ultima sillaba, quando vide che sua figlia si svicolava dall'abbraccio della nonna per correre verso di lui e aggrapparsi alle sue ginocchia.
Roux continuò a guardarla come si osserva un animale bizzarro, o l'apparizione di un santo: senza muoversi, nel timore che anche il più piccolo gesto potesse spezzare l'incanto.
Marion, invece, avvertì le dita di Chosovi pizzicarle un fianco e rabbrividì quando il suo fiato le solleticò la pelle.
«Non la sto affidando a lui, ma a te» ringhiò la vecchia. «Se le accadrà qualcosa, o se verrò a sapere che non è felice, sarai tu la persona che verrò a cercare. Se le farai del male, allora ti ucciderò, figlia di Re. Non dubitare di queste mie parole.»
La donna dovette deglutire a vuoto un paio di volte prima di riuscire a parlare.
«Non ne dubito affatto» mormorò, con un filo di voce. «Tuttavia... Posso chiedervi perché abbiate cambiato idea proprio adesso?»
Chosovi sbatté le palpebre, osservando prima lei, poi suo marito e soffermandosi infine su Keme.
«No, non puoi» replicò, asciutta. E senza aggiungere un'altra parola le voltò le spalle e rientrò nella capanna.
Marion ne fu talmente scossa che non si accorse di suo marito finché egli non le schioccò le dita davanti agli occhi con fare giocoso.
«Vieni» le disse, offrendole il braccio. L'altra mano era poggiata con cura sulle spalle di Keme, come se temesse di romperla.
«Andiamo a casa.»
NOTE STORICHE
• Ho tentato di descrivere, senza rendere pesante la narrazione, l'architettura delle lunghe case, in cui vivevano famiglie imparentate attraverso la via femminile.
La società di queste popolazioni, infatti, era matrilineare: i figli potevano ereditare solo dalla madre e non dal padre e appartenevano al clan materno. Questo è anche il motivo per cui Chosovi, che rimane saldamente ancorata alla sua ascendenza algonchina, non si è mai davvero integrata nel villaggio.
• A proposito dei nomi usati in questa storia: in genere ogni clan aveva una lista di nomi da dare ai bambini, che appartenevano al clan prima che ai genitori. Ma a questo proposito W.E. Connelley scrive:
«Le tradizioni erano inflessibili, perentorie, e potevano essere cambiate solo da un lungo e tenace sforzo (e allora si trattava di sfumature quasi impercettibili) o da disastri nazionali»(traduzione mia)
Il fatto che Chosovi abbia dato ai figli e alla nipote nomi Algonchini è una licenza solo in parte, dato che:
a) nel 1640 gli Irochesi effettivamente distrussero la confederazione degli Uroni, sancendo di fatto la fine di questo popolo. Nei decenni successivi le varie tribù emigrarono o si mescolarono a quelle algonchine.
b) come le eredità, anche i nomi erano tramandati per via materna (si potrebbe aprire un mondo anche solo su questo argomento, ma mi fermo qui 😝).
• I nativi americani che abitavano nell'odierno Canada sono considerati gli inventori del moderno gioco del Lacrosse, che deriva dal loro "baggataway" — che è ciò a cui stanno giocando i ragazzi in questo capitolo. Non c'erano regole definite, ma lo scopo era di far arrivare una piccola palla di pelle di cervo nella "rete" degli avversari.
• Hatauh... A'istęh? = Cosa... Padre?
Hao, anyęah = Sì, figliola mia (il suffisso -ah- alla fine è un diminutivo affettuoso)
Ooook, ho scritto quasi tremila parole e quindi sarò breve: sono curiosa di sapere cosa pensiate di Chosovi, che è arrivata da me come un condottiero e ha preso le redini di questo capitolo 😂
Le cose sembrano finalmente andare per il verso giusto per Serge, non vi pare? 😇😈😇
Enjoy ❤️
Crilu
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