Marion X
L'estate aveva vestito le terre attorno alla fattoria di nuovi, brillanti colori e aveva ammansito i venti che le sferzavano. Il breve periodo di riposo che precedeva il tempo del raccolto non avrebbe potuto essere più dolce e luminoso.
Tuttavia Marion non riusciva a godere del bel tempo, poiché si coricava e si destava con la mente funestata dalle ombre che la visita di Monsieur Legrand aveva gettato su Serge: non conoscere la verità e non sapere neanche a chi chiedere lumi le stava logorando l'animo.
In quei momenti più di altri avvertiva la mancanza di padre Bernard come un acuto dolore fisico.
"Oh, padre, se solo potessi chiedervi consiglio come un tempo!" pensava, mentre finiva di ammassare il pane, compito per cui lei e Jeannette si erano svegliate all'alba.
Suo marito non si era più offerto di scrivere una lettera per lei e d'altronde Marion si era già pentita di aver accettato il suo aiuto, dato che i dubbi di cui avrebbe voluto ragionare con padre Bernard riguardavano da vicino proprio Serge. Dalla visita del funzionario erano passati diversi giorni, eppure il cattivo umore dell'uomo non accennava a scemare, forse alimentato dall'inattività forzata che gli lasciava più tempo per ingollare caraffe di vino; il suo atteggiamento burbero e i suoi modi beffardi sembravano oramai veri e propri segni di colpevolezza agli occhi sospettosi di Marion.
Le sue dita affondarono nella massa, quasi cercassero in essa un appiglio, mentre la donna voltava in fretta il capo verso la finestra per nascondere a Jeannette le lacrime che le illanguidivano gli occhi.
"Non devo dubitare di mio marito. Non devo dubitare di mio marito" si ripeté, cercando di riportare alla mente tutte le ragioni per cui ciò era giusto e buono. Eppure tutti i dettami della Chiesa in proposito, che padre Bernard le aveva spiegato amorevolmente e nel dettaglio, parevano cadere nel vuoto.
"Non devo dubitare di mio marito. Non devo..."
Keme era lì fuori.
Marion sbatté più volte gli occhi, convinta di aver preso un abbaglio, ma la bambina era ben visibile oltre gli scuri spalancati e pareva spiare i suoi movimenti dai margini estremi del bosco.
Era bizzarro vederla a solo un tiro di moschetto dal campo di lenticchie e dal recinto delle pecore: Keme apparteneva a un altro mondo e la sua presenza lì rompeva degli equilibri ben radicati nel profondo della mente di Marion.
La donna eglutì a fondo.
"Se lei è qui, ci sono anche quei due amerindi? Cosa vogliono da noi?"
Legrand aveva detto che suo marito era stato cresciuto dai selvaggi, ma quel pensiero non la rassicurava affatto.
«Finisci tu qui» ordinò a Jeannette. «Tanto c'è solo da dividere la massa in filoni e coprirla... Io vado ad accendere il forno.»
Non era una vera e propria menzogna, si disse tra sé e sé Marion: per riscaldare il forno in muratura costruito sul retro della casa era necessaria più legna di quanta al momento ne contenesse la legnaia. Non c'era da stupirsi, giacché quello era in genere compito di suo marito o di Henri; ma l'uno non s'era ancora ripreso dall'ubriacatura della sera precedente e l'altro, in assenza del padrone, rifuggiva i lavori faticosi come la peste.
Marion s'affrettò perciò a inoltrarsi nel bosco per raccogliere qualche grosso ramo che bruciasse bene e in fretta, cercando con lo sguardo la piccola figura di Keme.
Non dovette attendere a lungo. La bambina le si affiancò non appena la fattoria scomparve dietro una curva del sentiero: come la volta precedente sembrava apparire e scomparire senza emettere un suono.
«Buongiorno» disse Marion, sorridendole. «L'altro giorno te ne sei andata così in fretta che non ho fatto in tempo a dirti il mio nome. Io sono Marion.»
«Buongiorno, Marion» le rispose quella. Pareva di buon'umore. «Cosa fai?»
«Raccolgo la legna per cuocere il pane.»
«Posso aiutare?»
«Certo, se vuoi...»
Per qualche minuto la osservò saltellare da un lato all'altro del sentiero, intenta a strappare ramoscelli secchi dagli alberi, e si chiese una volta di più come potesse esprimersi così bene in una lingua che avrebbe dovuto esserle estranea. Aveva molte domande da porle, ma temendo un altro scatto d'ira si limitava a studiarla con un misto d'apprensione e meraviglia.
«Hai qualcosa sulla faccia» le fece notare la bimba, quando si avvicinò per porle una piccola fascina.
Marion si portò d'istinto le mani alle guance, ma sotto le dita sentì solo l'usuale ruvidezza delle cicatrici e comprese.
«È la mia pelle» spiegò. «Si è... Si è rovinata.»
«Oh. Perché?»
Ricordi che Marion pensava di aver lasciato sull'altra sponda dell'Oceano l'assalirono senza preavviso.
«Perché? Perché io?»
Erano state le prime parole che Marion aveva pronunciato quando si era svegliata, poiché accanto a sé aveva intravisto solo la figura ingobbita e familiare di padre Bernard e aveva compreso all'istante cosa doveva essere accaduto nei giorni che aveva passato incosciente, tra la vita e la morte.
«Perché solo io?»
Più che per il dolore fisico, la vergogna, il lutto, aveva sofferto per quella domanda rimasta senza risposta, nonostante l'avesse cercata a lungo nella preghiera e nelle Scritture. Nessuno aveva saputo dirle perché di un'intera famiglia non fosse rimasta che lei.
Non suo padre, che aveva la stazza di un toro e non era mai stato malato un giorno in vita sua, non Benôit che era un robusto giovanotto di vent'anni, non la sua tenacissima madre, non la piccola Catherine che più di tutti loro meritava di continuare a vivere... No, tra tutti era Marion, col suo corpo secco e gracile, a essere sopravvissuta.
La marea di dolore e rabbia a cui era sfuggita a fatica sei anni prima rischiò di travolgerla, ma la donna fu lesta a tornare in sé e a posare gli occhi sul volto di Keme, carico di aspettativa.
Le offrì la spiegazione più semplice, l'unica a cui lei stessa aveva potuto aggrapparsi seppure non riuscisse a crederci fino in fondo:
«È stato il volere di Dio.»
"Perché mai il Signore avrebbe dovuto salvare proprio te?" le domandò una voce malevola tra i suoi pensieri e Marion, nonostante la sua fede, non seppe trovare una motivazione valida e sincera.
Le parole di Keme ebbero però il potere di strapparla all'istante alle sue riflessioni.
«Quale dio?»
«Oh, Santissima Vergine» mormorò la donna, sgomenta. «C'è un solo Dio, Keme, il Signore del Cielo e della Terra... Colui che ha mandato il Salvatore presso gli uomini, per redimerli dei propri peccati...»
S'interruppe quando vide che la confusione della bambina cresceva invece di diminuire.
«Nessuno ti ha mai parlato di queste cose?»
«No. Forse. Alcuni al villaggio ne parlano... Credo. Non so.»
Scrollò le spalle con fare indifferente e tornò a cercare legna buona da ardere. Marion non riusciva a credere alle proprie orecchie.
"Non ha mai ascoltato la Parola? Quale entità pagana adorano, in quel villaggio?"
Una serie di dubbi, uno più grave dell'altro, l'avevano del tutto distolta dal suo compito.
"Avrà ricevuto il battesimo? Se, come suppongo, è stata rapita, può darsi di sì. Altrimenti..."
Il pensiero le risultava intollerabile. L'unica cosa che era infine riuscita a lenire la sua disperazione per la morte di Catherine era stato il fatto che la sua anima sarebbe stata accolta in Paradiso; ma se a Keme fosse accaduta una qualche disgrazia – non infrequenti in un territorio così inospitale – quella beatitudine le sarebbe stata negata per sempre.
"Non posso permetterlo!" decise, col cuore gonfio d'angoscia.
Tuttavia si stava attardando troppo e sottobraccio aveva una fascina di legna che avrebbe bruciato per un'ora buona.
«Devo andare via, adesso. Verrai ancora a trovarmi?»
Non si azzardò a chiederle di seguirla: era chiaro che la bambina preferiva tenersi nascosta all'ombra degli alberi e che la fattoria la inquietava.
Keme annuì.
«Ne sono felice. Vorrei davvero parlarti di Nostro Signore, la prossima volta.»
Il pomeriggio successivo Marion si scoprì a pensare che l'intuito di suo marito a volte risultava spaventoso: prima ancora che lei e Jeannette avessero il tempo di sgombrare il tavolo dai resti del pranzo, Serge – all'apparenza sobrio e padrone di sé – aveva aperto il baule in cui teneva i registri e aveva tirato fuori dei fogli bianchi, una boccetta d'inchiostro e una penna d'oca.
«Ebbene?» sbraitò davanti al suo sguardo confuso. «Sono giorni che ti torci le mani come una vedova a lutto, perciò avanti, scriviamo questa lettera!»
"Se solo sapesse a cosa sono dovute le mie angosce..." pensò Marion tra sé e sé, ma acconsentì a sedersi di fronte a lui mentre Serge ricontrollava con aria distratta i calcoli che lei aveva eseguito qualche giorno prima e le annotazioni sull'ammontare delle scorte, dei debiti e dei consumi. A margine di una pagina aveva anche segnato le cinquanta livres di dote che il Re le aveva regalato e che erano tutt'ora in possesso di Serge: suo marito sperava di poter risollevare almeno un poco le sorti della sua tenuta con quella somma, ma a giudicare da quanto denaro doveva ai suoi creditori, la donna iniziava a temere che fosse solo un vano desiderio.
«Sei molto più precisa di me, non c'è dubbio. Almeno su questo Legrand non avrà da lamentarsi» sibilò l'uomo tra i denti, alla fine. «Mi recherò a Québec tra due giorni, in modo da essere di ritorno per il raccolto. Sei ancora dell'idea di voler scrivere al tuo vecchio confessore?»
«Certamente. Vorrei fargli sapere che sono viva e in salute e vi ho sposato...» replicò lei, compita, ma dato che non sapeva bene come affrontare la conversazione la sua voce si stemperò in un silenzio imbarazzato. Udì suo marito sbuffare.
«Beh, a chi la mando, al Papa? Si può sapere il nome di questo buon'uomo oppure no?»
«Oh! Potete indirizzarla a padre Bernard Férret, presso la chiesa di Saint-Étienne-du-Mont a Parigi.»
Al pensiero di quell'edificio dall'architettura ardita e imponente, che si gremiva di gente durante le cerimonie in onore di Santa Genoveffa, un sorriso le affiorò sulle labbra. Serge le lanciò una lunga occhiata, come se la vedesse per la prima volta.
«Hai nostalgia di Parigi? Sembri averla amata molto» domandò, con tono un poco meno astioso.
«Mentirei se dicessi di non soffrire la lontananza del posto in cui sono nata; tuttavia, credo che la mia sofferenza sia legata ai tempi felici che vi ho trascorso e che so non potranno mai tornare, piuttosto che a Parigi stessa. Non credo sia possibile amare una città, per quanto bella e ricca: l'amore è un moto dell'anima e l'anima tende a elevarsi verso Dio; sono i ricordi che ci tengono ancorati a questa terra... No, provo nostalgia per le persone che ho amato e, di riflesso, anche per il luogo in cui le ho amate.»
All'improvviso si ricordò di chi fosse il suo interlocutore e arrossì furiosamente.
«Questo non lo scrivete, vi prego! Non vorrei che padre Bernard pensasse che discorra senza vergogna di anime e amore come un uomo di Chiesa, o peggio, una meretrice!»
Serge non accennò a distogliere lo sguardo dal foglio su cui stava vergando in fretta parole che erano impossibili da interpretare per lei, abituata alle lettere rozze e disordinate del padre. La grafia di suo marito, invece, era sottile, elegante, ricca di curve e svolazzi.
«Mio padre fu sul punto di diventare un uomo di Chiesa, mi sembra di avertelo già detto, ma non ha mai espresso un pensiero con la metà della tua chiarezza e del tuo acume. Non credo ci sia nulla per cui tu ti debba vergognare.»
"I suoi apprezzamenti sono così strani, oltre che rari" pensò Marion, incantandosi a osservare le lunghe, pallide dita di Serge che stringevano con sicurezza la penna, guidandola sul foglio senza un tremolio o un'incertezza. "Sono sempre accompagnati da qualche sbuffo o cattiveria. Come se non potesse sopportare di lasciarsi sfuggire qualcosa di buono senza compensarlo in qualche modo."
«Ho scritto ciò che hai detto e gli ho dato informazioni su come farti pervenire la sua risposta. C'è altro?»
«Nulla, se non che prego per lui ogni sera e che spero di poterlo rallegrare presto con liete notizie.»
La mano di Serge parve tremare quando ripose la piuma nel calamaio.
«Questo non lo scrivo» borbottò, alzandosi per raccogliere un po' di cenere dal camino e spargerla sulla lettera, in modo da far asciugare in fretta l'inchiostro.
Marion rimase per qualche istante interdetta, poi le sovvenne della reticenza di suo marito per i doveri coniugali e del fastidio che lo prendeva quando aveva provato ad accennare a un figlio.
"Non intendevo dire... Non era mia intenzione indisporlo a questa maniera!" pensò, preoccupata, ma prima che potesse chiarire la situazione lui l'anticipò.
«Vado a Québec anche per un altro motivo, che non può essere rimandato» confessò. E nell'incontrare i suoi occhi chiari, lucidi come mai l'aveva visti prima, Marion comprese che suo marito era tormentato da qualcosa di più dell'inquietudine che lo contraddistingueva.
Era spaventato.
«Voglio capire se le minacce di Legrand hanno un fondo di verità e se c'è una maniera di ridurre il carico di legname che dobbiamo consegnare al Re. Al mio ritorno, però, parleremo del nostro matrimonio.»
Serge quasi scappò dalla stanza, lasciandola sola con quelle enigmatiche parole, senza che potesse neanche ringraziarlo per la lettera che aveva scritto per lei.
NOTE STORICHE
• L'architettura della chiesa di Saint-Étienne-du-Mont, costruita tra il 1494 e il 1626, risente dei quasi due secoli che ci sono voluti per costruirla:
Era strettamente connessa all'abbazia di Santa Genoveffa (la patrona di Parigi che secondo la leggenda incitò la città a resistere all'assedio di Attila), di cui era una "costola": furono i monaci Genoveffiani a donare il terreno per la costruzione, per far fronte al crescente numero di fedeli.
Capitolo un po' di passaggio, ma era l'ultima occasione per esplorare il rapporto tra Marion e Serge prima della fine della prima parte 😳😈
Aaaaargh, non sto più nella pelle dalla voglia di pubblicare anche il prossimo capitolo! Ma farò la brava e aspetterò una settimana perché poi so che mi ritroverei senza capitoli da postare nel bel mezzo di una sessione 😅🙈
Per chi non avesse visto l'annuncio in bacheca, lo dico pure qui (anche se è un po' spoiler 🤭): per questioni di accuratezza storica ho cambiato il nome di un personaggio brevemente nominato in Ahiga e Ahanu I (da Hurritt a Yarhata).
Enjoy ❤️
Crilu
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