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Marion IX



La differenza tra una donna assennata e una senza acume stava tutta nell'avere la franchezza di ammettere i propri limiti e agire di conseguenza. Marion lo sapeva e infatti non era solita incaponirsi su ciò che non poteva ottenere: i suoi rimpianti erano molti e pungenti, ma raramente duravano a lungo.

Tuttavia non riusciva a desistere dal progetto che si era prefissata quella domenica pomeriggio, ovvero andare alla ricerca delle piante officinali che aveva visto in uno dei libri che suo marito le aveva imprestato. All'inizio era stata attratta più dalle colorate illustrazioni di foglie e fiori che dall'argomento, del tutto estraneo alla figlia di un conciatore che a malapena distingueva il basilico dalla salvia; nell'arco di pochi giorni, però, era rimasta affascinata dai molteplici e straordinari usi che si potevano fare di erbette che – affermava il trattato – erano comuni in quasi tutte le regioni del mondo conosciuto.
Marion non aveva ben compreso proprio tutto ciò che aveva letto e, anzi, di molte di quelle pianticelle non avrebbe saputo pronunciare neanche il nome, ma confidava nel fatto che avrebbe saputo riconoscerle, se le avesse incontrate nel suo cammino. Per questo aveva approfittato di una giornata di sole in cui alla fattoria non c'era granché da fare e, infilato il libricino in un cesto, aveva iniziato la sua ricerca sul limitare della foresta. Non si arrischiava ad addentrarsi a fondo negli alberi, in parte perché voleva essere a portata d'orecchi se in casa avessero avuto bisogno del suo aiuto, in parte perché il racconto della disavventura di Jeannette era ancora ben impresso nella sua mente.

Di indiani lì intorno non se n'erano più visti – fatta eccezione per la moglie di Duschesnaud – ma la donna era comunque in preda a un sottile timore che la faceva sobbalzare a ogni fruscio.
Perciò quando intravide una figura vestita di pelli tra gli alberi incespicò all'indietro con un grido strozzato, cadendo malamente a terra quando i suoi piedi s'impigliarono nell'orlo della gonna. Poi sgranò gli occhi:
«Catherine?» sussurrò, incredula.
Ma la bambina che si fece avanti, guardinga e curiosa in egual misura, non poteva essere sua sorella.
Catherine era morta a Parigi.
Marion l'aveva cullata tra le proprie braccia mentre l'ultimo respiro scivolava a fatica oltre la lingua gonfia e le labbra tumefatte, aveva pianto sul viso irriconoscibile, divorato da vescicole sanguinolente, e infine aveva deposto di persona il suo corpicino nella bara. Eppure, se il dolore non fosse stato così radicato nel suo cuore, avrebbe di certo pensato di avere di fronte la sua sorellina.

La bimba aveva un viso paffuto, dello stesso colore che la pelle di Catherine assumeva quando giocava troppo sotto al sole, su cui spiccavano due penetranti occhi neri. Quando si fece più vicina i capelli, che in un primo momento Marion aveva creduto neri, rivelarono riflessi bronzei sotto la calda luce primaverile.
"Non sembra un'indiana" si disse la donna, sebbene la tunica nera in pelle di daino e i mocassini riccamente decorati corrispondessero alle descrizioni che Le Loup ed Étienne le avevano fatto di quelle genti. Il silenzio tra loro si appesantì di dubbi e supposizioni, finché la bambina non scrollò il capo annoiata, le diede le spalle e si avviò verso il folto della foresta.

«Aspetta!»
La piccola le obbedì docilmente, voltando il capo per tornare a guardarla in viso.
"Dunque comprende la mia lingua!"
«Chi sei?» domandò. «Cosa ci fai qui?»

«Mi chiamo Keme» rispose quella, dopo qualche attimo d'esitazione. «Atironta è andato al fiume con i suoi amici e io volevo seguirlo.»

Aveva un accento strano, che rendeva rochi e cupi anche i suoni più dolci; nonostante ciò, la sua padronanza del francese era sorprendente, tanto più che non doveva avere più di quattro, cinque anni. A ogni istante che passava si rafforzava in Marion la certezza che quella bambina non appartenesse agli indiani.
"Ha una pelle così chiara... Non ha niente a che vedere con la moglie di quel farabutto di Duchesnaud, bruna come un legno rinsecchito. Cosa ci fa qui nella foresta, da sola? Quale madre lascerebbe una creatura così piccola in balìa delle bestie feroci?"
La donna si alzò in piedi, osservando con crescente agitazione Keme, che nel frattempo si baloccava col paniere di vimini intrecciato, divertendosi ad aprire e chiudere il coperchio.
"E se fosse stata rapita? Questo spiegherebbe ogni cosa."
«Keme» la chiamò dunque. «Dove sono i tuoi genitori?»

La bambina si rabbuiò.
«No.»

«Ma...»

«No, no! Non si può!» strillò, paonazza in viso – ma Marion non avrebbe saputo dire se fosse per la rabbia o piuttosto per la paura. Non le arrivava neanche alle ginocchia, ma all'improvviso aveva assunto un'aria bellicosa e testarda che mai aveva visto sul volto di altri bambini; Catherine, che pure aveva avuto un carattere vivace e orgoglioso, non aveva mai mostrato un atteggiamento così feroce nel difendersi. Poi, veloce come era apparsa, la luce ostile abbandonò lo sguardo di Keme, che si fissò su qualcosa oltre le spalle di Marion.
«Vado a casa» annunciò, inquieta, gettando a terra il paniere e correndo nella direzione da cui era venuta.

Il primo istinto della donna fu quello di seguirla, ma un presentimento la spinse invece a voltarsi verso sud, dove la foresta cedeva il passo ai campi della fattoria: tra gli alberi, immoti e sinistri come le gargolle di una chiesa, stavano i due indiani descritti da Jeannette.

Arrivò alla fattoria quando il sole era ormai basso sull'orizzonte, in preda a un'agitazione scomposta: lungo la via si era voltata più volte a controllare che i due indiani non la cogliessero alle spalle e tremava ancora quando la porta di casa si spalancò, illuminandola con le fiamme del camino acceso da poco. Suo marito le andò incontro a grandi passi e masticando una bestemmia tra i denti l'afferrò per un braccio e la trascinò dentro.

«Ecco, vedete? È viva e in salute!» tuonò, fuori di sé.

Marion dovette sbattere le palpebre più volte prima di riuscire a mettere a fuoco l'estraneo seduto nell'angolo più in ombra della cucina. L'uomo le rivolse un cortese cenno del capo, ma i suoi occhi rimasero fissi su Serge da dietro le lenti tonde degli occhiali che portava appoggiati sulla gobba del naso. Che non fosse un contadino era evidente dall'eleganza del tricorno che aveva appoggiato sul tavolo e dalla cura con cui aveva impomatato e legato in un codino i capelli bruni, che iniziavano a farsi grigi sulle tempie; allo stesso tempo, era un uomo talmente ordinario nei lineamenti e nella maniera di porsi che Marion concluse che non poteva trattarsi di un signore al pari di Serge.

«Monsieur Legrand è al servizio dell'Intendente» le disse infatti Serge e subito Marion cercò con lo sguardo Jeannette, che ricambiò la sua espressione timorosa.

"Che ci abbiano scoperte?" si chiese la donna. "Forse sanno che Jeannette non è mia cugina. E allora, cosa sarà di lei? Di me?"
Per dissimulare il suo turbamento poggiò il paniere accanto al camino e si diresse a passi svelti verso la dispensa.
«È un onore» mormorò velocemente, sperando che il funzionario non si accorgesse di quanto le risultava difficile respirare con naturalezza. «Mi rincresce di potervi offrire solo un po' di vino... Vi fermate per cena, almeno?»

«Non ti disturbare, mia cara.»
La voce di Serge era quanto di più simile a un ringhio ferino potesse uscire da delle labbra umane.
«Monsieur Legrand è qui per assicurarsi che non ti abbia uccisa per poi seppellire il tuo corpo sotto alle lenticchie!»  

Marion gli lanciò un'occhiata inorridita, ma il volto di suo marito rimase imperscrutabile e fu impossibile per lei capire se intendesse quella frase come uno scherzo o se invece fosse serio. Nel silenzio sgomento che cadde nella stanza, il colpo di tosse con cui Legrand si schiarì la gola risuonò con la forza di uno sparo.

«In realtà son qui per discutere con voi della rendita delle vostre terre» mormorò l'uomo, con una voce esile che ben si confaceva al suo viso ossuto, e Marion rischiò di rovesciare il fiasco di vino per il sollievo.

«L'aveu e il dénombrement non sono ancora pronti. Progettavo di consegnarli alla fine di questo mese, come faccio ogni anno» replicò Serge, sedendosi a braccia incrociate davanti a Legrand. «Perché vi siete scomodato a venire a prenderli di persona?»

«Perché non è di questo che intendo parlare.»
Il funzionario estrasse un grosso plico dalla sua borsa e raddrizzò gli occhiali per leggere meglio.
«L'anno scorso avete venduto venti acri di terreno a Monsieur Jean-Marie Vincent per una somma pari a quaranta livres tournois, è corretto?»

«Sì. Ho anche pagato le dannate tasse che vi erano dovute per la vendita, quindi dove sta il problema?»

«Deduco quindi che al momento siate in possesso di un fief di sessantatré acri e che non avete altri censitaires al di sotto di voi?»

L'ombra di un sorriso arricciò le labbra di Serge, ma non c'era traccia di divertimento nella sua espressione.
«Dite bene, ma voi tutte queste cose le sapevate già. Siete stato voi a condurre l'ispezione di questa casa quando mia moglie è venuta a mancare... O avete già dimenticato?»

NOTE STORICHE

Fief = "feudo", ovvero la porzione di terra assegnata dal Re o da chi ne faceva le veci al signore. Poteva essere de dignité (detenuti esclusivamente dagli aristocratici) o noble, come nel caso di Serge, che oggi definiremmo di famiglia alto-borghese. Il fief poteva essere diviso poi in censives o essere separato in arrière-fief e arrière-arrière-fief.

• I censitaires erano i coloni a cui un signore feudale della Nuova Francia assegnava gratis piccole porzioni delle sue terre (censives). I censitaires dovevano prestare giuramento di fedeltà al signore, pagare dei tributi (cens) e svolgere delle corvée. La differenza con L' arrière-Fief sta nel fatto che quest'ultimo implicava la signoria sul terreno (quindi riscuotere tributi sotto il proprio nome, agire come giudice ed essere obbligati a fornire alcuni servizi, come la costruzione di mulini e pozzi), mentre i censitaires erano pur sempre sudditi.

• La situazione di Serge è particolare perché ha venduto gran parte della propria concessione (ovvero non le terre direttamente, che appartenevano in qualsiasi momento al Re, ma il diritto di sfruttarle). La somma di 40 livres tournois può sembrare un bel gruzzolo ma come Serge stesso ricorda c'era da pagare una tassa aggiuntiva in caso di vendita, pari a un quinto della somma ricavata (droit de quint).

E finalmente anche Marion ha incontrato Keme: come pensate che si svilupperà il loro rapporto nei prossimi capitoli? 🤩

Premetto che la faccenda di Legrand avrà in realtà ripercussioni molto più lontane nel tempo, ma intanto l'ho usato per dare un'idea più chiara della società della Nuova Francia nel '600 ☺️

Enjoy ❤️

Crilu

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