Jeannette III
Pierre entrò in cucina con passo pesante e Jeannette fu lesta ad abbandonare sul tavolo la spiga d'orzo che stava sgranando per porgergli la brocca dell'acqua.
«Ne avete ancora per molto, là fuori?» s'informò Marion, senza interrompere il suo lavoro.
Per molti versi, quella donna rimaneva un mistero per lei: era la figlia di un conciatore che mai aveva mietuto un campo in vita sua, ma separava la granella dalla paglia come se non avesse fatto altro in vita sua. Con movimenti ritmici staccava ed esaminava ogni singolo chicco prima di gettarlo in una delle due grandi ceste che aveva davanti: le bastavano pochi istanti per decidere se fosse meglio destinarlo al foraggio delle bestie o al mercato di Québec.
E allo stesso tempo sorvegliava la pentola che bolliva nel focolare e controllava Keme, che partecipava alla mietitura con entusiasmo ma con scarsa efficienza – il tutto senza che una ruga d'insofferenza le segnasse la fronte.
Sebbene sapesse che il rapporto tra Marion e padron Serge fosse tutt'altro che disteso e che la sera la donna si ritirava con la schiena rotta e le mani doloranti proprio come tutti loro, Jeannette invidiava la sua serenità.
A lei quel lavoro faceva solo crescere il malumore.
Le ricordava la Francia, il tugurio che aveva chiamato casa e la cintura di suo padre che le sferzava la schiena.
Pierre poggiò la brocca sul davanzale del camino e si asciugò la bocca col dorso della mano prima di rispondere.
«Temo di sì, signora, il padrone non si vuole fermare prima di sera. Ora che le spighe son mature, a lasciarle nel campo otterremmo solo di farle andare a male e sarebbe un peccato.»
«Vuoi dire che ce ne sono ancora tante?» gemette Jeannette.
Pierre lanciò un'occhiata attorno alle ceste colme fino all'orlo di chicchi d'orzo.
«Almeno quanto ne abbiamo già raccolto: il buon Dio è stato generoso con noi quest'anno!»
«Sia resa grazia al Signore» mormorò in fretta Marion. «Non voglio trattenervi, Pierre. Fra un poco vi mando Jeannette col pranzo.»
«Non credo che il padrone intenda mangiare...»
«Il mio signor marito converrà con me sul fatto che degli uomini affamati raccolgono meno orzo» replicò lei quietamente, congedandolo con un gesto della mano.
Un'altra ragione per cui Jeannette l'ammirava era il coraggio con cui Marion affrontava quel tiranno del padrone: era lei che lo riconduceva alla ragione ogni volta che l'uomo smarriva il senno per colpa del vino o della sua testardaggine.
«Jeannette!»
Keme la stava tirando per la manica della veste.
«Guarda quant'è grande questo!»
Per un istante, davanti a quegli occhi brillanti e curiosi, il grumo di risentimento che le chiudeva la gola si fece più leggero e Jeannette sorrise, afferrando tra due dita il chicco d'orzo che la bambina le stava sventolando sotto gli occhi.
«È davvero grosso» concordò. «Mettilo nella cesta di destra, allora.»
«Perché i chicchi della cesta a destra vanno al mercato e gli altri no?»
«Perché sono i più belli e il padrone li vuole vendere ai fabbricanti di birra.»
Dubitava che Keme sapesse cosa fosse la birra, ma la risposta sembrò soddisfarla perché Jeannette la vide tornare a sgranare le spighe con sguardo concentrato, canticchiando sottovoce una nenia dei selvaggi. Era una lingua piena di spazi vuoti tra una sillaba e l'altra, con un ritmo tutto suo che Jeannette non sarebbe mai riuscita a riprodurre.
«Keme, cosa ti avevo detto? In francese, tesoro» la richiamò Marion, gentile ma ferma.
«Ma non conosco nessuna canzone francese!»
«Te ne insegniamo una noi, allora. Jeannette?»
«A me piaceva quella che stava cantando» obiettò la ragazza, arrossendo sotto lo sguardo contrariato della padrona.
Marion diventava inflessibile quando si trattava dell'educazione di Keme, forse perché il padrone non pareva propenso a interessarsene: se fosse stato per lui, la bambina avrebbe passato le giornate a soddisfare i propri capricci come più le aggradava.
Jeannette comprendeva la necessità di imporre delle regole a un temperamento vivace come quello di Keme; e tuttavia non poteva fare a meno di lasciarsi prendere da una tenera pena nell'osservarla obbedire a Marion con lo sguardo speranzoso che talvolta aveva visto in certi cani vagabondi.
«Perché non ci insegni ciò che stavi cantando?» suggerì allora. «Prova a tradurla per noi, su.»
Keme parve rifletterci un poco, sillabando qualcosa sottovoce, prima di riprendere a cantare con tono solenne, seppure le parole fossero semplici e incerte.
«Prendo la fiaccola e l'oscurità va via e vedo, lontano lontano, la terra del piccolo popolo. È la terra di nostra madre, la tartaruga...»
«Maria» l'interruppe Marion in tono allarmato. «La madre di nostro Signore si chiama Maria e non è una tartaruga!»
«Di nostra madre, Maria» ripeté la bambina, poco convinta. «Un guerriero viene a me e mi dice: guarda, guarda oltre il fiume. Là è la terra del piccolo popolo. E io guardo. Il sole splende sulle foreste e sui campi. La terra s'incresce e ondeggia in dolci colline, oh, magnifiche colline. Il piccolo popolo era lì, una folla mi attendeva sulla montagna, erano i... I parenti dei tempi andati e...»
«Basta così.»
Il collo e le gote di Marion erano arrossate sotto le cicatrici e la donna aveva preso a sgranare le spighe con più forza; d'istinto, Keme si avvicinò di qualche passo a Jeannette e tacque.
«Non c'è spazio per i miti pagani in questa casa» affermò la donna dopo qualche istante di silenzio.
«Era solo una canzone» mormorò Jeannette, quando vide che la bambina si era intimorita all'udire la padrona comandarle con voce più aspra del solito.
Marion si fermò a guardarle, sovrappensiero, poi sospirò e raccolse le gonne attorno alle gambe per sedersi sul basamento del camino, facendole cenno di accomodarsi accanto a lei.
«Io ho un dovere nei vostri confronti. Ho il compito di badare a voi e di pensare al vostro futuro e voglio che sappiate... Che io desidero per voi solo il meglio di quanto questa vita può offrire.»
Il petto di Jeannette si contrasse sotto il peso di emozioni contrastanti: si dispiaceva di averla scontentata, perché nessuno le aveva mai dimostrato la gentilezza di cui Marion era capace; allo stesso tempo, però, il dover essere perennemente in debito con lei la riempiva di rabbia e vergogna e veleno.
«Cosa intendete?» domandò con tono stridulo.
«Non è un mistero per nessuno che il denaro in questa casa scarseggia. Tu hai dalla tua i luigi che Sua Maestà ti ha graziosamente concesso, ma Keme avrà una ben misera dote.»
«Cos'è una dote?» chiese la bambina, ora intenta ad ammonticchiare spighe d'orzo sul tavolo. Pareva tranquilla, già dimentica del piccolo screzio.
«Il prezzo che gli uomini chiedono per farsi carico di una moglie» brontolò Jeannette in risposta.
«Tuttavia non vedo il nesso con una canzone innocente.»
Marion serrò le labbra, esasperata:
«Jeannette, è la figlia illegittima di un uomo in rovina e accusato di omicidio» sibilò sottovoce, chinandosi verso di lei in modo da non farsi sentire da Keme. «Già solo per questo sarà difficile trovare qualcuno disposto a prenderla in moglie; se in aggiunta continuerà a comportarsi da selvaggia di certo rimarrà zitella!»
«Ed è un destino tanto orribile?»
Si pentì immediatamente di quelle parole, poiché Marion divenne bianca quanto un cencio e si strinse forte le mani in grembo.
«Non sai di cosa parli. La vita non è clemente con le donne sole.»
Le ultime tracce di animosità che ancora si agitavano nella sua mente svanirono davanti a quelle parole e alla tristezza che celavano a malapena. Ansiosa di fare ammenda e di lasciarsi alle spalle quei discorsi tanto seri, Jeannette balzò in piedi per riprendere il suo lavoro.
«Keme può avere la mia, di dote» dichiarò. «A me non serve, non fa nulla se non mi sposerò!»
«Non dire scempiaggini!» la redarguì Marion, ma rideva, la fronte distesa, gli occhi accesi da un affetto che Jeannette temette di non meritare.
Marion non conosceva affatto il desiderio d'avventura che le riempiva il cuore e la ragazza sapeva che, se mai gliel'avesse confidato, avrebbe ottenuto in risposta solo incertezza e riprovazione.
Doveva tenerlo ancora nascosto, si disse, almeno fino a quando non avesse trovato una maniera per sottrarsi al destino a cui erano andate incontro tutte le altre filles du Roi.
NOTE STORICHE
• La mitologia di queste popolazioni è quanto mai ricca e complessa: per amor di brevità, qui mi limito a dire che tra gli animali sacri che un tempo abitavano la terra c'era la tartaruga. È un animale che i Wyandot tenevano in grandissima considerazione perché ritenevano che l'intero continente americano fosse poggiato sul suo guscio.
Questo è l'ultimo capitolo "di passaggio" della seconda parte e sono stata a lungo indecisa se scriverlo o meno.
Da un lato volevo esplorare un po' il rapporto tra queste tre donne così diverse per desideri e morale e dall'altro temevo di annoiare un po' 😝
Anyway: 3 capitoli e si entra nella terza e ultima parte di questa storia, non ci credo 😱
Enjoy ❤️
Crilu
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro