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Settembre 1670 pt. 3

Angolo Autrice

Questa volta premetto le info al capitolo, spero a vostro vantaggio. Ho pensato di chiudere la sezione di "Settembre 1670" prima della sospensione che ho annunciato nel capitolo precedente: prendetelo come un regalo o magari come un assaggio di ciò che seguirà. Mi auguro davvero che vi piaccia, perché è stato più impegnativo del previsto scrivere questo brano.

Consiglio di ascoltare la canzone Il comico di Cesare Cremonini durante la lettura; io la ascoltavo in loop mentre scrivevo.

Bando alle ciance, passiamo alla storia!

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Giaceva addormentata sul sofà del salottino, la testa reclinata sulla spalla sinistra, i capelli sciolti e spettinati come un'aureola frastagliata intorno alla fronte lievemente imperlata di sudore; era un sonno agitato, il suo, e le sue espressioni non mentivano. Talvolta le sue sopracciglia fremevano, si avvicinavano; il suo naso si increspava di piccole rughe e dalle labbra le sfuggiva un gemito. La mano pendeva molle dal pancione, scossa raramente da qualche brivido.

Ferraris non riusciva a pensare ad altro, a fissare la propria attenzione su un oggetto che non fosse lei. Aveva perso il conto dei minuti passati da quando aveva cominciato a guardarla e non si sarebbe stupito di sapere che, in realtà, erano trascorse ore intere. Difficilmente, ormai, il suo cuore rimaneva turbato da qualcosa: non c'era emozione che gli fosse sconosciuta, la sua vita era stata tanto ricca di avvenimenti da non risparmiargli pressoché nulla. Ma quella notte aveva assistito a un evento inspiegabile, incomprensibile e, soprattutto, ingiustificabile. Mentre osservava il suo viso contratto dalla paura ripensava a tutto ciò che aveva visto accadere, ritrovandosi sempre a ipotizzare di aver sognato; se così fosse stato, però, Galatea non avrebbe avuto ragione di dormire ancora a quell'ora del mattino. Soprattutto, non avrebbe avuto ragione di farlo nel salottino: quella notte, di ritorno dall'appartamento della defunta moglie del generale, non erano più entrati nella camera da letto, poiché Galatea era crollata subito su quel divanetto e lì era rimasta. Lui aveva preferito sedersi su una poltroncina non distante e, in breve tempo, si era addormentato a propria volta, svegliandosi sul fare del giorno. In principio le serve avevano animato silenziosamente la stanza, svolgendo i mestieri senza destare la padrona. Una volta concluso il lavoro, Ferraris aveva ordinato loro di uscire; da quel momento era solo insieme a lei, ed era la prima volta che capitava in quella stanza.

Inutile negare, il desiderio di farsi più vicino era forte. Con tutta probabilità non avrebbe più avuto occasione di farlo in futuro: avrebbe dovuto approfittare della situazione. Da un lato, il ricordo della permanenza a palazzo De Spini lo inebriava di fantasie, le fantasie che aveva immaginato per la giovane serva che aveva conosciuto lì; dall'altro, invece, la vista della stessa fanciulla, rivelatasi la duchessina, ridotta in quello stato pietoso gli suscitava compassione. Riflettendo su cosa fosse più giusto fare, Ferraris si morse la mano destra e ascoltò i palpiti del proprio cuore rimbombargli nelle orecchie. Poi, quasi portato da una spinta invisibile, si alzò in piedi e camminò con passo felpato verso il sofà. Galatea, ignara, continuava a dormire. Da qualche minuto sembrava essersi calmata; Ferraris si disse di voler controllare meglio e, con questo semplice proposito, si sentì giustificato.

In principio si posizionò dietro lo schienale, le mani poggiate sulla cornice lignea intagliata ad arte; la testa di lei era esattamente sotto di lui e questo gli permetteva di studiare il ritmo del suo respiro. L'avrebbe definito placido, se non fosse stato per certi singulti che, di tanto in tanto, la facevano sussultare. Espirando, faceva ondeggiare una ciocca di capelli che le pendeva davanti al viso, un movimento che attrasse quasi subito l'attenzione di Ferraris: se, dondolando, le avesse solleticato il naso, si sarebbe svegliata. Ben intenzionato, dunque, aggirò il sofà, inginocchiandosi ai piedi di Galatea: tese la destra e scostò la ciocca, sistemandola dietro l'orecchio e, nel ritrarsi, le accarezzò la guancia con un tocco delicatissimo. Lei sospirò e si accomodò meglio; Ferraris, ancora con la mano a mezz'aria, esitò, prima di cedere alla tentazione di sfiorarla nuovamente. Le sue labbra fremettero di sorpresa, una sorpresa gradita, dato che sorrise. Trattenendo la terza carezza, preferì stringerle la mano che teneva sul pancione: percepì una leggera stretta, segno che, sebbene fosse addormentata, reagiva agli stimoli esterni. Ormai, però, le gambe gli formicolavano per la posizione disagevole: per questo motivo, si disse Ferraris, meglio sedersi sul sofà.

La nuova prospettiva gli offrì nuove emozioni e nuovi pensieri: Galatea tendeva leggermente verso di lui, come se cercasse il suo appoggio. La veste di lana le lasciava libero il collo e parte del petto, su cui risaltavano i merletti. Se la rivide davanti poche ore prima, quando, entrato in punta di piedi nella camera, guidato dalla serva, l'aveva svegliata e le aveva domandato cosa intendesse fare a proposito del principe. Gli occhi sbarrati, grigi e profondi come abissi velati di nebbia, non se li sarebbe scordati per un bel pezzo; avrebbe dovuto cacciar via l'intruso, piuttosto che svegliarla, rinunciando alla copertura e alle bugie, per una volta. Non era nelle sue corde, dopotutto, mescolare una missione ai sentimenti, e quando ci si trovava, inevitabilmente qualcosa andava storto.

Abbassò lo sguardo sulle loro mani e intrecciò le proprie dita con le sue: l'attenzione gli cadde sull'anello di fidanzamento con la pietra rossa e allora, di colpo, si sentì avvampare. Quell'anello, per lei, non significava nulla, lo portava con superficialità, attribuendogli la funzione di talismano, più che di impegno. Un anello di fidanzamento non ha valore agli occhi di chi si trova felicemente sposato. Ferraris deglutì e avvicinò la fronte alla fronte di Galatea senza perdere di vista la pietruzza rossa; si fermò solo quando avvertì sulla pelle il solletico dei capelli di lei. Aveva investito troppo in quell'avventura, aveva giocato con i sentimenti e aveva perso. Mentre le baciava la tempia, faceva scivolare la mano sul suo grembo gonfio di speranze e percepiva, qualche volta, un piccolo pugno contro il palmo: il piccolo rivendicava un possesso al proprio padre e lo rivendicava con gelosia; Ferraris sorrise amaramente, poi, forse per affetto o forse per sfidare il pargoletto, allentò la presa alla mano di lei e allungò il braccio fino alla sua schiena, traendola a sé con delicatezza.

Galatea mugolò infastidita, ma non si svegliò: dopo un respiro più profondo dei precedenti, si lasciò andare al suo abbraccio, abbandonando la testa sulla sua spalla. Ferraris, però, bramava vederla in viso e così, pian piano, la fece voltare, di modo che, chinandosi su di lei, poté baciarle non più la tempia, non più la guancia, ma le labbra. Lo faceva consapevole di tutti i significati conseguenti, conscio dei rischi e dei comprensibili malumori che un gesto del genere gli avrebbe procurato; non gli importavano, non allora, in un frangente, forse l'unico, forse l'ultimo, in cui quel gesto eclatante gli sarebbe stato concesso. Non sarebbe bastato volere per avere, non questa volta, non con Galatea.

Gli spiaceva di dover approfittare di una simile congiuntura; avrebbe preferito il suo benestare, il suo consenso e, perché no, anche la sua compartecipazione. Al secondo bacio seminato su quelle labbra tanto desiderate, Ferraris rivisse tutti i baci dati e ricevuti, constatando che molti non erano stati corrisposti: molti erano stati estorti con la violenza o, almeno, con il denaro, o con una minaccia, o con una menzogna. Non era stato mai onesto con una donna; e perseverava su questa via.

La porta schioccò, facendolo sobbalzare: ma i timori vennero spazzati via quando il musetto curioso di Giovannino sbucò da dietro lo stipite.

«Signore?» pigolò innocente; Ferraris, per tutta risposta, si portò l'indice davanti alla bocca e gli fece cenno di tacere. Il bambino si irrigidì, ammutolendo all'istante, mentre il nobiluomo, lasciando da parte ogni titubanza, tornò ad accarezzare la guancia di Galatea. Giovannino, per quanto la curiosità lo rodesse dall'interno, non si schiodò dalla soglia del salottino, temendo una dura ramanzina come ne aveva già ricevute in passato. All'inizio Ferraris non badò a lui, pascendosi di morbidi baci attorno alle labbra di lei, così leggeri da non disturbarla; la presenza del piccolo non sembrava infastidirlo. La mano che fino ad allora aveva premuto sulla sua schiena scese alla sua coscia, così da permettergli di tirarla a sé ancora di più, quasi accavallando la sua gamba alle proprie. Accarezzava il suo corpo con la stessa dolcezza con cui baciava le sue guance e la sua bocca, si sarebbe detto con rispettosa venerazione. Infine, sopraffatto, chiuse gli occhi e la cinse tra le braccia; i loro respiri si impostarono sul medesimo ritmo, i loro muscoli si rilassarono, una sensazione di pace si profuse attorno a loro, come se fossero loro stessi ad emanarla.

«Signore?» piagnucolò Giovannino, scalpitando. Ferraris volse un poco la testa, il necessario per poterlo vedere. Il bambino si stava mordendo il labbro inferiore, mostrando bene il buco dell'incisivo laterale destro non ancora ricresciuto.

«Cosa c'è?» brontolò sottovoce. Gli occhi di Giovannino si riempirono di lacrime e il suo piccolo mento cominciò a tremare. Ferraris ristette, aspettandosi che scoppiasse a piangere da un momento all'altro; il piccolo, invece, si limitò a tirare su con il naso una o due volte, rigirandosi una mano nell'altra. Gli tese il braccio sinistro, arrendendosi alla sua muta richiesta, e lo chiamò a sé: «Vieni, su! Ma zitto»

Il bambino lo raggiunse correndo, fermandosi a osservare Galatea.

«Perché dorme ancora?» domandò con un filo di voce, tenendo la mano davanti alla bocca. Ferraris guardò prima lui e poi lei, quindi: «Perché è molto stanca» disse scontato.

«E perché voi la baciate?» domandò ancora. Non gli rispose, non perché non volesse, ma perché non ne sarebbe stato capace. Quindi, capendo che non avrebbe ottenuto nulla, Giovannino replicò: «Posso darle un bacio anch'io?»

Ferraris annuì e, istintivamente, accompagnò quel tenero bacio sulla guancia con una carezza sulla testa bionda del paggetto. Giovannino, però, non fu abbastanza delicato e la pressione, insieme allo schiocco sonoro, destò Galatea dal suo sonno. Batté le palpebre convulsamente, si massaggiò il collo intorpidito e poi fissò lo sguardo sul bambino, quasi ignorando Ferraris.

«Buongiorno, piccolo – lo salutò, biascicando leggermente – Hai dormito bene stanotte, almeno tu?»

Giovannino annuì con un gran sorriso, guadagnandosi una spettinata giocosa da parte di lei. Solo allora Galatea si accorse di essere letteralmente accucciata in braccio a Ferraris: si riscosse subito cercando di trarsi da una posizione imbarazzante, ma senza l'intenzione di offenderlo o di rimproverarlo.

«Come vi sentite?»

Non alzò lo sguardo su di lui per rispondergli: «Male... – confessò, stringendosi nelle spalle, poi – Vi prego, non giudicatemi per quanto è accaduto stanotte»

«Stanotte? – ripeté lui, fingendosi confuso – Non ricordo nulla di interessante che sia accaduto stanotte...»

Lei comprese al volo e gli fu grata, immensamente grata. Tuttavia, nonostante la sensazione di leggerezza che l'aveva investita, il peso che si portava dentro non era diminuito; anzi, si era fatto più gravoso.

«Manca poco...» le rivelò lui, cogliendo dai suoi gesti il disagio che avrebbe preferito nascondergli.

«Ne siete sicuro?» lamentò lei, affondando nello schienale imbottito del sofà.

«Avrei aspettato a dirvelo, ma non sopporto di vedervi ridotta in questo stato di prostrazione»

Dopo un sospiro che alleviò per un attimo la sensazione di affanno che la stava torturando, Galatea fece capire di volersi alzare in piedi. Ferraris domandò se volesse l'aiuto delle serve, se intendesse vestirsi per fare una passeggiata ricreativa. Lei negò con un minimo cenno della testa e gli confidò di voler riposare ancora un po' a letto; gli chiese quindi, come atto di cortesia, di accompagnarla in camera. Gli diede la mano, poi si fece prendere a braccetto e condurre nell'altra stanza. Giovannino, fedele e curioso come tutti i cuccioli, li seguì nella penombra. Le lenzuola erano ancora scostate, come le aveva lasciate all'arrivo di Ferdinando. Si coricò, aiutata dalla sua guida, rabbrividendo per il freddo contatto del materasso. Ringraziò e si volse sul fianco, dando le spalle a Ferraris che le rimboccava le lenzuola fino al collo.

E Ferraris si fermò impettito a guardarla dal lato del letto, la mente sgombra da qualsiasi pensiero o preoccupazione. In quel momento non aveva dubbi su ciò che avrebbe dovuto fare. Per prima cosa sfilò la parrucca e la retina che, fino ad allora, aveva trattenuto i suoi capelli di un biondo cenere tendente ormai al grigio; poi fu la volta della giacca e del giustacuore, che lasciò da parte su una seggiola. Per ultime, le scarpe, accantonate da un lato. Sbottonò il collo della camicia e le maniche, slegò la cravatta e si tolse la cintura. Salì in ginocchio sul materasso, quindi avanzò carponi fino a che non l'ebbe raggiunta; lei si volse giusto il necessario per guardarlo e non mosse obiezioni, pur non concedendogli segnali di esplicito consenso. Ferraris si accontentò del tacito permesso di rimanerle accanto e si distese dietro di lei, aderendo al suo corpo senza per questo risultare invadente o molesto. Prima di coricarsi del tutto cercò di distinguere la sagoma di Giovannino, che doveva essere ancora lì nella stanza. Il bambino, però, lo anticipò, chiedendo con una vocina acuta: «Posso giocare con la vostra parrucca, signore?»

Ferraris sospirò: «Sì – e soggiunse – Ma mi raccomando: acqua in bocca!»

Detto ciò, si coricò in modo da poggiare delicatamente la guancia sulla testa di lei, mentre con il braccio la stringeva a sé prendendola da sotto il seno. Da quel momento, Giovannino, dall'angolo in cui si divertiva ad indossare la parrucca nera, non poté che udire a tratti un lungo dialogo fatto di bisbigli, di cui non comprese nemmeno una parola.

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