Ottobre 1669 pt. 5
La cameretta era angusta e spoglia: entrandovi si trovava un letto posto con la testiera contro la parete a sinistra, sopra il quale pendeva un semplice crocifisso di legno; proprio davanti alla porta di ingresso si apriva una finestrella che bastava a riempire lo spazio di luce. Galatea se ne accorse solo al mattino, complici il buio e la stanchezza della sera prima: si era gettata sul letto di peso, addormentandosi nel giro di qualche minuto. Appena sveglia aveva socchiuso la porta che divideva la sua camera da quella di Ottavio e, intravedendo la sua figura sotto la coperta, era tornata indietro. Era di fatto bloccata, in quanto l'unica via di accesso e di uscita dalla sua stanza era quella porta.
L'altra stanza non era certo più sfarzosa, ma aveva un letto matrimoniale, tre cuscini, una scrivania e una finestra più ampia; Ottavio se l'era accaparrata adducendo come giustificazione il fatto che quello dei due che sarebbe andato a dormire più tardi sarebbe stato lui. Galatea aveva dovuto cedere, ma solo in quel momento si rendeva conto del fastidio che la situazione le comportava.
Ottavio si svegliò pochi minuti dopo, si lavò e si rivestì, uscendo subito; uscito lui entrò Maria e Galatea la riabbracciò con piacere. Mentre quella la aiutava a prepararsi le raccontò tutto ciò che era accaduto durante la sua assenza, tacendo solo riguardo ai vicendevoli tradimenti e alla punizione che si erano imposti di conseguenza. Maria non nascose la stranezza di vederli separati dopo tante notti passate insieme; Galatea preferì non dire nulla.
Ottavio, per cominciare bene la giornata, si recò nella cappella dei pellegrini a pregare e a informarsi sugli orari delle celebrazioni; quindi si recò nel refettorio degli ospiti e incontrò in tutto una decina di persone che, per diversi motivi, si erano fermati qualche giorno presso il monastero. Finse di essere un nobile di passaggio per non suscitare sospetti, memore dell'osservazione che Galatea gli aveva fatto tre giorni prima alla casa di tolleranza: inutile tentare di sembrare ciò che non si è. Era nobile e tale sarebbe rimasto anche sotto copertura: inventò un nuovo nome, un nuovo titolo, una famiglia e degli affetti di cui poter raccontare qualcosa ai curiosi. La gente con cui entrava in contatto sarebbe ripartita nel giro di poco e ben presto si sarebbe scordata di lui.
Poi l'abate lo convocò nuovamente nel suo appartamento; ci andò a passo veloce, impaziente di parlargli più liberamente e più a lungo. Aveva tante cose da confidargli, nella speranza che potesse consigliarlo per il meglio.
Entrato nello studio, vide che l'abate era solo e lo aspettava seduto su una poltroncina accanto alla scrivania.
«Ottavio! - lo accolse, alzandosi - Una notte di riposo e sei tornato quello di un tempo»
Il duchino sorrise, ma non riuscì a ribattere con la stessa spontaneità: «Devo chiamarti "padre" ora che sei abate?»
L'altro scoppiò in una fragorosa risata: «Il titolo mi si addice meglio per altri meriti» disse sibillino, concedendogli di chiamarlo per nome.
«Matteo - rispose allora Ottavio - E' bello vedere che il potere non ti ha cambiato... Un sollievo davvero dopo ciò che ho vissuto...»
«Immagino, la tua famiglia sta pagando cara la sua alta dignità - si rammaricò - Ma il mio non si può definire "potere". Sono troppo pigro per diventare potente»
«Avrei detto tutt'altro...»
«Il mio è un monastero famoso più per i miracoli che non per la ricchezza: le terre di questa zona producono poco e le donazioni dei devoti bastano a stento a pagare i bisogni quotidiani dei monaci. Produciamo manoscritti, ma ormai se ne vendono sempre meno e ci sono monasteri ben più prestigiosi di noi in questo settore»
«Tuo padre aveva altri desideri per te... Una carriera, una porpora...»
«Sì, ma mio padre non era il duca: tu avresti conseguito il cardinalato prima dei trent'anni e ti saresti diviso tra conclavi e concili; io avrei fatto sicuramente più fatica. Per questo mio padre ha optato per il monastero e ha badato bene di scegliere quello con l'abate più vecchio, cosicché, quando il mio superiore morì, comprai di fatto la carica e me ne investii. Ecco come sono arrivato dove sono»
Ottavio scosse il capo: «Per lo meno tu sei sistemato»
«Anche tu non mi sembri messo così male» ribatté, facendogli un occhiolino. Il duchino ristette, quasi che non capisse a cosa si stesse riferendo; al che l'abate chiarì subito: «Hai moglie, ora»
Quella parola lo colse impreparato: tra cappelle, chiostri e corridoi tappezzati di immagini di santi era tornato ai tempi non lontani del seminario e in breve si era scordato di tutto ciò che non vi rientrava.
«Galatea...» sussurrò malinconico.
«Un nome bello quanto il suo viso, se posso. - commentò l'altro, e aggiunse - Siamo dispersi sulle montagne, qui, nondimeno il racconto delle tue peripezie ci è arrivato, così come ci è giunta la notizia delle tue nozze singolari... Eppure ti leggo in faccia che non sei a tuo agio nemmeno con una fanciulla come lei al tuo fianco»
Ottavio sospirò e spostò l'attenzione dall'amico alla finestra che si apriva poco più alla sua sinistra: «E' una situazione piuttosto complicata» confessò.
«E a quando un bimbo?» domandò l'altro. Ottavio tornò fulmineo su di lui, come se l'avesse offeso: «Adesso no di certo!» ribatté secco.
«Come temevo: nemmeno tu sei cambiato affatto!» sbuffò, prendendosi il mento tra le dita.
«Come faccio a pensare a certe cose con tutto quello che vedo capitare?!» replicò inviperito.
L'abate lo raggiunse e gli prese il polso: «E' inutile che cerchi di nasconderti dietro le circostanze: il problema è nella tua testa, non nelle circostanze» e dicendo così gli picchiettò l'indice sulla tempia.
«Facile parlare quando si è abate di un monastero» ribatté, scrollandoselo di dosso.
L'abate rise di gusto: «Sei così innocente da non aver capito cos'ho detto poco fa?»
Ottavio aguzzò lo sguardo e scosse leggermente la testa.
«Ho due figli, Ottavio. Due figli»
Il duchino indietreggiò istintivamente con lo sgomento dipinto sul viso.
«Come hai potuto...?»
«Lei si chiama Adele, vive in un paesino qui sotto, a dieci minuti di strada a piedi. Ci incontriamo di tanto in tanto» spiegò come fosse la cosa più naturale del mondo.
Ottavio assunse un'espressione di disprezzo e lo accusò: «Tu macchi la reputazione della Chiesa con il tuo comportamento immorale! Ti è affidata la cura delle anime e tu...»
«Mi occupo anche di un corpo, sì. Ma quanto alla reputazione, mi sembra un'ingiustizia bella e buona: sono io che mi sono messo in questa situazione, mentre non sono io che ho scelto di diventare abate»
«Vecchie scuse; se fosse stato davvero contro la tua volontà avresti avuto modo di opporti. Siccome, invece, sei uno a cui piace la comodità, hai pensato bene di procurarti un titolo e di fare poi quello che avresti voluto»
«Forse su questo hai ragione - ammise, alzando la voce - Ma non osare mettere in dubbio la mia dedizione al monastero e al servizio! Mi conosci, sai che la mia fede è una delle più pure che si possano trovare in quest'epoca di miscredenti. Non sono cambiato, nonostante ora sappia molte più cose, cose che ti farebbero rabbrividire nel tuo candore. E sta' tranquillo che c'è gente peggiore di me tra queste mura, o tra le mura dei sacri palazzi, come ce n'è di molto migliore. Io faccio ciò che posso, faccio ciò che è nelle mie possibilità: giudico con rettitudine, impartisco ordini imparziali, gestisco le poche ricchezze senza occhio né avaro né prodigo. Ho dei peccati, così come ne hai anche tu. Non ci sono santi sulla terra, i santi stanno in cielo: finché siamo quaggiù non possiamo far altro che portare le nostre croci. Adele è uno dei pochi doni che Dio mi ha concesso e i nostri bambini sono la luce dei miei e dei suoi occhi»
Ottavio abbassò il viso: «La verità è che ho paura»
L'abate lo prese per le spalle e cercò il suo volto: «Paura di cosa? - domandò in un sussurro - Non si muore mica, sai? È solo una metafora da poeti...»
Il duchino si concesse un sorriso, ma quel sorriso era amaro e i suoi occhi erano lucidi di lacrime: «Sono cresciuto immaginando che la mia vita sarebbe stata in un certo modo. Una tragedia dopo l'altra mi ha travolto, mi ha costretto a prendere decisioni contrarie a ciò che fino a quel momento mi era stato insegnato. Ora questa nuova vita potrebbe piacermi più della vecchia... E mi sembra un tradimento»
«Tu pensi troppo. Hai sempre pensato troppo - constatò l'abate e riprese - Te lo diceva sempre padre Fabrizio al collegio, ricordi? E avevi solo dodici anni...»
*
Il tempo era scandito dalla campana che chiamava alla preghiera: Galatea era sicura di non aver mai pregato così spesso e la piccola cappella dei pellegrini le stava venendo in odio, con i suoi affreschi stinti e l'icona miracolosa incastonata nell'altare. Gli ospiti si avvicinavano a toccarla alla fine di ogni funzione e per non sembrare scortese si accodava e li imitava. Per quante volte l'aveva sfiorata con le dita, ormai le sue suppliche dovevano essere arrivate a chi di dovere: la Madonna con il manto trapunto di stelle la guardava con occhi impenetrabili, rigida e composta come solo una piccola pala lignea del Duecento può essere. Da che il monastero era stato fondato quell'icona era lì, resisteva ai crolli, agli incendi, alle ristrutturazioni. La gente della zona la sentiva come una persona di famiglia e alla festa dell'Assunzione di Maria vi accorreva una folla tale da richiedere una giornata intera di attesa per un secondo che ci voleva a sfiorarla, una volta arrivati davanti a lei. Il colore era stato pian piano eroso e di tanto in tanto si rendeva necessario un restauro. Pochi anni prima ce n'era stato uno e già si pensava al successivo. Gli anni turbolenti delle guerre e delle epidemie avevano attratto un numero considerevole di devoti, ma l'icona era ancora lì, era sempre lì. C'era chi diceva di aver riacquistato l'uso di un arto paralizzato, chi di aver visto tornare dalla guerra un figlio o un fratello o un padre dato per morto; chi era stato colpito dal fulmine e aveva visto la Vergine soccorrerlo, chi era precipitato in un dirupo ed era rimasto illeso. Gli ex voto occupavano tutta una parete ed erano delle forme più strane; cuori, gambe, braccia, occhi, lingue, dita... ed erano d'oro, d'argento, di legno o di cera, a seconda della ricchezza del debitore. Galatea non era scettica riguardo ai miracoli ricevuti dagli altri, ma era fermamente convinta che lei non ne avrebbe ricevuti mai, perché lei era lei. Si guardava attorno e vedeva storpi, ciechi, muti, e ringraziava di non dover affrontare simili sofferenze. Al confronto della donna che le sedeva accanto, che aveva avuto un figlio anormale e pregava ogni giorno per lui, seduta sempre sulla stessa panca, Galatea si sentiva benedetta.
Ma le bastava uno sguardo alla navata a fianco per sentire il cuore perdere un battito: Ottavio era così vicino e pur così distante, e più lo vedeva allontanarsi più lo desiderava. Voleva che le dicesse che le voleva bene, che teneva a lei, che era felice di averla sposata: glielo diceva a pochi mesi dal matrimonio e ora, invece, che si erano conosciuti bene, ora esitava addirittura a guardarla, esitava a parlarle e se poteva evitare di incontrarla lo faceva volentieri.
Maria sedeva dietro di lei anche quel giorno; la sentiva ripetere il rosario sottovoce perché non sapeva il latino e si vergognava di storpiare tutte le parole dell'Ave Maria. Ma aveva una certezza: che la Madonna l'avrebbe compresa lo stesso, nonostante pronunciasse suoni senza senso.
Sfiorò distrattamente l'icona ed uscì dalla porta principale; Ottavio passò per la sagrestia - ne aveva ricevuto speciale concessione - e si diresse verso la biblioteca. Maria la raggiunse subito e insieme si avviarono verso l'orto degli ospiti, un quadrato d'erba verde con tre olivi. Il quarto era seccato ed era stato sradicato: al suo posto si trovava una panchina su cui Galatea e la sua serva sedettero.
«Neanche oggi mi ha guardato» sospirò la duchessina. Maria la accarezzò teneramente sui lunghi capelli e disse: «Capite, vostro marito è molto preoccupato per ciò che sta succedendo»
Dalla capitale venivano emanati numerosi editti, proclami, minacce. La cerimonia di insediamento era prossima; se il duchino non avesse partecipato, persistendo nella contumacia, si sarebbe sollevato un grande scandalo. Il duca, a quanto si diceva, fremeva di rabbia ogni qual volta il nome del fratello venisse pronunciato in sua presenza, o soltanto qualora si alludesse a lui. Il principe Ferdinando si era mostrato in pubblico con la spilla dell'erede al trono; un suo figlio era stato fidanzato con la figlia di un duca italiano molto influente. Nella capitale apparivano rozze caricature dei duchini fuggiaschi con didascalie irrisorie, quando non pesantemente offensive. Ottavio era dipinto come un omiciattolo inetto e tardo, mentre Galatea era raffigurata con i tratti delle streghe, capelli arruffati e occhi rossi. I loro nomi erano accompagnati da epiteti come "il prete sposato" e "la panettiera del prete". Le autorità non erano così ligie al dovere di ripulire i muri cittadini, per cui le rappresentazioni rimanevano visibili per giorni e settimane. Non fosse stato per i mercanti che talvolta sostavano al monastero lungo il viaggio, queste notizie non sarebbero mai arrivate. Interrogati su come la pensassero, i mercanti facevano finta di non sapere, di non avere sufficienti elementi, di non interessarsi di questioni dinastiche. Qualche volta, però, tra un discorso e l'altro, uno lasciava intravedere di parteggiare per Galatea, in quanto figlia di altri mercanti: la questione, quindi, diventava una questione di ceto e non più dinastica. Ottavio passava inosservato alla loro attenzione, un duchino qualsiasi, come potevano essercene tanti. Non sospettavano minimamente di discorrere con l'oggetto dei loro stessi discorsi, mentre parlavano. Sospiravano, alzavano gli occhi al cielo e affidavano alla Vergine stellata i loro affari, affinché andassero bene. Questo importava e nient'altro.
«Certo, è sempre più teso...» ammise affranta.
«Dovreste intervenire voi per sostenerlo»
«Ci provo, ma mi allontana... Non mi vuole...»
«Provate a parlargli... Oppure parlate con l'abate, che è suo amico»
Galatea seguì il consiglio: chiese di essere ricevuta e l'abate loconcesse. Ottavio, quando ne venne a conoscenza, storse il naso, ma non esternòle sue riserve. La duchessina uscì dal colloquio privato con una segretasperanza; non rivelò a nessuno il contenuto dei loro discorsi, né ad Ottavio,che gliene chiedeva, né a Maria, che non aspettava altro.
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