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Agosto 1669

Nessuno avrebbe detto che fosse estate e che fino a pochi giorni prima fosse l'estate più calda che si ricordasse nel ducato. Le gocce d'acqua battevano insistentemente contro i vetri, come passerotti che d'inverno picchino i becchi per mendicare briciole e un nido all'asciutto. Galatea si trovava in uno dei corridoi nel momento in cui la pioggia ebbe un crescendo molto rapido; guardò fuori, vide gli alberi piegarsi sotto l'infuriare del vento e dell'acqua, vide poche persone, le ultime rimaste all'aperto, correre a ripararsi nei portici o nei capanni dei giardinieri. Il temporale era scoppiato all'improvviso, le nuvole si erano ammassate in fretta e anche il piccolo duca era stato sorpreso durante la sua passeggiata. Qualcuno aveva consigliato di rientrare, ma sul momento tutti avevano pensato a un acquazzone estivo e avevano lasciato che il bambino corresse sotto le prime deboli precipitazioni. Poi era cresciuta la portata, era cresciuto il vento, il cielo si era oscurato ed erano apparsi i lampi; il bambino, spaventato, aveva iniziato a piangere. Galatea lo sapeva perché aveva sentito le sue urla disperate rimbombare in un salone mentre lo accompagnavano nella sua camera per essere asciugato. Era rimasta immobile in una riverenza fino a che la corte del duca era confluita dal salone in un altro attiguo. Quindi aveva deciso di tornare subito indietro, alla camera dove Ottavio la stava aspettando. Con le temperature così basse era meglio non correre il rischio di un'influenza, già debilitato com'era dal recente malore. Tanto più che lo sbalzo termico non poteva che nuocergli. Una serva la seguiva con una coperta: per questo era uscita, per procurarsene una da stendere sul letto. Si fidava così poco degli abitanti del palazzo che voleva controllare tutto di persona; d'altronde, si ripeteva, quello di Ottavio era stato un colpo di calore e le sue preoccupazioni erano superflue.

Tuttavia lui aveva appoggiato la sua idea di andare personalmente. Aveva aggiunto che avrebbe chiuso la porta a chiave in attesa del suo arrivo. Galatea pensò che il passo successivo sarebbe stato l'ingaggio di una piccola guarnigione che lo scortasse in ogni momento della giornata. E sebbene avesse voluto sorridere di fronte a una evidente esagerazione, non ci riuscì.

Riprese a camminare, lo sguardo sempre rivolto all'esterno. Sul riflesso dei vetri vedeva se stessa procedere come alla ricerca spasmodica di qualcosa; si affrettò ancora, con la paura che cresceva e cresceva. Arrivò alla porta e bussò, Ottavio domandò chi fosse e lei rispose scontata: «Sono io»

La riconobbe dalla voce e la fece entrare; la serva stese la coperta sul letto e se ne andò senza guardarli. Dietro di lei la porta fu chiusa nuovamente a chiave.

«Hai visto che scrosciata poco fa?»

Ottavio tastò la coperta per assicurarsi che fosse abbastanza pesante.

«Sì - rispose - Ma con questa non soffriremo stanotte»

Da quando era stato male, il duchino si rifiutava di tornare a dormire nella propria stanza. Aveva anzi fatto trasferire, pian piano, tutte le sue cose: vestiti, soprabiti, cappelli, libri... Si era reso necessario aggiungere un altro cassettone a quello già presente e nonostante ciò molti oggetti erano ancora disseminati sul tavolino, sui comodini o, più semplicemente, per terra.

Ogni giorno Ottavio ribadiva che si trattava di una condizione transitoria: presto avrebbero fatto le valigie per partire verso una villa di campagna più tranquilla per studiare senza troppi timori la situazione del ducato.

"Pochi servi, un solo cuoco e una o due famiglie di accompagnatori" diceva lui. E lei sperava che con ciò alludesse al Monteni e a un altro dei suoi amici fidati; ma con Monteni sarebbe venuta anche Bice e per questo ci teneva tanto; avrebbero potuto passare più tempo da sole, mentre i loro mariti sarebbero stati impegnati a caccia o in qualche gioco da tavolo come gli scacchi. Ci sarebbe stato tempo per passeggiate nella natura, pranzi all'aperto e tutto il genere di intrattenimenti che si concedeva, solitamente, alla villa di campagna dei suoi genitori. Così si immaginava sarebbe stato quel periodo e non nascondeva più il desiderio di partire al più presto.

«La pioggia non ci voleva... Proprio adesso che il medico ci aveva dato il suo benestare...» borbottò Ottavio, proseguendo sul discorso che lei aveva cominciato.

«Non durerà più di qualche giorno; abbiamo pazientato fino ad ora, non guastiamoci questi ultimi giorni a palazzo» lo consolò sedendosi sulla sua poltroncina.

«Ho già dato disposizione di preparare i nostri bagagli. Mio fratello oggi ha avuto da ridire, come puoi immaginare: preferirebbe avermi sempre sotto il suo controllo, è comprensibile. Ma il fatto che sia lontano e decentrato dovrebbe averlo tranquillizzato circa le nostre intenzioni. Sempre che...»

Galatea alzò gli occhi per guardarlo in volto, ma lui non andò avanti nel suo ragionamento.

«Hai paura?» sussurrò.

«Un po'. Così soli sarebbe facile sbarazzarsi di noi... Tuttavia non voglio portare gente armata dal palazzo; preferisco procurarmene attraverso l'ufficiale di provincia. Per lo meno saprò di non partire già accompagnato dal boia, come un condannato a morte» considerò.

«Ma tuo fratello vorrà offrirci una scorta per il viaggio...» obiettò.

«Sicuramente, sarebbe strano se non lo facesse. Farò sì che ci disferemo di essa appena possibile»

*

Si recarono a cena e lì scoprirono che il piccolo duca non avrebbe partecipato: dopo il pomeriggio nei giardini, Leopoldino aveva già mostrato i primi segni del raffreddore. Sua madre assicurò che non si trattava di nulla: un semplice colpo di freddo che coperte e vestiti asciutti avrebbero scacciato. Galatea fece memoria di un raffreddore di suo fratello Francesco, contratto anche quello in estate dopo un pomeriggio di corse. Sua madre Maddalena l'aveva sgridata per bene, perché era lei, la più grande, ad essere responsabile dei fratelli più piccoli. Così era rimasta in castigo per qualche giorno; poi il malanno era passato e anche la sua mamma aveva messo freno ai rimproveri.

Ottavio le sedeva accanto come al solito, anche se dopo la lunga pausa dovuta alla convalescenza era faticoso tornare alle cene formali di famiglia, con il silenzio che faceva da sovrano, rotto talvolta da un cucchiaio d'argento contro il fondo del piatto. I pasti consumati soli nel salottino attiguo alla loro camera erano tutt'altra cosa: più confidenza, scherzi e motti piacevoli. Erano un modo per conoscersi meglio e per imparare a stimarsi ogni giorno di più. A quella considerazione, Galatea mosse istintivamente la mano sinistra verso Ottavio e lui, altrettanto istintivamente, lasciò il cucchiaio e le accarezzò le dita.

Antonio li vide e avvampò in viso, distogliendo lo sguardo quasi con disgusto. La principessa reggente li vide e vide anche la reazione di Antonio, decidendo però di lasciar cadere il fatto nel mare della sua indifferenza, affinché vi annegasse. I più erano convinti che ogni loro mossa fosse calcolata espressamente per sollevare lo scontento della famiglia ducale e dei due reggenti in particolare; ma nulla sarebbe stato più lontano dalla realtà. Galatea e Ottavio non avrebbero potuto essere più spontanei: c'era un protocollo, c'erano regole e aspettative da soddisfare.

Inoltre, quella sera c'era dell'altro: Galatea lo sentiva a fior di pelle come un alito di vento leggero, ma gelido. Passava e la faceva rabbrividire; non si trattava di spifferi, nonostante fuori infuriasse ancora il temporale. Era un freddo diverso, un freddo interiore. Passava in rassegna, con uno sguardo veloce, i visi delle persone sedute alla sua stessa tavola, e si soffermava un po' di più a osservare il volto del principe Ferdinando. Solo nei suoi occhi riusciva a scorgere una sensazione un minimo rassomigliante a quella che percepiva.

Ad un tratto una serva interruppe il pranzo, bisbigliando qualche parola all'orecchio della principessa Anna; questa si alzò, abbozzò un sorriso e si scusò. Lasciò la sala camminando piano, il viso sereno. Nessuno si preoccupò e si tornò a mangiare le ottime portate offerte dalla perizia dei cuochi.

*

Il giorno dopo il cielo era ancora coperto e l'aria era fresca come nelle mattine di primavera. I fiori, mossi dalla brezza, sembravano scuotersi di dosso la pioggia della notte, innalzando testardamente le corolle maltrattate dalla furia delle nuvole ormai esauste. Il mondo sembrava tirare un respiro di sollievo: un'altra guerra era passata.

Galatea indugiava ad alzarsi, contenta del calore della coperta, e si negava anche ad Ottavio, che la invitava a prepararsi per una nuova giornata.

«Stai diventando pigra - scherzò, già vestito di tutto punto - E questo è disdicevole in una moglie!»

Lei gli fece una linguaccia e si girò sul fianco dandogli le spalle.

«Non sono affatto pigra! Sono solo freddolosa» si lamentò di rimando.

«Ti aspetterò nel salottino per la colazione. Ti chiamo Maria» disse lui, chiudendo la questione con un cenno di saluto. E lei dovette cedere e offrirsi alle cure della sua unica serva personale: Maria le faceva da cameriera, da guardarobiera e da parrucchiera. Era una buona signora di umili origini, con un forte accento campagnolo e la voce un po' acuta delle donne nate e cresciute vicino alla gola di un torrente impetuoso. A differenza della maggior parte dei famigli, Maria non aveva pregiudizi contro di lei e anzi le usava gli stessi modi affettuosi di Donna Pappa. Le ripeteva come un pappagallo tutti i pettegolezzi del palazzo, aggiornandola quasi ora per ora se ne aveva la possibilità. Quella mattina arrivò di buon umore e cominciò parlando della conclamata gravidanza di Aura. Poi passò in rassegna tutti i membri della famiglia reale che aveva visto la mattina, obiettando che il principe Antonio aveva indossato il peggior giustacuore che si fosse visto a palazzo. Poi, quasi sbadatamente, si lasciò sfuggire che al raffreddore del duca doveva essersi aggiunta la tosse. L'aveva sentito tossire lei in persona poco prima mentre dagli appartamenti della servitù si dirigeva lì dalla padrona. Aspettava fuori dalla porta dei suoi appartamenti dopo aver bussato e non lontano aveva sentito dei colpetti di tosse.

«Siete sicura che fosse il duca?» domandò Galatea sistemandosi personalmente la pettinatura.

«Sì, signora. Era la vocina di un bambino» confermò l'altra e al contempo le aggiustò un fiocco sulla gonna.

«Il tempo sta già cambiando - commentò la duchessina - Tra qualche giorno tornerà il caldo e il piccolo guarirà»

«Certo, signora»

Ottavio attendeva timidamente sulla soglia: prima di entrare voleva assicurarsi che fosse vestita e si annunciò schiarendosi la gola. Galatea lo chiamò, invitandolo ad entrare. Maria pensò a quanto fosse strana quella coppia, ma non si azzardò a dire la sua.

«Rifarò il letto, signori - si limitò a dire - Devo riordinare anche le altre cose?»

«No, Maria. Lasciate pure così com'è. Anzi, preparate anche voi i vostri bagagli: partiremo da qui entro una settimana e vorremmo che voi ci seguiste» ribatté Ottavio porgendo il braccio a Galatea.

Si avviarono verso il tavolo nel salottino, sedettero uno di fronte all'altro e consumarono una rapida colazione. Se qualcuno fosse entrato in quel momento non avrebbe trovato nulla di principesco in loro. E nemmeno loro si sentivano principi quando erano soli. Non sapevano esattamente come definirsi perché né la definizione di sposi, né quella di amici, né quella di fratelli sarebbe corrisposta alla loro situazione. Per quanto la confidenza avesse esteso i suoi confini, non erano ancora in intimità; dormivano insieme per una questione di sicurezza prettamente personale; cenavano insieme per trarre piacere dalla reciproca compagnia; passeggiavano per ingannare il tempo. Se avessero avuto la possibilità di cambiare la loro condizione, certamente non si sarebbero sposati; ma nel complesso potevano dirsi soddisfatti e finché il resto del mondo si tratteneva dal ficcare il naso nel loro rapporto non trovavano molto altro di cui lamentarsi.

Non molto dopo la conclusione della colazione, Maria offrì loro alcune foglie di menta e un bicchiere d'acqua, quindi se ne andò a svolgere altre mansioni.

*

Dopo la colazione si erano separati, promettendo di ritrovarsi per il pranzo. Ottavio sarebbe andato in biblioteca, mentre Galatea era già d'accordo con Bice per fare una passeggiata, se il tempo l'avesse permesso. E siccome la pioggia ricominciò a cadere poco prima del loro appuntamento, decisero di comune accordo di rimandare al pomeriggio successivo. Passarono la mattina a ricamare, scambiandosi pareri e opinioni, e alla fine Bice disse, come se non avesse importanza: «Forse aspetto un bambino»

Galatea rimase di stucco, gli occhi spalancati e le labbra socchiuse, mentre l'amica sorrideva e i suoi occhi emanavano una vaga luce di speranza e timore.

«Un bambino, hai detto?» rispose, cavando una ad una le parole dalla gola.

«Sì, succede a volte quando si è sposati» rise Bice, lisciandosi le pieghe del vestito sulle ginocchia.

Galatea sentì un brivido alle spalle e con la mano destra si precipitò a coprire l'anello nuziale, in un inconscio desiderio di non vederlo più.

«Forse aspetti anche tu e non lo sai... Ci vuole tempo per capire...» continuò Bice, beata.

«Non credo sia possibile» ribatté atona.

«Non puoi esserne così sicura»

Poi Galatea si ricordò della sua posizione, si ricordò di ciò che aveva detto ad Ottavio non molto tempo prima: forzò allora tutta se stessa nel pronunciare la sua bugia: «Hai ragione, forse è semplicemente troppo presto per capire»

Bice rimase entusiasta della risposta e le prese entrambe le mani: «Sarai così felice quando capirai!» le confidò.

Galatea fu d'umore nero per il resto della giornata. Ottavio si stupì della sua cupezza e gliene chiese la ragione, ma lei si chiuse nel silenzio e lo scostò, quasi che fosse colpa sua. E lui, confuso, non osò forzare le sue resistenze.

Venne sera in fretta, forse perché le nuvole persistenti avevano sottratto gran parte della luce e avevano affrettato le ombre. I duchini, puntuali come loro solito, lasciarono il loro appartamento per raggiungere la sala da pranzo. Mentre percorrevano il corridoio incrociarono alcune serve che portavano tra le braccia tinozze di acqua calda, panni e coperte; queste si inchinarono rapidamente e ripresero subito a camminare spedite, una dietro l'altra. Galatea si voltò appena per guardarle andare via, mentre Ottavio si avviava tirandosela dietro.

La reggente non presenziava alla cena, ma nessuno se ne preoccupò: con due bambini piccoli e uno per di più raffreddato non c'era da stupirsi. Antonio era quasi sollevato dalla sua assenza e gestiva la conversazione con i commensali con più agio del solito. A un tratto coinvolse anche Ottavio; Galatea naturalmente no. Si parlava di caccia ed entrambi i fratelli davano a vedere di essere alquanto ferrati in materia. La carriera ecclesiastica sembrava non aver intaccato un'antica passione, ereditata insieme al sangue del vecchio duca: Ottavio scambiava pareri sulle armi, sulle tecniche e ricordava con una punta di orgoglio innocente i successi degli ultimi anni di collegio.

«Sono passati tanti anni, non credo che sapreste reggere il confronto» lo sfidò il fratello maggiore. Negli anni del seminario, in effetti, era proibito agli studenti di partecipare a pratiche tipicamente laicali come la caccia e il teatro. Ciò significava che, a partire dai sedici anni, Ottavio non aveva più imbracciato un archibugio ed era montato a cavallo solo per gli spostamenti e le passeggiate.

«Mi manca solo l'allenamento» ribatté il duchino sollevando la coppa in un cenno di brindisi. Antonio ricambiò il saluto.

Galatea era distratta dal pensiero di Bice e non prestava molta attenzione. Colse superficialmente il fatto che Ottavio fosse appassionato di caccia e non se ne interessò affatto. Era ancora turbata dalle parole dell'amica, come se avesse svelato un segreto morboso che altrimenti sarebbe stato ben nascosto. Sedeva accanto a suo marito e solo allora si rendeva conto che avrebbe dovuto dargli dei figli. Per questo si erano sposati, in fondo. Le allusioni che erano capitate in precedenza erano state vaghe e proiettate in un futuro così sfumato da sembrare più una favola che non la realtà: era vero, anche quelle allusioni non l'avevano lasciata indifferente, ma ora c'era di più. C'era il bambino che Bice sentiva dentro di sé e il modo scontato con cui le aveva detto che presto sarebbe stato anche il suo turno. D'un tratto ecco l'ansia, ecco l'incombere di un fatto che non avrebbe voluto prevedere. Non lo cercò quella sera, non provò ad attirare la sua attenzione su di sé nemmeno per sentirsi meno sola.

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