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Capitolo 7

Il sentore di pioggia trapassava la cupola, portava con sé il vigore della Tempesta. Appollaiata sul tetto, Altair si godeva la sensazione: i fulmini sottopelle rispondevano al richiamo, spingevano per uscire allo scoperto; sopra di lei, i tuoni illuminavano il cielo oltre il vetro della cupola.

Erano giorni che aspettava quel momento. Non se lo ricordava nemmeno più, quand'era stata l'ultima volta che si era sfogata come si deve.

Si calcò il cappuccio dell'impermeabile sulla nuca e aggiustò la maschera di cera bianca: entrambi un regalo di Elettra. Anonimo e brutto, quel vestiario sarebbe stato adatto a un qualche supereroe sfigato dei film.

Una bella merda, ma era il prezzo da pagare per divertirsi un po'.

Vega si accucciò accanto a lei. Un ciuffo di capelli gli ricadeva scomposto su un occhio. Si erano allungati troppo e gli regalavano un'aria ancora più depressa del solito. «Per favore, non fare cazzate.»

«L'ho capito la prima volta, smettila di rompermi le palle.» Altair si rialzò. Sotto di lei, oltre i tetti delle altre case, uomini di legge circondavano l'entrata della torre.

Lui sospirò. «È importante, non dobbiamo farci scoprire.»

«Però se la cazzata la fa la tua fidanzatina va bene.» Altair si abbottonò l'impermeabile.

«Ely ragiona prima di fare qualcosa, al contrario di qualcun altro,» disse lui. «E poi abbiamo già rischiato abbastanza.» Un uomo senza spina dorsale, ecco cos'era. Non era cambiato nemmeno un po'.

Altair non gli rispose. Scrocchiò le nocche, i fulmini che le percorrevano le dita, in attesa di scatenarsi. Non si era vestita come la peggiore degli strambi solo per sorbirsi le lamentele di Vega. «Prendi quell'affare, io scendo.» Gli indicò l'oggetto in questione, quella specie di brutto disco volante.

Vega lo raccattò da terra e glielo sventolò davanti agli occhi. I fili colorati che ne decoravano un lato le oscillarono a pochi centimetri dal naso. «Ricordati il piano,» le ripeté, ancora. Quanto cazzo era pedante. Un vero rompipalle.

Altair estrasse la pistola a doppia canna dalla fondina. Ne accarezzò il manico, usurato dal tempo. «Se me lo ripeti un'altra volta mi esplodono le palle che non ho.» Aprì il caricatore e controllò che fosse pieno, poi lo richiuse con uno scatto. «Inizia la festa.»

«Altair...» Vega provò ad afferrarle il braccio. Lei si scansò e gli rifilò un'occhiata in tralice.

Un cartellone pubblicitario, con un tizio a petto nudo e una confezione di profumo in sovrimpressione, emanava una luce rossastra che gli inondava una parte del volto. Mescolata al rosso, la pelle scura di lui assumeva una tonalità più calda.

«Vedi di farla finita, o mando tutto all'aria solo perché mi hai fatto girare troppo le palle.»

Bastarono quelle parole a farlo zittire. E mentre lui si mordeva il labbro, Altair si buttò giù dal tetto. I fulmini non oltrepassavano la cupola, ma la loro potenza risvegliava quelli di lei, li richiamava, fino a convincerli a uscire allo scoperto. E lei li lasciò fare. Lasciò che le guizzassero lungo il corpo, che le sollevassero alcune ciocche di capelli, mentre l'aria le sferzava il viso e l'impermeabile le svolazzava libero alle spalle.

Si portò le ginocchia al petto e roteò su se stessa. Quando atterrò, non produsse alcun rumore e, silenziosa, si riaggiustò i vestiti.

Vega le fu subito accanto. Lui rappresentava la stessa furia di un orso – oltre che la stessa stazza – ma non esisteva armonia né agilità nel suo modo di muoversi. La guardò, come se si aspettasse un qualche commento da parte sua.

Altair gli rifilò un colpetto con il dorso della mano sul petto. Di sentire le sue prediche ne aveva abbastanza. Il momento di sorbirselo era finito, adesso iniziava il vero divertimento.

Vega le bestemmiò qualcosa dietro, ma Altair non lo ascoltò nemmeno. Si avviò lungo il marciapiede isolato, abbastanza veloce da seminarlo. Superò le svolte dell'intrico di vicoli sporchi e silenziosi, fino a raggiungere la base della torre e gli sbirri che c'erano di guardia. La torre, che poi altro non era che un edificio alto e sgraziato, con qualche finestra che si affacciava qui e lì. Raggiungeva l'altezza della cupola, che ne rappresentava il tetto stesso.

Altair si incamminò sotto il fascio di luce di uno dei lampioni, picchiettandosi la spalla con la pistola a doppia canna. Gli sbirri saltarono su, le armi sollevate.

Per lo meno non se la facevano sotto. Non ancora, almeno.

«Ferma!» disse uno dei poliziotti. La erre moscia gli toglieva anche quel minimo di autorevolezza che cercava di dimostrare.

Altair alzò gli occhi al cielo e si arrestò, a diversi passi di distanza. Dietro quei tre perdenti, la porta blindata che conduceva all'interno della torre aspettava solo di essere aperta con un bel calcio. In quel punto preciso, la forza della Tempesta fluiva con più rabbia del solito. Strinse il manico della pistola fino a sbiancarsi le nocche; non era ancora il momento di scatenarsi, ma starsene buona cominciava a provocarle degli spasmi muscolari lungo le braccia.

Quanto ci mettevano quei tre rincoglioniti a chiamare i rinforzi?

Ah, già, forse prima dovevano capire che li avrebbe potuto friggere in meno di un secondo.

«Posa l'arma!» le urlò un altro. La sua voce da cornacchia isterica le ferì le orecchie.

Era quasi divertente, starsene lì a osservarli. Erano uomini addestrati, quelli, eppure digrignavano i denti e tenevano le dita troppo serrate sull'impugnatura delle armi. Non dovevano essere abituati a difendere la torre dalle minacce.

Sotto la maschera di cera, Altair si esibì in un ghigno che nessuno poteva vedere, ma che era sicura avessero percepito. I tre indietreggiarono appena.

«Posa la pistola, ho detto!»

«Ma a che cazzo serve chiedermelo quindici volte?» Altair non trattenne più i fulmini – non per desiderio, quanto perché la loro forza divenne troppa. Le zampillarono sulle braccia. I muscoli le si rilassarono, finalmente.

Il più isterico dei tre sparò un colpo, senza preavviso, a occhi chiusi. Nella polizia prendevano a lavorare dei perfetti deficienti, a quanto sembrava.

Il proiettile schizzò verso di lei, ma si fermò a un centimetro dal suo naso. Una rete intricata di saette lo bloccava in quella posizione. Altair lo lasciò lì sospeso per godersi le facce degli sbirri. Non si aspettava che il tizio con la erre moscia sparasse ancora. Con il sopracciglio inarcato, fissò lo sguardo sulla punta del secondo proiettile trattenuto dai fulmini.

«Che branco di sfigati.» Altair rimandò le pallottole indietro. Schizzarono sulla porta blindata. «Volete chiamarli i rinforzi, sì o no?» sbottò.

Il più basso dei tre, un ometto con una cresta blu fosforescente, si portò un dito all'orecchio e bisbiglio qualcosa.

Cazzo, adesso sì che si ragionava. Il loro compito era terminato.

Sparò ai piedi della cornacchia isterica. Il suo balletto ridicolo le ricordava un vecchio cartone animato che guardava da piccola. Rise, ma questa volta non se ne restò ferma ad aspettare che facessero qualcosa. Sfrecciò verso di lui e gli sferrò un colpo con il palmo della mano sullo stomaco. Lui teneva gli addominali contratti, tuttavia Altair lo sentì piegarsi in due al suo tocco.

La cornacchia volò all'indietro e urtò la schiena contro la porta. La testa gli ciondolava dal collo.

Bene. Uno sfigato di meno.

Il tipo con la cresta si rivelò il più stupido, o forse solo il più disperato: gettò la pistola a terra e le andò incontro, ululando come un vichingo. Cosa sperasse di fare, Altair non lo scoprì mai, perché gli piantò la suola della scarpa sul naso prima che la raggiungesse. Lui cadde all'indietro.

Mancava l'ultimo sfigato.

Altair mimò un colpo di pistola con la mano libera nella sua direzione. Quello digrignò i denti e prese la mira. Poi ci fu un tonfo, e lui crollò al suolo.

«Quale parte di "non farti scoprire" non hai capito?» Vega reggeva ancora l'aggeggio di Keira in una mano. I fulmini gli percorrevano il petto e i muscoli gonfi gli tiravano la maglietta.

«Non rompere i coglioni. Tanto che differenza fa? Ho la maschera, no?» Altair si picchiettò la suddetta maschera con un dito.

Vega contrasse la mascella. «Li hai esortati a chiamare i rinforzi. Cosa cazzo vuoi fare? Se hai mandato tutto a puttane, giuro che...»

«Cosa, che mi prendi a calci in culo?» Lei spalancò le braccia, a incitarlo. «Provaci pure, se sei così convinto di riuscirci.»

Delle scariche di elettricità schizzavano dalle tempie di lui. Le vene sul collo gli pulsavano, vistose. Divorò la distanza che li separava in meno di un istante e le afferrò il braccio. Strinse come se volesse stritolarla. «Se hai mandato tutto a puttane,» le sibilò nell'orecchio, «giuro che ti faccio passare la voglia di fare quel cazzo di sorrisetto odioso che ti ritrovi.»

I fulmini la inebriavano. Non avvertiva dolore nel punto in cui la stringeva, solo un vago senso di intorpidimento. Allungare la mano e cavargli gli occhi sarebbe stato facile. Altair trattenne a stento l'istinto e si liberò con uno strattone. «Te l'ha mai detto nessuno che sei il più grande rompicoglioni di Nuova Folk?»

La mascella gli fremette, poi lui sbuffò. «Sì. In tanti, in realtà.»

Altair lo colpì con una spallata nel superarlo. «Dovresti scopare di più.» Si diede un colpetto ai baveri dell'impermeabile e si accucciò davanti all'uomo dai capelli a cresta. Gli tolse l'auricolare per avvicinarselo all'orecchio.

«Nicolaj, mi ricevi? Nicolaj? Com'è la situazione?»

Battendo il pollice contro la coscia, Altair sbadigliò. L'altro non si accorse di nulla, continuava a chiedere di Nicolaj. Quanto gli ci voleva per capire che era andato al tappeto? Certo che la polizia era piena di imbecilli. Eppure, aspettò ancora: una conferma, non le serviva altro. Una conferma che presto sarebbe arrivata lei.

«Smettila di perdere tempo e aiutami a cercare le chiavi, prima che arrivino gli altri.» Vega intanto frugava nelle tasche del tipo con la erre moscia.

«Le chiavi?» Altair lanciò l'auricolare a terra. Nel rialzarsi, lo spiaccicò contro il tacco della scarpa. «Per chi cazzo mi hai preso? Non mi servono mica le chiavi per aprire una fottuta porta.»

Concentrò gran parte dei fulmini sulla gamba. Bastò un solo calcio, e la doppia porta si spalancò con un forte frastuono. Il tizio dalla voce squillante, ancora incosciente, ne seguì il movimento e scivolò con la schiena contro il pavimento.

Dall'interno arrivò un'ondata di aria gelida. Altair puntò la pistola in avanti. Si aspettava un manico di sbirri pronti a riversarle addosso una scarica di proiettili, o un qualche allarme di sicurezza pronto a scattare. Invece niente, tutto quello che aveva da offrirle quella torre di merda era il freddo, il buio e il silenzio.

Qualcosa non tornava.

Vega la scansò di lato. «Siamo nel posto giusto?» chiese, addentrandosi.

«Forse hanno organizzato una festa ai piani di sopra.»

Lui scrollò appena le spalle. «In ogni caso, diamoci una mossa. Non abbiamo molto tempo, grazie a te.» Sparì nell'oscurità del corridoio, e Altair mosse un passo per seguirlo, quando il telefono le vibrò contro la coscia.

Lo estrasse e controllò lo schermo. Una chiamata da Elettra. Accettò con uno sbuffo. «Che cazzo c'è?»

«Altair, a che gioco stai giocando?»

Proprio lei parlava. «A nascondino, a quanto pare.»

«Per ora lasciamo stare.» Il canto sgraziato delle sirene della polizia giungeva dall'altro capo del telefono. «Stanno mandando rinforzi. Troppi. Tenterò di tenerli lontani, ma qualcuno potrebbe sfuggirmi. Fai attenzione, per favore. Lo sai quant'è importante questa missione

Altair schioccò la lingua. Almeno lei si stava divertendo. Forse aveva sbagliato a scegliersi il ruolo. «Hanno mandato anche la squadra speciale?»

«Quindi era per questo?»

«L'hanno mandata o no?» sbottò lei. Una scarica di fulmini le guizzò sulle braccia.

«Credo di sì, ma per quanto ne so, lei è in pausa adesso.»

«Lascia fare a me.» Altair riagganciò la chiamata mentre l'altra provava a dirle qualcosa.

Note:

Se non avete capito bene cosa stiano combinando, be', è normale. Ad ogni modo, Altair ha fatto un casino! Staremo a vedere come andrà a finire, ma nel frattempo, voi siete team Elettra o team Mira? Chi sperate che abbia la meglio, gli ibridi o la polizia?

Questa parte avrà un po' l'adrenalina a mille, quindi preparatevi xD

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