Capitolo 48
Altair la affrontava a viso aperto. Mira non la ricordava così forte: non era mai stata tanto veloce, tanto potente, tanto immensa. Eppure, a malapena riusciva ad avvicinarsi. Bastava alzare una barriera di fulmini o sferrarle un calcio per allontanarla.
Mira non capiva. Un tempo le sembrava imbattibile.
Non si sentiva più il corpo. Non sentiva il sangue scorrerle nelle vene, il cuore battere o i polmoni respirare. C'erano solo i fulmini. Fulmini che la muovevano, fulmini che le pulsavano nelle vene e fulmini che le offuscavano il cervello.
Guardava Altair rialzarsi per l'ennesima volta; il sangue le colava dai tagli sulla fronte e sullo zigomo. Un magone attanagliò lo stomaco di Mira.
Non voleva combatterla. Allora perché? Perché farle esplodere una scarica di saette davanti al naso? Perché mandarla al tappeto ancora una volta?
Mira non lo sapeva.
Era completa. Stava bene, come non era mai stata in vita sua. Il suo fisico non desiderava altro, viveva per assaporare l'immensa energia che le scorreva dentro. Le scariche elettriche la avviluppavano dall'interno in un abbraccio amorevole.
Le catene, pensò poi.
Forse Altair aveva ragione. Forse non era un abbraccio. Forse la tenevano solo stretta nella loro morsa, in una prigione fatta di folgori che le pizzicavano sottopelle.
Mira però non vedeva la differenza.
I rombi dei tuoni erano cessati. Spariti quando aveva iniziato la sua lotta con Altair, o forse prima, mentre fronteggiava Vega. Mira li udiva lo stesso, nelle proprie orecchie: urlavano tutti insieme, suoni scomposti che acquisivano un senso secondo dopo secondo, e allora divennero una parola.
Distruggi.
Il tempo le scivolava sotto le dita. La differenza fra il prima e il dopo si fece indistinta, un concetto astratto che non sapeva più afferrare. Altair, con le saette che ruggivano nel rimarginarle le ferite e attaccava ancora; Vega, riparato dietro lo scudo mentre urlava dal dolore; Elettra, un'ombra che si aggirava nelle vicinanze, che la osservava; l'edificio che crollava su se stesso... Tutti avvenimenti intrecciati fra loro, si ripetevano e si susseguivano senza un senso apparente.
I botti dei tuoni tornarono. Le echeggiarono nelle viscere.
Altair alzò la testa, a guardare qualcosa. Cosa? Mira non riuscì a convincere il proprio corpo a seguirne lo sguardo. Anche l'ultima traccia del tipico sorrisetto di scherno di Altair le scomparve dal volto. La situazione era davvero così grave?
Mira voleva chiederglielo. Comandò alla bocca di aprirsi, alla lingua di formare le parole. Niente. Era solo un fantasma, intrappolata nel suo stesso corpo.
Un'altra presenza aveva preso il controllo. Uno spirito informe, nebuloso, che si trascinava da un punto all'altro del corpo trasportato dai fulmini. Era quello a bloccarla, a incatenarla.
Chi sei?, gli chiese.
La presenza non rispose mai.
«Liberati,» le disse Altair. No, non lei. Il suo ricordo.
Mira non capiva. Come? Come doveva liberarsi?
Distruggere. Sfasciare tutto. Cancellare la città. Questo le gridavano i fulmini, di lasciarsi andare, di sfogare ogni sentimento represso, di diventare l'essere superiore che era destinata a essere. Ma di chi erano, quei sentimenti? Suoi? O della presenza dentro di lei?
Altair le andò incontro, il pugno a cercarle la faccia. Mira la evitò; l'altra si abbassò, le rifilò una testata nel fianco. Perché continuava a combattere? Mira non voleva. Non voleva tirarle i capelli, non voleva darle una ginocchiata sul viso. Le viscere le si raggrinzivano a vedere Altair barcollare all'indietro, pulirsi il sangue che le colava dal naso.
Ma la Tempesta la comandava. E allora Mira la riversò fuori dai palmi, a colpire ciò che ancora rimaneva della cupola. Uno scricchiolio, poi si ruppe in mille pezzi; le caddero addosso in una pioggia scintillante.
Una figura le si stagliò davanti. Affiancava Altair, le teneva le mani sulle spalle, la allontanava. Mira ne riconobbe gli occhi quando si puntarono su di lei, il loro azzurro slavato: Elettra. Spalancò le braccia, sparse dei fulmini attorno a lei; tastarono il terreno, agganciarono i frammenti della cupola e glieli gettarono addosso.
Un cenno del dito, e la Tempesta si innalzò in una barriera a proteggere Mira.
Assurdo. Aveva creduto fossero imbattibili, tutti e tre.
«Ehi, Mira!»
Lei si voltò. Non perché avesse riconosciuto il proprio nome, la Tempesta non rispondeva ad alcun nome: seguiva la direzione dei suoni, cercava la fonte di ogni stimolo per scatenare distruzione. Vide l'armatura di Drake e credette di trovarlo lì, ancora vivo, la pelle liscia e incolume, vivo. Il sapore delle sue labbra le risalì lungo la gola, assieme a un miscuglio di acidi gastrici.
Ma non era Drake. Vega ne portava i resti dell'armatura e avanzava verso di lei.
«È questo il piano?» L'istinto la fece voltare ancora a cercare la fonte della voce. Altair. «Farti ammazzare conciato come un cazzone?»
«Chiudi quella cazzo di bocca!» Vega reggeva lo scudo di fulmini in una mano; l'altra calzava il guanto di Drake, quello ancora intatto.
Mira non capì cosa sperasse di fare. La presenza dentro di lei le sussurrò di non preoccuparsi, che qualsiasi fosse il piano di Vega, non avrebbe funzionato.
Così i fulmini si lanciarono contro di lui. Vega nascose la testa dietro lo scudo. I piedi muovevano un passetto alla volta, si fermavano per resistere ai colpi di Mira, poi riprendevano l'avanzata.
Elettra si addentrò nell'intrico di saette, si lanciò verso Mira. Voleva fermarla, o forse distrarla. Non la raggiunse mai e, fra un grido di dolore e uno di disperazione, crollò in ginocchio. Evocò solo allora una barriera che la tenesse al sicuro.
La Tempesta si era lasciata distrarre. Quando si accorse di Vega, a pochi centimetri da lei, ormai era già troppo tardi: lui le ghermì la mano con la propria. Il guanto freddo di lui le premeva contro la pelle. Un bruciore le annebbiò la vista, seguito da un dolore pungente e un prurito incessante.
La Tempesta sciolse il suo abbraccio su di lei.
Mira respirò. Consapevole di se stessa, del suo stesso corpo, non poté far altro che ordinarsi di prendere profondi respiri.
Il vetro dell'armatura di Vega scoppiò, un pezzo dopo l'altro, rotta dai colpi della Tempesta intrappolata. Vega strinse i denti, ma non la lasciò andare.
Distruggi, diceva la presenza.
No, pregava Mira.
Le saette le si raggrupparono sulle dita. Ingarbugliate le une alle altre, formarono una lama, affilata e scoppiettante.
Due urla arrivarono da due direzioni differenti. Elettra e Altair. Entrambe si mossero.
Non farlo, pensò Mira. Per quanto ci provasse, però, la presenza dentro di lei restava la più forte. Fece affondare la lama nel ventre di Vega, lì dove il vetro era scoppiato e l'armatura era più sottile. Gli scivolò all'interno. Lui gemette, il corpo in preda ai sussulti.
Arrivò prima il pugno di Altair. Le frantumò la mandibola, ma la Tempesta se ne accorse appena, già pronta a risanarla. Poi un peso le si buttò addosso. Finirono entrambe a terra, a rotolare una sopra l'altra. Elettra le conficcò le unghie nella spalla e la percosse con le nocche. Movimenti impacciati, i suoi, eppure fatti di pura potenza.
Mira le sputò il sangue in un occhio. L'altra non si interruppe. Graffiava e colpiva alla cieca, e faceva male. Ogni suo attacco riportò Mira nel suo corpo, ogni fulmine che strideva contro quelli della Tempesta le regalava un'ondata di coscienza.
La presenza perse la sua presa. Soppressa dal dolore, allentava le catene con cui la vincolava.
Mira le tirò. Liberarsi, questo significava. Ma la presenza si mosse prima che lei riuscisse nell'impresa: allungò le mani a cercare le spalle di Elettra, non per fermarla quanto per aggrapparsi ai suoi fulmini. Voleva impossessarsene. Le conficcò i pollici nei nervi.
Lo percepiva, il flusso di energia che percorreva il corpo minuto di Elettra. Immenso, eppure controllato. Non riuscì ad assorbirlo.
Allora la Tempesta implose. Elettra venne sbalzata via, e Mira si rialzò in piedi, ammaccata.
Vega giaceva dove l'aveva lasciato, immerso in una pozza di sangue. La lama che l'aveva trafitto non esisteva più, si era sciolta nell'istante in cui Altair aveva centrato Mira con il pugno. Altair, in piedi accanto a Vega, la guardia sollevata, gli occhi che saettavano da lui a Elettra.
Eccola lì, invece, Elettra. Si teneva sospesa in aria, sorretta dalle scariche elettriche che, dalle mani, si protendevano verso il terreno.
La Tempesta ruggì. La voleva morta.
Mira invece non lo sapeva, che cosa desiderava. Lo stomaco continuava a contorcersi, le viscere ad attorcigliarsi.
La Tempesta caricò. Elettra contrattaccò. Le saette delle due forze si cercarono, si intrecciarono, lottarono ed esplosero. Poi se ne sollevarono altre e altre ancora.
No, basta. Basta.
Mira supplicava la presenza dentro di lei. Non ce la faceva più. Quella la strinse di nuovo a sé, la imprigionò nelle sue braccia fatte di elettricità. Non esisteva un modo per impedirglielo, non esisteva un modo per allontanarla ancora. Per liberarsi.
L'onda di fulmini di Elettra la colpì in pieno petto. La Tempesta cadde con la schiena contro il terreno. Alcuni pezzi di asfalto rotto le si piantarono fra le scapole, e Mira le sentì tutte lì, conficcate fra i muscoli.
Si puntellò sui gomiti. Quando Elettra le lanciò addosso un gigantesco pezzo di metallo, lei schizzò via.
E ottenne un calcio nello stomaco. Altair, arrivata chissà quando. Fu allora, mentre boccheggiava per il dolore di ogni percossa, che Mira trovò la soluzione.
Doveva liberarsi. Ma Yunca gliel'aveva detto, non sarebbe mai stata capace di ottenere il controllo.
Altair ed Elettra però ce l'avevano.
Abbassò il mento, le spalle alzate a incassare gli ultimi colpi. Caricò, ed entrambe caddero a terra, Altair sotto di lei. Mira le spinse una mano sul petto, sulla pelle nuda lasciata scoperta dalla scollatura rotta.
La Tempesta le urlava nella testa, le fremeva contro i muscoli. La ignorò.
Riconobbe la frenesia dell'energia di Altair nel marasma ingarbugliato. Spinse verso quei fulmini pungenti.
Altair lasciò uscire un lamento dalle labbra serrate. Afferrò la mano di Mira, gli occhi spalancati. Le conficcò le unghie nella carne nel tentativo di liberarsi. Mira premette con più forza.
Sentì una parte della Tempesta scivolarle via e trovare la sua strada verso il petto di Altair. Poi sollevò il braccio e si rialzò, la bocca secca e la testa che vorticava.
«Che cazzo era?» le chiese Altair. Balzò in piedi.
Mira ansimava. La presenza dentro di lei aveva allentato la presa, di nuovo, ma sarebbe tornata presto. «Aiutami,» le mormorò, prima che la Tempesta la afferrasse di nuovo.
Un sibilo alle sue spalle la avvertì del pericolo. Si voltò, riparandosi dalla furia di Elettra.
«Ti avevo detto di liberarti,» Altair le diede una spallata nel superarla, «non di appiopparlo a noi.» Le strizzò l'occhio, e Mira osò sperare.
Sperò che avesse capito.
Altair si avvicinò a Elettra. Entrò nella sua barriera di fulmini con facilità, come se sapesse che l'altra non le avrebbe fatto del male. Perché perfino quando si lasciava andare, Elettra rimaneva sempre se stessa. Questo, capì, era il controllo.
Mira scoprì cosa fosse a darle tanto fastidio, di lei. Non era l'espressione sempre troppo calma, e di sicuro non era il fatto che le ricordasse una bambola di porcellana. Elettra era Elettra, in ogni istante e in ogni momento. Lei sceglieva chi essere, lei sceglieva come muoversi, non viveva in balia dei desideri del proprio corpo.
La Tempesta ancora cercava di avvilupparla. Si piegò in due e lanciò un urlo, nel tentativo di tenerla a bada. Continuava a risalirle ovunque e avanzava verso la sua essenza, verso ciò che la rendeva Mira.
Altair scambiò delle parole con Elettra. Il frastuono dei fulmini coprì la sua voce. Poi la spinse, senza un preavviso, e l'altra barcollò in avanti. Mira non perse l'occasione. Immaginò i propri fulmini intrappolati dentro una scatola; li vide scalciare, fremere, vide la presenza schiacciata all'interno e urlare. Chiuse il coperchio. Borbottavano, una frazione di secondo e si sarebbero liberati.
Se lo fece bastare.
Riprese il controllo di sé. Agguantò il braccio di Elettra, e la scatola si riaprì. Lasciò fluire l'energia sulle mani, la regalò a Elettra, che prese a tremare.
La presenza si sfilacciò, divisa dai fulmini che lasciavano la loro morsa su di lei.
Poi le ginocchia di Mira si scontrarono col suolo. Immerse le mani in una pozzanghera.
All'improvviso esisteva solo il fruscio del vento. Mira lo assaporò per la prima volta, un silenzio quasi assoluto, senza tuoni, senza la pioggia che picchiettava incessante sulla cupola. Fu straziante.
Il piagnucolio di Vega la ridestò. Elettra si precipitò da lui, gli premette entrambi i palmi sul petto. Il sangue le zampillava fra le dita. Un briciolo di vita ancora lo teneva cosciente.
«È... finita?» Mormorò soltanto, eppure nel silenzio il suo parve un grido.
«Sì. Sì, è finita.» Elettra si sforzava di trattenere le lacrime, le sostavano lì, agli angoli degli occhi. «Scusami.»
«Ely, prima eri...» Un colpo di tosse, uno sputo di sangue. «Eri magnifica.»
«Zitto, per favore. Non sprecare le energie.» Gli strinse la mano, se la portò alla guancia.
Vega adagiò la testa al pavimento, gli occhi si chiusero. Elettra rimase lì, a stringergli la mano, a carezzargli le dita, nel silenzio assoluto. Aspettava. Aspettava che si risvegliasse, o aspettava di rassegnarsi alla verità.
Mira sentì qualcosa di caldo contro le guance, delle gocce che formarono delle scie e colarono giù, nella pozzanghera sotto di lei. Le scarpe di Altair le comparvero davanti, inzaccherate. Distolse lo sguardo.
«Hai fatto proprio un casino.» Altair si abbassò per osservarla, le braccia poggiate sulle ginocchia. «Stai piangendo?»
Mira scosse la testa. «È la pioggia.»
«Ha smesso di piovere da un po'.» Altair le sfregò una mano contro la schiena. Le infuse un calore improvviso, piacevole. Quando si allontanò, Mira sollevò un braccio, come per afferrarla e impedirle di andarsene.
Provò a imitarla. Cadde con il naso nella pozzanghera due volte, prima di barcollare sulle gambe e andarle dietro. Si asciugò le guance con una manica.
Non sapeva come comportarsi. Non riconosceva la sensazione che le ostruiva la gola e le contraeva lo stomaco, perciò non sapeva come affrontarla. Anche se, forse, non avrebbe dovuto combatterla. Forse doveva solo lasciarla esistere.
Elettra le ostruì la strada, una mano insanguinata dipinta sul volto, i vestiti sporchi di rosso e di pioggia. Nel ritrovarsela davanti, Mira si accorse di non riuscire a respirare. Se ne stette in silenzio, ad annaspare aria come se temesse di annegare, finché una voce non risuonò vicina.
«Mi dispiace.» Era la sua.
«Ti dispiace?» Fu strano, ascoltare l'urlo di Elettra. Fino ad allora non aveva nemmeno saputo come immaginarsela arrabbiata. Eppure adesso eccola lì, dai capelli platinati tutti arruffati, la voce rotta e le vene del collo che pulsavano per la rabbia. «Ti dispiace? Sai che me ne faccio, delle tue scuse?»
Non si aspettava il pugno che seguì. Mira lo incassò in pieno viso e chiuse gli occhi. Non era nulla più che una misera spinta, niente in confronto alla vera forza di Elettra, eppure il volto le bruciava come se le avesse ustionato la pelle. Attese immobile che continuasse, perché soffrire sotto le sue percosse era l'unica cosa che sapeva fare, l'unico modo che aveva per offrirle le sue scuse.
Però non arrivò altro.
Elettra le agguantò la maglia e le poggiò la testa sulla spalla. Non proferì più parola. Mira si irrigidì, confusa. I singhiozzi di Elettra le graffiarono le orecchie, le sue lacrime le bagnarono la maglia.
Doveva consolarla? E come?
Un dito le picchiettò sulla spalla. Mira si voltò di scatto a cercare Altair, dischiuse le labbra per chiederle aiuto. Le richiuse subito dopo, seguendo la direzione indicata dal dito di Altair.
Vega diede un colpo di tosse.
«Ho una brutta notizia, il superuomo depresso è ancora vivo.»
Elettra sciolse la presa, corse da lui. Mira portò una mano lì, dove il suo calore ancora la scaldava; lì, dove le sue lacrime le appesantivano il carico che le opprimeva il petto.
Vega sputacchiò alcune gocce scarlatte. Poggiava su un fianco, premendosi il palmo contro la ferita, troppo testardo per morire. Gli occhi non mettevano a fuoco, vagavano senza una meta. Non gli rimaneva molto, rimandava solo l'inevitabile.
«Altair, chiama un'ambulanza,» disse Elettra.
Lei si svuotò le tasche. «Non ho il telefono.»
«Merda. Nemmeno io.»
Mira mandò giù un malloppo di saliva. Le si bloccò in gola, e deglutì ancora e ancora. Non ce l'aveva neanche lei un telefono. E anche se fosse stato il contrario, dubitava avrebbe resistito a tutti quei fulmini.
Reclinò la testa al cielo. Le nuvole si aprivano e i raggi del sole si affacciavano timidi. Potenti quanto i tuoni, eppure sceglievano di nutrire la vita, non la rabbia. Come Elettra.
Se ci fosse stata ancora la Tempesta, la rigenerazione di Vega sarebbe stata più veloce. Chissà, forse si sarebbe salvato.
Mira mosse un passo prima ancora di capire cosa stesse facendo. Rimasugli della presenza estranea le restavano avvinghiati ai fulmini dentro di sé.
Inginocchiata accanto a Elettra, cercò la mano di Vega. Le dita la ustionarono. Ironico quanto cocente potesse essere un uomo che stava per raffreddarsi per sempre. Eppure scottava, e l'energia dei fulmini gli si muoveva ancora sottopelle, pigra ma testarda.
Mira si concentrò su quella forza, così come aveva fatto con Yunca, Altair ed Elettra. Vega condivideva già una parte della rabbia della Tempesta, tuttavia lui custodiva anche qualcos'altro: una traccia di gentilezza che contrastava tutta quell'ira.
Mira protese un braccio immaginario verso la sorgente dei propri fulmini, tese la mano alla presenza. Si ritirò non appena le saette la attaccarono. Strinse i denti, mentre Vega si pronunciava in un nuovo lamento ed Elettra gli sussurrava qualcosa.
Poteva farcela. Doveva farcela.
Riprovò un'altra volta. Prendimi, sussurrò alla presenza, e si lasciò invadere di nuovo dalla Tempesta. Ne udì la voce rabbiosa. Allontanò le dita da quelle di Vega, di un paio di centimetri.
No.
Era il momento di liberarsi.
Gli strinse di nuovo la mano, così forte che rischiò di rompergli le ossa. L'energia rabbiosa la lasciò di colpo, in un grido da parte della presenza, sfilacciata, distrutta ormai.
La ferita di Vega si richiuse, la carne si rimarginò veloce mentre le scariche lo inglobavano. Mira non lo lasciò andare nemmeno allora, perché una vocina nella testa le ripeteva che, se l'avesse fatto, si sarebbe persa di nuovo. Perciò rimase aggrappata a un Vega rantolante; un'altra mano si aggiunse, più piccola, sporca di sangue ancora fresco. Elettra le sorrise fra le lacrime.
Un peso le si appollaiò sulla spalla. Altair, con il suo gomito. «Mi sa che non ci riesco a liberarmi di lui, eh.»
Vega rise, ma un rantolo di tosse lo interruppe. «Non è mica così facile.»
Elettra gli tastò il petto, nel punto in cui la carne si era richiusa. «Stai bene,» mormorò.
«Ci avevo sperato,» disse invece Altair.
Mira sentì le guance tirarle. Se ne accorse soltanto dopo, quando Altair le ammiccò, di star sorridendo.
Note:
Ed eccoci qui. La battaglia è finita, e spero vi siano piaciuti questi ultimi due capitoli. Io ho adorato scriverli, un'esperienza davvero catartica per me. Ma la storia in realtà ancora non è finita, perché manca l'epilogo...
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