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Capitolo 38

Che palle la lavatrice rotta. Il bagno era allagato. Altair si grattava la nuca, uno sbuffo le usciva lento dalle labbra, come lo scarico di un treno in partenza. L'acqua le inzuppava le suole, e anche solo sollevando il piede si trovava un'impronta di sporco e schifezza nera spiaccicata sul pavimento.

La lavatrice ancora girava. Nell'oblò, i panni vorticavano con una certa pigrizia. Il rumore che faceva, però, era infernale, sembrava la turbina di un elicottero. Altair la raggiunse fra una bestemmia e l'altra. Premette il tasto per spegnerla, ma quella si limitò a lampeggiare di rosso e far finta di niente. La prendeva per il culo.

«Figlia di puttana.» Altair piantò un pugno sulla parte superiore della lavatrice. Quella sobbalzò, ma continuò a lavare e spargere acqua. Colpì più forte, e ottenne un lamento cigolante. Nulla di più.

Si allontanò per tastare contro la parete, in un punto nascosto dietro un inutile mobile di plastica che Evelyn le aveva regalato qualche mese prima e che Altair utilizzava per tenere la carta igienica. Le dita strusciarono sul muro umidiccio fino a trovare l'interruttore; lo premette, e il giro infinito della lavatrice rallentò. Quando si arrestò del tutto, il lago ai suoi piedi smise di ingrandirsi.

Merda. Ci mancava solo questa. Non aveva nessuna voglia di perdere tempo nella lavanderia.

Tirò un calcio alla lavatrice e uscì dal bagno. Sparse un paio di impronte bagnate accanto al letto. Sempre peggio. Doveva togliersi le scarpe, o le sarebbe toccato pure pulire il pavimento.

Fece appena in tempo a sfilare un tallone, spingendo con la punta dell'altro piede, che la porta d'ingresso sussultò. Altair premette con forza la suola contro il pavimento.

Ci fu un botto. I cardini cigolarono. Poi cedettero e la porta di casa esplose in avanti. Superò il tavolo e le schizzò addosso; Altair scartò di lato, e la porta si schiantò contro la finestra alle sue spalle. In un clangore, il vetro si infranse. Schegge di finto legno volarono sul letto e ai suoi piedi, pezzi di vetro si conficcarono nello schermo del televisore, di fronte al materasso.

Altair strabuzzò gli occhi. Che cazzo succedeva? Era il suo compleanno? Le labbra le si tesero verso l'alto e le uscì uno sbuffo divertito. «Mi prendete per il culo?»

Sulla soglia di casa, oltre il misero angolino che Altair chiamava cucina, comparve una donna. Fletteva le dita, nascoste dietro un paio di guanti metallici. I capelli corti le si appiattivano sulla testa. Qualcosa, nella sua espressione da rottweiler incazzato, le parve familiare.

«Altair Almond, ti dichiaro in arresto.» La gorilla travestita da donna sbatté il piede contro il pavimento. Gli stivali che indossava, di metallo, brutti quanto i guanti di merda che aveva alle mani, crearono una ragnatela di crepe nelle mattonelle.

Altair le puntò le dita contro e mimò uno sparo. «Provaci, stronza.»

Non se lo fece ripetere due volte. La donna schiantò un pugno in aria. L'onda d'urto si scagliò in avanti; Altair si buttò a terra e scivolò verso il tavolo. L'aria sopra di lei fischiò. L'onda d'urto la sfiorò appena, intrappolando un bottone della sua maglietta e strappandolo via.

Altair si risollevò in un balzo. Afferrò le gambe del tavolo e lo rovesciò di fronte a sé, a mo' di scudo. Caricò contro la donna, mentre quella lanciava un nuovo pugno.

Il colpo distrusse la superficie del tavolo. Le schegge le vorticarono davanti agli occhi. Altair però non si fermò.

Si buttò con la spalla contro la donna. La spinse fuori dall'appartamento, nel corridoio. La sentì imprecare, e sorrise. Poi la sbatté contro la ringhiera delle scale; la teneva per i baveri della divisa, la testa sospesa nel vuoto.

Negli occhi della donna infuriava una fiamma. Altair strinse con più forza la presa sulla sua giacca. «Bei guanti, li hai presi in omaggio con la tua faccia da cazzo?»

L'altra grugnì. «Aspetta di vedere gli stivali.»

Un piede le si conficcò nello stomaco. Altair abbassò appena lo sguardo. Una pressione si propagava dalla suola dello stivale, le comprimeva la pancia; spingeva e spingeva, come se volesse bucare la carne e gli organi e passare all'altro lato.

Poi la donna spinse verso l'alto.

Altair venne sbalzata via. Lasciò la presa sulla giacca dell'altra e volò oltre la sua testa, verso il vuoto al di là della ringhiera.

I fulmini le sprizzarono sulla pelle. Girò su se stessa e atterrò in punta di piedi un paio di piani più giù, in equilibrio sul corrimano.

Un ragazzino uscì dalla porta di casa proprio allora. Gli occhietti scuri e allampanati – sembrava uno che si era appena fatto una canna – la incontrarono. Si strizzarono, le pupille illuminate dal bagliore dei fulmini di Altair. «Ma che...»

Altair gli fece un cenno con le dita. «Rientra, verginello, se non vuoi ritrovarti un gradino fra i denti.»

Ed eccola che arrivava. Un'onda d'urto si abbatté contro il corrimano. Altair scivolò via – il ragazzino scomparve di nuovo dentro casa, coperto da una nube di pezzi di gradini e intonaco.

Slittava sulla ringhiera, trasportata dal flusso dei fulmini che le scoppiettavano sotto le suole. Una serie di botti la seguiva. Altair alzò la testa a vedere la poliziotta balzare da un piano all'altro con la rabbia di un orango, gli stivali che creavano solchi sotto di lei a ogni atterraggio.

Ostinata, la stronza.

Altair raggiunse il pian terreno e si schiantò contro la porta d'ingresso. Corse fuori, sul marciapiede pieno di crepe e sotto la luce intermittente di un lampione dal palo piegato in avanti.

Un tuono scosse la cupola. La luce la accecò per un istante; il successivo, a irritarle gli occhi furono gli scintillii delle canne di pistole puntate. Altair batté le palpebre un paio di volte.

Merda. L'avevano accerchiata.

Gli spari risuonarono sulla strada. I proiettili si incastrarono nella tela di fulmini sollevati di Altair, uno dopo l'altro. Arrivarono in una raffica infinita. Da ogni lato.

«Che cazzo è, la caccia alla stronza?»

Le macchine della polizia costeggiavano la strada. Bloccavano ogni possibilità di fuga. Ci tenevano a fare le cose per bene, le scartine.

Altair scaraventò indietro i proiettili. Quelli si schiantarono ovunque, in una pioggia caotica. I poliziotti rintanarono le teste dietro le vetture, per evitare di venirne colpiti.

Poi una mano gigante le piombò sulla schiena: la spinse con la forza di un camion in corsa, lacerandole il retro della maglietta. Le si aprì uno squarcio sulla schiena. I fulmini si concentrarono in quel punto, le mandarono delle scariche pruriginose, mentre lei atterrava con le mani sul bordo del marciapiede.

Le si squarciarono anche i palmi. Lasciò chiazze confuse di sangue sul pavimento.

Rialzatasi in piedi, Altair si ritrovò faccia a faccia con le pistole puntate dei poliziotti. Alle sue spalle, gli stivali della donna orango producevano dei tonfi a ogni passo.

«Arrenditi,» grugnì la donna. «Sei circondata.»

Altair mostrò i palmi. Si voltò, lenta, nella sua direzione. «Tutte queste scartine sono qui per me? Cos'è, ho vinto il montepremi degli sfigati?»

«Hai vinto il premio che ti spetta, schifosa ibrida.» Sputò quella parola con la rabbia di un mastino, il volto paonazzo.

In un'alzata di sopracciglia, Altair mosse un passo verso di lei. «Io sarò pure schifosa, ma almeno non me ne vado in giro a grugnire come un maiale con la rabbia.»

Non un ottimo modo per tenerla buona, forse, ma l'espressione di scazzo sul volto della donna fu troppo divertente. Così Altair se la rise, mentre l'altra faceva scattare uno dei suoi pugni sonici.

Un salto e Altair evitò l'onda d'urto. Una delle macchine dietro di lei venne lanciata all'altro capo della strada; scattò l'allarme, in una litania chiassosa e un lampeggiare di luci rosse. Gli agenti spararono una raffica di colpi.

Un paio di proiettili le sfiorarono le guance, prima che potesse sollevare i fulmini per proteggersi. Un rivolo di sangue le scese lungo lo zigomo. Se lo ripulì con la manica – tanto ormai la maglia era già andata a puttane.

La situazione faceva schifo. Una vera merda. Perché se Altair sprecava energie a evitare di finire crivellata dai colpi di pistola, non poteva combattere in modo decente. Il che significava non poter fracassare la faccia da cazzo della poliziotta armata di gadget da strapazzo.

Uno scoppio risucchiò l'attenzione dei presenti.

La testa della poliziotta scattò, lo sguardo posato sulla strada, lì dove una macchina delle forze dell'ordine giaceva su un fianco. Le fiamme ne lambivano un lato, si protendevano dal finestrino rotto verso l'esterno. Gli agenti attorno si sparpagliarono, esagitati. Puntavano le armi contro una nuova figura.

Imponente, con uno scudo fatto di fulmini a proteggergli un braccio, che emetteva un bagliore nella penombra.

Altair sbuffò. Il superuomo depresso. «Come entrata in scena era veramente una merda,» gli gridò.

Vega si nascose dietro lo scudo; le sue saette lo protessero dalla crivellata di colpi. «Chi ti dice che è finita qui?»

Altair inarcò il sopracciglio, le labbra tirate in un sorriso obliquo. Poco distante, la donna urlò qualcosa, un «Tu!» oltraggiato. Tirò appena indietro il braccio per caricare l'ennesimo pugno, ma il contraccolpo non arrivò mai.

Un'altra figura le piombò addosso. Un manto di capelli biondi e fulmini coprì la visuale per una manciata di secondi, poi la poliziotta indietreggiò. Mira fece altrettanto, avvolta in una tela di saette crepitanti. Affiancò Altair, mandandole una scia di profumo di Tempesta che la elettrizzò.

«Non mi servivano i babysitter, me la cavo da sola.»

Una crepa nell'espressione di assoluta serietà di Mira. Voltò la testa nella sua direzione, e la bocca tremava, come se tentasse in tutti i modi di trattenere un sorriso. «Non sono qui per salvare te

Altair picchiò il pavimento con la punta del piede. «Ah, no?»

«Ho sempre desiderato farle scoppiare la faccia.» Mira alzò il mento a indicare la poliziotta di fronte a lei, che la fissava con gli occhi spalancati.

«Lo sapevo!» urlò quella. «Lo sapevo che eri una di loro. Quei due cretini continuavano a dire di no, ma cazzo, quanto lo sapevo

Il rumore degli spari copriva le sue parole. Vega si difendeva bene: al centro del gruppo di agenti, parava i proiettili e si lanciava all'attacco, schiantando lo scudo contro le schiene degli avversari. Di tanto in tanto saliva il grido di un poliziotto, ma per la maggior parte cadevano privi di sensi senza emettere più di un paio di gemiti, inghiottiti nel frastuono della battaglia.

Mira piegò il ginocchio. Un movimento minimo, quasi impercettibile, come se si preparasse a scattare in avanti. «Sta' zitta, Alex.»

«Stronza.»

Divorarono le distanze. Un diretto da parte di Alex, che Mira schivò con facilità; l'onda d'urto le sollevò i capelli e serpeggiò oltre, fino a colpire un lampione e sradicarlo dalla strada. Mira piantò il palmo sul mento dell'altra. I fulmini uscirono in uno scoppio. Arrivò un urlo, poi una nuova folata d'aria sbalzò via Mira.

Un rigagnolo di sangue le usciva dalle labbra di Alex, e un'intera spruzzata cremisi si sparpagliò a terra quando tossì. Sollevò il piede, pronta a scagliare un calcio.

Altair cedette alla Tempesta. I fulmini le avvilupparono le gambe, la sostennero mentre scattava in avanti. Piantò la suola della scarpa sullo stomaco di Alex e spinse con tutta la propria forza. L'altra piombò contro il lampione già piegato, che in un cigolio le crollò addosso.

Mira le si avvicinò, sbuffando.

«Si può sapere che cazzo di problema ha, quella?» le chiese Altair. «Il fidanzato le ha messo le corna con un figlio della Tempesta?»

Questa volta ottenne un mezzo sorriso. Durò meno di un secondo. «Lascia perdere.»

Vega comparve al loro fianco, un fascio di saette a circondargli l'avambraccio. «Se avete finito di divertirvi, direi che è il momento di filarcela. Hanno chiamato i rinforzi.»

«Drake,» mormorò Mira.

Lui annuì. «E poi dobbiamo ancora trovare Ely.»

Altair si passò una mano fra i capelli, ridotti a un groviglio selvaggio. Le dita le si incastrarono in un nodo. Tirò fino a scioglierlo. «La ghiacciolina è nella merda?»

«Lo siamo tutti,» le rispose Vega. Non aveva tutti i torti.

Mira si preoccupò di togliere di mezzo le macchine che ostruivano la strada. Sprigionò un'ondata di fulmini. Li fece esplodere tutt'attorno a lei, e le auto saltarono in aria. Gli agenti ancora coscienti nelle vicinanze si allontanarono di corsa; rimasero a guardare impotenti mentre il terzetto correva via.

Vega si arrestò dopo un centinaio di metri. Aprì un tombino e fece cenno alle altre di entrare. Mira fece una smorfia, ma obbedì e saltò dentro. Altair la seguì dopo una scrollata di spalle. Vega scese per ultimo, richiudendo il coperchio.

Le fogne puzzavano di merda e umidità. Il torrentello di acqua putrida procedeva su un lato, in un gorgoglio costante. Dal fondo spuntavano cumuli di rifiuti e catrame: piramidi di ogni dimensione che decoravano il ruscello di schifo.

Altair scacciò l'odore con la mano. «Cazzo, mi rimarrà la puzza addosso per un'eternità.»

«Lamentati meno e cammina di più.» Vega procedeva come se nulla fosse, le dita protese a sfiorare i tubi arrugginiti che costeggiavano la parete.

«Come fai a sapere qual è la direzione giusta?» gli chiese Mira. Gli camminava dietro, a qualche passo di distanza, con le mani in tasca. I fulmini non la illuminavano più, li aveva confinati da qualche parte dentro di lei. Altair però li sentiva ancora urlare: volevano sfogarsi, volevano lottare.

Vega rallentò un poco. «Conosco le strade.»

Mira si arrestò e voltò il busto a cercare Altair. Il buio ne inghiottiva l'intera figura, ne scuriva i colori. Perfino il biondo dei capelli appariva smorto, in quell'ambiente. Una domanda inespressa sostava nell'azzurro dei suoi occhi.

Altair le batté una pacca sulla spalla. «Non guardare me, non lo sapevo che il superuomo fosse un topo di fogna, nella vita precedente.»

L'altra la fissò, le labbra dischiuse, ma non replicò.

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