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Capitolo 31

La svegliò il suono del telefono. La mano scivolò da sotto il cuscino e picchiò il comodino alla ricerca del maledetto cellulare. Lo sfiorò appena, e quello cadde a terra con un tonfo. Non smise di suonare, però.

In un grugnito, Mira sollevò la testa. Le lenzuola la cingevano fino alla vita. La fronte era appiccicaticcia di sudore. Qualsiasi cosa stesse sognando non la ricordava, ma il modo in cui fulmini si combattevano a vicenda, usando il suo petto come campo di battaglia, la diceva lunga.

Affacciò la faccia dal materasso e osservò il telefono vibrare contro le mattonelle bianche e anonime. Contò quattro battiti di palpebre, poi smise di squillare. Soltanto allora scansò le coperte e si mise a sedere.

Chi cazzo la chiamava a quell'ora?

Raccattò il cellulare e controllò l'orario: l'una e mezza di notte. Fra le chiamate perse scoprì che ad averla cercata era Morgan. Suo fratello maggiore. Arcuò appena le sopracciglia, sorpresa. Le ultime persone che si aspettava di sentire, specie in piena notte, erano i membri della sua famiglia. Ci rifletté a lungo, con la punta del naso illuminata nel buio dalla luce del display.

Da quanto tempo non sentiva le loro voci? L'ultima volta che aveva incrociato i fratelli per strada, Mira si era nascosta dietro un gruppo di adolescenti di passaggio. Non si era mai voltata a controllare che l'avessero notata, se n'era andata e basta.

Rimase imbambolata per minuti interi, ad attendere chissà che cosa. Forse un'altra chiamata. Forse solo che lo schermo si spegnesse e la liberasse dalla stato ipnotico in cui era caduta.

Cercò fra i messaggi. Magari Morgan le aveva scritto per dare spiegazioni.

Niente.

Solo le solite pubblicità del gestore telefonico. E nient'altro.

Affondò il palmo sul materasso, spinse fino a sentire i muscoli dell'avambraccio tirarle. Ripensò a Morgan, all'ultimo incontro effettivo in cui lui le aveva presentato il fidanzato, un tipo con una cresta arancione e il cranio tatuato. Mira l'aveva odiato dal primo istante. Morgan però rideva a ogni battuta idiota – non che ci fosse nulla di strano, Morgan amava le battute semplici e stupide – e pendeva dalle sue labbra.

Si sarebbero sposati, Mira lo sapeva. Magari per quello le telefonava, per invitarla al matrimonio. I fulmini si avvinghiarono l'uno all'altro e le risalirono su per la gola. Impossibile. Specie a quell'ora di notte. Doveva esserci un altro motivo.

Forse era successo qualcosa a Mitch? Il fratello più piccolo era sempre stato un combina guai.

Sbuffando, Mira riaccese lo schermo e cercò il numero di Morgan. Scrutò a lungo le cifre, se le ripeté nella testa, come se volesse memorizzarle. Il pollice tremava a pochi centimetri dalla cornetta verde. Cosa gli avrebbe detto, se lui avesse risposto?

Cosa avrebbe fatto? I fulmini le sarebbero esplosi nello stomaco?

Poi il dito le scivolò. Pigiò sulla cornetta, e la chiamata partì in un bip assordante. Mira deglutì, ma portò il telefono all'orecchio.

Tu tu.

Tu tu.

Nessuna risposta. Partì la segreteria, una voce registrata con la stessa inflessione robotica della sua vecchia insegnante di matematica.

Il sospiro le venne fuori in un solo soffio. Il busto si rilassò, le spalle si abbassarono. I muscoli del braccio affondato nel materasso le pulsavano. Si mosse lenta, in un cigolio crepitante nel silenzio, come se, in fondo, fosse lei la creatura robotica. «Testa di cazzo.»

Si rimise a letto, a pancia in su, le mani incrociate sullo stomaco, con i fulmini ancora crepitanti dentro di lei. Un fascio di luce viola si estendeva sul soffitto. Proveniva dalla finestra. Aveva lasciato le tapparelle alzate, odiava restare al buio, le sembrava di essere rinchiusa in una bara. Adocchiava spesso il cellulare, cercava il bagliore sul comodino.

Qualsiasi cosa fosse accaduta, Morgan non la richiamò.

Mira si rigirò ancora per una decina di minuti, poi preferì alzarsi. Infilò i pantaloni, una maglietta bianca e una felpa dalla zip rotta – l'aveva riaggiustata con una graffetta, non certo uno spettacolo, ma almeno era funzionale. Indossate anche le scarpe, tese la mano per prendere il telefono sul comodino.

Si bloccò a mezz'aria. Le dita si chiusero su loro stesse, e lei ritirò il braccio all'ultimo. Il cellulare la osservò uscire, in perfetto silenzio; poi Mira chiuse la porta della camera, liberandosi del suo sguardo.

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Mira non era sicura di dove fosse. Si era ritrovata in piazza, davanti alla centrale, dove alcune luci erano ancora accese. Aveva immaginato Norton curvo sul proprio computer, a cercare chissà quali collegamenti fra le informazioni frammentate lasciate da Elettra.

Si era allontanata subito, imboccando una serie di vicoli senza una direzione precisa. Si teneva distante dalle voci delle persone. Il solo pensiero di incontrare le facce sorridenti degli scemi che giravano di notte le scombussolava i fulmini nello stomaco.

Riconobbe un bidone rotto e il liquido disgustoso sparso sul pavimento. Qualcuno aveva cercato di pulirlo, con l'unico risultato di spalmarlo ovunque. Una scintilla le percorse le dita al ricordo dell'incontro amichevole con Altair, dei suoi fulmini dal richiamo assordante e pungente.

Continuò a camminare ancora. Finché un urlo non squarciò il silenzio.

Una donna.

Mira la trovò non molto distante, circondata da un branco di uomini con il classico stile dei teppisti di strada. Uno le sventolava il palmo davanti agli occhi; i fulmini gli guizzavano sulla pelle, una fonte di luce nella penombra del vicolo. Portava un taglio ridicolo, di un colore verde brillante.

Sferrò un manrovescio, ma la donna indietreggiò prima che la colpisse. Sgusciò via dalla presa degli altri, che la lasciarono fare in un coro di risatine. Corse via, verso Mira, e le sbatté addosso. Mira la tenne per un braccio per impedirle di cadere.

L'altra la cercò con lo sguardo. I capelli le si erano appiccicati alla faccia e le coprivano metà volto; l'altra guancia era solcata dalle lacrime. Dei segni rossi le ricalcavano sulla pelle la forma di cinque dita.

Si riconobbero nello stesso momento.

«Mira!» Keira le si aggrappò alla felpa. Dietro di lei, i teppisti si avvicinavano.

«Che ci fai qui?» Mille domande le vorticavano nella testa; Mira scelse la prima che riuscì ad afferrare.

«Uh, guarda, è arrivata una stupida bionda al salvataggio.» Il teppista dalla chioma verde capeggiava il resto del gruppo. Teneva il palmo davanti a sé, si beava dei fulmini che gli scorrevano lungo il polso. Ma non diffondeva l'odore della Tempesta.

«Ecco, io...» Keira si acciaccò la lingua. Non terminò la frase, abbassò la testa e la scosse appena.

Mira la spinse dietro di sé. Non le importava come o perché Keira fosse lì, né cosa avesse fatto per attirare l'ira di un branco di teppistelli da quattro soldi, non per il momento. Inclinò il capo. «Questa stupida bionda è un'agente di polizia.»

Una risata scosse l'ibrido dall'interno, lo piegò in avanti come se il suo corpo non riuscisse a reggere tanto divertimento. Gli altri lo imitarono. «Certo, come no. E io sono una ballerina volante.»

Mira sbuffò, le labbra tirate in un sorriso di scherno. «Posso fartici diventare, se proprio ci tieni.»

Partirono i suoi scagnozzi per primi. Le si lanciarono addosso uno dopo l'altro, i pugni tirati indietro nel modo più maldestro possibile di caricare il colpo. Uno con il tatuaggio di un teschio sulla tempia le sferrò addosso il suo diretto; Mira scartò di lato, il polso sollevato a deviare il pugno. Gli strinse il braccio e glielo torse dietro la schiena. Un calcio dietro il ginocchio, e il teppista finì a terra, urlando pietà.

L'aria le fischiò nell'orecchio. Mira chinò il busto. Una lama tagliò lo spazio sulla sua testa. Lei spinse l'uomo in ginocchio in avanti, poi caricò sulle gambe di quello armato. Gli artigliò le cosce. Finirono entrambi a terra, lei sopra di lui. Un paio di pugni sulla tempia e lui perse i sensi.

Quando Mira si rialzò, gli altri indietreggiarono. Tutti, tranne l'ibrido.

Una sfera lucente gli crepitava sul palmo. Saette e fulmini si intersecavano fra loro al suo interno, tastavano le estremità della sfera come vermi rinchiusi in un barattolo di vetro. Spandeva onde di energia continue; scandagliava l'area, la riempiva con la sua forza pulsante.

Poi l'ibrido la scagliò in avanti. Mira spostò il busto. La sfera di fulmini le crepitò accanto all'orecchio e andò a scontrarsi con il muro alle sue spalle. Esplose in uno scoppio di lampi.

Una tecnica interessante. Così diversa dai modi di Altair. Mira osservò la forza della Tempesta scoppiettare contro il muro, avvolgere il tubo di scarico arrugginito e spezzato di una casa diroccata, e si chiese che sensazione si provasse ad assorbire una bomba del genere. Si chiese se fosse possibile.

L'ibrido ne lanciò un'altra. Keira urlò un avvertimento. Mira spiegò le dita di fronte a sé.

La sfera di elettricità le investì il palmo, ma non scoppiò, non questa volta. I fulmini di cui era composta districarono la loro rete, si dissiparono uno dopo l'altro. Mira tenne la mascella serrata, mentre le palpebre le fremevano: li sentiva. Le entravano nelle vene, le risalivano il braccio e le finivano nel cuore, nello stomaco, insieme a quelle che lasciava sopite dentro di sé.

«Ma che cazzo?» Il ghigno dell'ibrido si frantumò.

Mira lasciò che la Tempesta uscisse. Che le avvolgesse i pugni, le gambe e il corpo intero. Quando scattò in avanti, l'ibrido tentò di fuggire, ma lei gli conficcò il gomito nel petto e lo spinse contro il muro.

Non si avvicinava nemmeno alla sensazione provata quel giorno, quando aveva assorbito la creatura della Tempesta. L'euforia però prese il controllo. Girò appena il collo, in direzione di Keira, mentre gli altri teppisti inciampavano nel tentativo di fuggire. «Allontanati,» le ordinò.

Keira non fece domande. Barcollò indietro, prima solo di una manciata di passi, poi corse oltre l'angolo.

«Che... che vuoi fare?» L'ibrido le sparse addosso la puzza di alcol nel suo alito.

Mira lo fece cadere a terra. Non gli rispose. Un rifiuto come lui non meritava una spiegazione.

I fulmini esplosero da soli. Tutt'attorno a lei, si spansero come serpenti in cerca delle prede. Inglobarono l'ibrido e i suoi scagnozzi. Li carbonizzarono. Mira si godette il flusso di energia che le scorreva dentro finché non terminò. E allora allungò la mano a reggersi contro il muro, perché le gambe non la sostenevano più.

Forzò la saliva a riempirle la bocca secca. Ne aveva poca, così come di fulmini non le restava altro che una singola scintilla lucente sul fondo dello stomaco.

Aveva esagerato. Un'altra volta.

Serrò gli occhi e piantò un pugno contro il muro. L'avvertimento di Norton le risuonò nelle orecchie; le istruzioni di Elettra le raffreddavano il petto.

Ormai era tardi per piangersi addosso. Così si ripeté, mentre si allontanava dai cadaveri per raggiungere una Keira tremante non molto distante. Si teneva a un lampione. La luce la colpiva dall'alto, un raggio divino che, tuttavia, si spegneva e riaccendeva a intermittenza. Ai suoi piedi, un liquido giallastro sporcava la strada.

Con le mani nelle tasche, Mira le si accostò. «Cosa volevano da te?»

Keira scosse il capo con una frenesia febbrile. «Li hai uccisi?» Le scoccò un'occhiata affilata, che le penetrò nel petto, schiacciando quell'ultimo barlume di Tempesta che le restava. Durò una frazione di secondo; quello successivo, Keira poggiò la fronte contro il lampione e rise. Rise in un modo isterico, doloroso da ascoltare. «Magari non ci sei nemmeno, sei solo una mia allucinazione e sono stata io a ucciderli.»

«Non sono un'allucinazione.» Mira tirò un sospiro. «E tu sei fatta.»

«No,» scattò l'altra. Ma abbassò subito la testa. «Forse. Un po'.»

Mira lasciò cadere l'argomento. Dopotutto, quello che faceva o non faceva Keira non la riguardava. Se voleva ammazzarsi le cellule cerebrali che le restavano, non poteva certo impedirglielo. Così la prese per il braccio e la tirò via con sé, il più lontano possibile dai cadaveri carbonizzati.

Keira non aveva un buon equilibrio. Trascinava i piedi e si sbilanciava spesso da un lato. Allo squillo di un telefono però perse del tutto la capacità di reggersi in piedi: estrasse il cellulare dalla tasca, lesse qualcosa sullo schermo e le gambe le cedettero. Lei crollò sulle ginocchia; il telefono volò via, scivolò fino a un tombino. Si fermò in bilico, con la minaccia di cadere giù.

«Sono patetica,» mormorò Keira. «Sono una creatura così patetica.»

Mira si inginocchiò accanto al tombino. Raccolse il cellulare e, per un attimo, il nome di Morgan le lampeggiò davanti agli occhi. Svanì subito dopo, al suo posto lo schermo nero. Era solo un'allucinazione, eppure le si contrasse lo stomaco.

Keira continuava a farneticare. Delle lacrime le solcavano le guance. «È solo colpa mia, sono una stupida. Sono una stupida.»

Fra le chiamate perse, Mira trovò una lunga fila composta da un solo nome: Paula. «Tua madre.»

«Ci ho provato a scappare da lei. Ci provo e ci riprovo, ma lei è sempre qui.» Keira era un fagotto ripiegato su se stesso. Una creatura piena di ferite. «E io vorrei tanto smettere di...» Ingoiò la parola. «Vorrei smettere. Invece non ci riesco, non ci riesco.»

Paula Green, la misteriosa madre di Keira McRaven, una dipendente della S.d. Che razza di donna era?

Mira strinse il cellulare fra le dita. Lo sentì scricchiolare e allentò la presa.

«È assurdo, sai?» In una mezza risata strozzata, Keira alzò lo sguardo. «Dopo tutto questo tempo, riesce ancora a influenzarmi così. Ha ancora tutto il suo stupido potere.»

Mira faticò a staccare la lingua dal palato. Ci si era appiccicata e solo con tutta la forza di volontà la scollò. Raggiunse Keira per tenderle il telefono. «Non riesce a smettere di cercarti. Ha più bisogno lei di te che tu di lei. Per come la vedo io, il coltello dalla parte del manico ce l'hai tu.»

Pensò a Morgan, a Mitch, alla famiglia che non vedeva da quando era andata via di casa. Alla famiglia che non la cercava, che non l'aveva mai cercata. Alla famiglia che era sparita nel nulla. Pensò al bisogno di uscire, di scappare mentre aspettava una fottuta lucina lampeggiare, mentre aspettava un segno da parte di un fratello che non conosceva nemmeno.

Keira si asciugò le lacrime. Riprese il telefono e tirò su col naso. Non disse niente, ma il suo odioso sorriso tornò a illuminarle il volto. Mira le infilò il braccio sotto l'ascella e la sollevò di peso. «Ti prego, non dire niente a Eve.»

«Non ci parlo neanche morta con lei.»

E la risata di Keira le risvegliò la Tempesta. Il torpore delle scintille tornò a scaldarle lo stomaco. «Grazie. Per tutto.»

Note:

Questo capitolo praticamente era tutta un'altra cosa, prima, fatta molto male e senza neanche molto senso. Quindi, ho deciso di anticipare un po' di cose e lasciarmi qui la possibilità di mostrare una parte più vulnerabile di Mira, oltre a creare un qualche legame fra lei e Keira. Perché in effetti interagivano troppo poco nella versione originale.

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