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Capitolo 29

Le mani del dottor Keith erano piene di calli. I polpastrelli le pizzicavano il mento, per costringerla a mantenere la testa reclinata. Il fiato del dottore sapeva di uno strano miscuglio fra caramelle alla frutta e caffè. «Ecco, brava, rimani così.»

Elettra strinse la stoffa ruvida dei pantaloni in una morsa. Lui continuava a spingerla, e lo schienale della sedia le si era piantato a metà della schiena, un tubo di legno che le comprimeva la spina dorsale. Premette le labbra per reprimere un lamento, poi le stirò più che poté in quello che sperò ricordasse un sorriso.

Seguì un click. Il dottore le trasferì la mano dal mento alla palpebra. Le schiacciò le ciglia per tenergliela aperta, mentre spostava l'aria di fronte a lei in movimenti circolari. Non pareva molto competente. Si accorse solo dopo alcuni secondi di troppo che tenerle l'occhio spalancato non avesse alcun senso, così la lasciò andare.

Elettra rilassò i muscoli del viso in un sospiro. Il dottore spostò il braccio davanti all'altro occhio. Trasportò il tepore di una luce che non penetrava nel buio del mondo di Elettra da una pupilla all'altra.

Le si avvicinò ancora, e il calore del suo respiro le scaldò la punta del naso. «Allora, siete una coppia, giusto?»

Elettra rilasciò la presa sui pantaloni. Voltò di poco il capo, di riflesso, ma il dottor Keith le artigliò le guance con la sua presa da vecchio zio e la tenne ferma.

«Già.» La voce di Vega le arrivò dalle spalle, roca. Lui si schiarì la gola.

«Siete davvero un'accoppiata particolare, scommetto che qualsiasi fotografo adorerebbe lavorare al vostro matrimonio.»

Un grumo di saliva le scese di traverso lungo la gola. Elettra trattenne il bisogno di tossire. Impresa difficile, considerato il dito che le solleticava la trachea.

Il dottore non si accorse di nulla. «Voglio dire, siete un po' Yin e Yang, no? Sarebbe bello farvi un servizio fotografico, uscirebbe qualcosa di poetico, secondo me.» Si allontanò, portando con sé il calore della piccola torcia. Elettra si concesse di battere le palpebre.

«Io direi più qualcosa sullo stile della Bella e la Bestia.»

Elettra emise un verso strozzato. Ma poi scosse la testa.

Il dottor Keith non gli rispose, lasciò scivolare via l'argomento come niente fosse. «Da quanto tempo è che state insieme?» Era alla sua scrivania, produceva cigolii sommessi nell'aprire i cassetti.

«Due anni e qualcosa,» borbottò Elettra.

«Due anni, sei mesi e dieci giorni,» disse Vega. Ci era andata vicina.

«Quindi siete una coppia consolidata.» Una sedia strusciò sul pavimento. Il dottore ci piombò sopra con un tonfo. L'istante dopo, risucchiò qualcosa fra le labbra – Elettra arricciò il naso. Beveva da una tazza. Altro caffè, probabilmente.

La sedia di Vega scricchiolò sotto il suo peso. Spostava le gambe, o magari protendeva il busto. Lo immaginò distendersi contro lo schienale, le ginocchia larghe, e osservare il dottore come di solito guardava Altair: con un miscuglio di irritazione e divertimento. Quando parlò, non si rivolse a lui. «Mi hai ingannato per portarmi in terapia di coppia?»

Elettra nascose il sorriso dietro il pugno chiuso. «Beccata.»

Il dottor Keith impiegò qualche istante a comprendere la battuta, e forse non la capì mai. Rise per ultimo, in maniera chiassosa, forzata. Il sospiro di Vega arrivò subito dopo. «Prego, Nora, si accomodi qui, davanti la macchina che sembra uno strumento di tortura.» Sghignazzò da solo.

Elettra barcollò in piedi. I pantaloni le si sollevarono sulle caviglie, ma non si abbassò a riaggiustarli. Voltò il capo, immersa nel buio, in attesa che il dottore la scortasse. Fu Vega a prenderle il braccio, con il suo profumo di bagnoschiuma e deodorante, e condurla a un'altra sedia. Le infilò una mano nella tasca. Le lasciò qualcosa di piatto e rigido, poi la aiutò a sedersi.

Una tessera magnetica. Prima parte della missione compiuta.

Gli poggiò una mano sul petto, lì dove i muscoli erano sempre tesi. Ottimo lavoro, pensò, e sperò che in qualche modo il messaggio gli arrivasse.

«Appoggia pure il mento,» disse il dottore.

Elettra tastò un aggeggio di metallo di fronte a sé, prima di obbedire. Qualsiasi cosa fosse, il freddo del metallo le circondò il viso.

«Non sei nata così, vero?»

«No.»

«Ci vedevi, da piccola?»

«Sì. Fino ai vent'anni.»

«Capisco.» Non aggiunse altro, solo qualche mmmh, di tanto in tanto. Per lo meno aveva smesso con le chiacchiere di circostanza. Era un miglioramento.

Dall'alto arrivavano le note di una canzone pop vecchia di alcuni anni. Un cantante uomo, dal timbro dolce, pregava l'amata di non lasciarlo. Non le era mai piaciuta, eppure in quel momento la trasportò nel suo letto, a stringere la maglietta di Vega, il miagolio di Romeo in sottofondo. Si aggrappò a quell'immagine, al calore di Vega che le avvolgeva il petto.

Finché il dottor Keith non rovinò tutto. «Ho bisogno di un parere da donna.»

Un coltello squarciò la tela nella sua mente. Il quadro colmo di tranquillità le si sgretolò fra le mani. Si ritrovò capitombolata lì, in uno studio che odorava di disinfettante e guanti in lattice. Alzò appena le sopracciglia. «Non so quanto posso esserle utile.»

«Io e mia moglie facciamo vent'anni di matrimonio, fra una settimana.»

«Congratulazioni.»

Il dottor Keith risucchiò l'aria nelle narici. «Grazie. Il punto è che non so bene come comportarmi. Alle donne piacciono le cose pittoresche, no? A lei, Nora, piacerebbe ricevere un regalo in grande stile?»

Elettra ritirò il mento. «Un esempio?»

«Pensavo di pagare un gruppo di archi che la accogliessero a lavoro.»

Uomini e donne vestiti di tutto punto, armati di violini e violoncelli, che attiravano gli sguardi dei presenti come luci per le falene. Elettra si pensò al centro di quel gruppo, del tutto ignara di cosa volessero da lei. La musica la attraversava e poi scivolava via, saliva verso la cupola, mentre lei lanciava sorrisi imbarazzati in giro. Un ottimo modo per iniziare male la giornata.

I fulmini le si contorsero nelle viscere. «Ecco, non saprei. Non amo le cose pittoresche, non credo di essere un tipo molto romantico.»

«Davvero? Allora chi è il romanticone fra i due, eh?» Nella sua mente, il dottor Keith si trasformò in una Evelyn ammiccante.

«Nessuno,» rispose Vega. Elettra chiuse le palpebre; un sorriso le fece capolino sulle labbra.

Il resto della visita procedette in tranquillità. Il dottor Keith non fece altre domande – per fortuna – si concentrò sui racconti di sua moglie e di quando si erano conosciuti, il matrimonio, la nascita del figlio e le lamentele sulla suocera. Elettra e Vega ascoltarono in silenzio, concedendo un verso d'assenso ogni tanto, a turni alterni.

Alla sua scrivania, il dottore si agitava in un frusciare di fogli. Sollevava un'arietta fresca, una goduria in quell'ambiente chiuso. «Bene.» Ancora cassetti che si aprivano e chiudevano. «Sarò sincero, il motivo per cui ha perso la vista mi è ignoto.»

Elettra non si aspettava niente di diverso. Ogni dottore visitato in passato aveva catalogato il suo caso come un mistero dovuto a qualche malattia rara. E allora borbottavano nomi impronunciabili senza troppa convinzione.

In quel momento però si portò una mano sul cuore, la testa bassa. Vega, accanto a lei, allacciò le dita con le sue. «Perciò non ci si può fare nulla?»

Il silenzio che seguì parlò da sé. Eppure, il dottor Keith provò a riprendersi. Si schiarì la gola un paio di volte. «Non è detto. Dovremmo controllare a livello neurologico. Perché, in teoria, i tuoi occhi non hanno nulla che non vada.»

La Tempesta, ecco cos'aveva che non andava. Ma andava bene così. Elettra non sperava certo che un dottore qualsiasi della S.d. le risolvesse il problema. Una sua soluzione dopotutto la possedeva già.

Si morse il labbro, finse una tristezza provata anni addietro, durante le prime visite, quando ancora sperava in una risposta diversa. «E c'è qualche possibilità di scoprire la causa, con una visita neurologica?»

Un colpo di tosse. «Non saprei, è una possibilità.»

Vega gli venne in aiuto. «La ringraziamo per tutto.» La sedia grattò il pavimento, e il profumo di lui si sparse mentre si alzava. «Approfondiremo sicuramente la questione.»

«Sono io a ringraziarvi.» La tranquilla e allegra spensieratezza del dottore tornò a colorargli la voce. «Spero che troviate una soluzione.»

Salutò anche Elettra, poi lasciò che Vega la accompagnasse fuori. Nel corridoio, l'aria era meno viziata. In lontananza si alzava un brusio sommesso.

Si allontanarono dalla porta, verso sinistra. «È finita,» sospirò Vega. «Cominciavo a contemplare l'idea di buttarmi dalla finestra.»

«Andiamo, non è stato così male.» Ma Elettra terminò a stento la frase senza scoppiare a ridere.

«No, certo. Ci mancava che ci desse un voto finale.»

«Dubito sarebbe stato un voto alto.» Specialmente non dopo la storia della sorpresa a base di archi e sonatina romantica.

Il bicipite di Vega ebbe uno spasmo, sotto la sua mano. «Dici di no? Neanche una sufficienza per Yin e Yang?» La trasportò via, lontana dal brusio, dove il pavimento diventava morbido e la moquette attutiva i loro passi. «Piuttosto, sei sicura sia stata una buona idea? Ci siamo resi fin troppo facili da rintracciare.»

Entrare nell'edificio principale della S.d. senza farsi scoprire era un'impresa del tutto impossibile. Le finestre erano sbarrate e le entrate ben sorvegliate, giorno e notte. L'unica possibilità consisteva nel richiedere un appuntamento medico da uno degli specialisti che lavoravano lì.

A pensare il piano era stata Elettra, tuttavia Keira ed Evelyn avevano fornito informazioni precise sul come fosse fatto l'edificio. Entrambe da piccole andavano spesso a giocare per quei corridoi e, specie Evelyn, conosceva il posto a menadito.

«Era l'unica soluzione,» rispose Elettra. «La S.d. difficilmente darà informazioni alla polizia, scoperchierebbero cose che preferiscono tenere segrete. E poi non ti preoccupare, il dottor Keith ha una pessima memoria. Mi avrà visitata una quarantina di volte da piccola, mai che si ricordasse di me.»

«Se lo dici tu.» Non le sembrò convinto, ma andava bene così.

Attraversarono almeno un paio di svolte, prima che Vega si fermasse di fronte a una porta. Le ficcò due dita nella tasca dei pantaloni, estrasse la tessera magnetica del dottor Keith e la passò sul dispositivo appeso al muro. La porta si sbloccò all'istante.

La differenza fra il corridoio e quella stanza stava nel ronzio dei computer accesi. Una volta essersi chiuso dentro, Vega si rilassò quel tanto che bastava per permettere ai suoi fulmini di riemergere dall'oscurità. Non lo circondavano all'esterno, la sua era una luce proveniente dall'interno, che delineava la sua forma nel nulla in cui era immerso.

Si mise davanti agli schermi, a digitare sulle tastiere e a cliccare con il mouse alla ricerca di informazioni.

Elettra sollevò l'indice. Due serpenti di fulmini, intrecciati l'uno all'altro, le percorsero il dito fino all'unghia; si allungarono in avanti, attenti, in esplorazione, come le antenne vibranti di una formica. Sparsero la loro luce in giro, e lei distinse una fila di sedie accanto al muro. La plastica bianca le rimandava indietro il bagliore.

Ne prese una e la portò al centro della stanza, dove si sedette in attesa. Una telecamera si voltava, pigra, da una parte all'altra. Elettra mandò una scarica elettrica, abbastanza forte per mandarla in cortocircuito, non abbastanza da distruggerla. Quella si arrestò, ancora voltata verso sinistra. Per fortuna non li aveva ripresi.

Oltre uno schermo, Vega leggeva qualcosa con aria assorta. Un paio di occhiali – dalle lenti finte – gli ricadeva sulla punta del naso. Aveva tagliato i capelli, dopo tanto, e non gli coprivano più la fronte: era tornato a essere il Vega ordinato che aveva conosciuto due anni prima.

«Ti stanno bene, gli occhiali, ti danno l'aria dell'intellettuale.»

Lui sollevò la testa e batté le palpebre. «Tanto lo sai che è tutta apparenza.»

Elettra scosse la testa. «Il giorno in cui accetterai un complimento farò una festa.»

«Di quelle grandi? Con i palloncini, tante persone e una band?»

«Esatto.»

«Allora non lo accetterò mai.» Piombò di nuovo in un silenzio concentrato. Qualche minuto più tardi, sbuffò. «Hanno i dati di Altair, qui.»

Certo che li avevano. Nemmeno vedersi distruggere il laboratorio sotterraneo era bastato per convincerli a lasciare da parte delle informazioni succose. Perché fossero tanto fissati con i figli della Tempesta, questo Elettra non capiva.

Una fortuna che non si fossero permessi ancora di rivelare l'identità di Altair alla polizia. Avrebbe significato dover spiegare tutte le azioni illegali compiute, dopotutto, ed era un rischio che non avrebbero corso.

Elettra sporse il busto in avanti. «Altro di utile?»

«Mira Jenkins, ventisei anni, membro della squadra speciale della polizia. Figlia della Tempesta, con a fianco un punto interrogativo.» Vega fece una pausa. Elettra smise di respirare. «Come sanno di lei?»

«Keira ha ragione, deve essere stato un membro della sua squadra.» Altra spiegazione non c'era.

«Non sono le uniche. Ci sono anche i dati di Alex, anche se non è un'ibrida.»

«Alex?» Le ricordava qualcosa. Vega gliene parlava, a volte, dei compagni di squadra di Mira. Raccontava della seconda donna del gruppo, simpatica quanto una mazzata sui denti. Elettra era sicura di averla affrontata. «Che vogliono da lei?»

Vega cliccò un paio di volte. «Non lo so. Ci sono delle e-mail spedite a lei da parte di un dipendente.»

«Che dicono?»

«Sono domande specifiche. Su di te. Su di noi. Non ci capisco niente, questo deficiente non sa nemmeno mettere le virgole.» Batté il palmo contro la scrivania. Si passò il palmo sulla nuca, fra i capelli ormai radi. Diffondeva un chiarore intenso.

Elettra afferrò l'estremità della sedia. «Scarica tutto, forse Keira ci capirà qualcosa.»

«Metto tutto quello che trovo. C'è roba interessante sul passato dell'azienda.»

Ottimo. Sperava solo di non aver mandato a monte tutto quanto solo per raccattare quelle prove. Dischiuse le labbra per chiedergli più informazioni, ma si immobilizzò sul posto. Nel corridoio, oltre la porta chiusa, si avvicinavano delle voci. Sussurravano quasi, e comprenderne le parole era un'impresa del tutto impossibile.

Elettra scattò in piedi, l'indice sollevato. Vega distolse l'attenzione dallo schermo. «Arriva qualcuno.»

«Proprio adesso? Merda.» Lui si guardò intorno, ancora avvolto di una luce intensa nel buio che lo circondava.

Le voci divennero più chiare. Distinse il timbro basso di un uomo e quello di una donna. Erano proprio dietro la porta.

Vega la prese per un polso e la tirò a sé, dietro le scrivanie piene di computer. Si accucciarono lì, l'una stretta fra le braccia dell'altro. Il battito del cuore di lui le scandiva il passare dei secondi; andava troppo veloce. Elettra gli si aggrappò alla maglia.

La porta si aprì, e i passi risuonarono all'interno della stanza. «Te l'ho detto, faremo senza dubbio degli accertamenti,» diceva l'uomo.

A rispondere fu una voce che conosceva, ma a cui non riuscì ad attribuire un volto. Una voce di un rosso torbido, che parlò rabbiosa. «Mi avevate promesso che avreste fatto in fretta. Sono già passati dei giorni e ancora non ho risposte.»

I muscoli di Vega divennero una lastra di marmo rigido. Elettra sollevò il mento a cercare il suo viso, ma lui aveva fatto tornare i fulmini nei meandri dell'oscurità. Non vide nulla. Percepì solo il suo respiro solleticarle la nuca.

«Ti daremo la certezza al più presto,» rispose l'uomo. Pronunciava le parole in una litania biascicata.

«C'è una qualche possibilità che non lo sia davvero?»

«Qualcuna. Non era mai successo che qualcuno assorbisse una creatura della Tempesta.» Discutevano di Mira. «Potrebbe esserci riuscita perché è un'ibrida, così come potrebbe esserlo diventata in seguito. O magari c'è un'altra spiegazione. Tutto è possibile, dopotutto sono tante le cose che non comprendiamo della Tempesta.»

Nessuna risposta, solo un grugnito. Poi dei passi raggiunsero la scrivania – l'uomo, a giudicare dal peso – e si arrestarono dall'altro lato. Elettra trattenne il respiro. Vega la schiacciò contro il proprio petto. Una manciata di battiti del cuore di Vega, e una chitarra elettrica riempì le mura.

L'uomo rispose al telefono, sbuffò un paio di volte, borbottò «arrivo,» e tornò dalla donna. «Non ti preoccupare, ti farò sapere non appena avrò notizie, di qualsiasi tipo.» La accompagnò fuori, e le loro voci si dissolsero a poco a poco lungo il corridoio.

Vega allentò la stretta; Elettra gli rimase vicina ancora un po', per assicurarsi che non tornassero. «Quella era Alex?»

Silenzio. Poi lui inspirò. «Proprio lei.»



Note:

Io che sfrutto l'occasione per mostrare un po' il rapporto fra Elettra e Vega. Perché poverini, fin qui li ho un po' snobbati, anche se li amo XD Il resto non lo commento nemmeno, non si sa chi sta facendo più casini...

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