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Capitolo 16

Nell'aria aleggiava odore di disinfettante. Una nuvola di ricordi le offuscava la mente, portata da quell'esatto odore, lo stesso che da adolescente le era rimasto incastrato nelle narici per giorni, mesi, anni. Quando sua madre l'aveva costretta a pulire, troppo impegnata a fingersi sconvolta per darle una mano.

Keira si diede un pizzicotto sul polso per tornare alla realtà. Seduta su una sedia di acciaio, scomoda e fredda – il culo le sarebbe diventato quadrato, a furia di rimanere lì – si concentrò sulle proprie mani. Le tramavano, non coglievano nessun ordine di fermarsi; vivevano una vita a sé, ormai, non le appartenevano nemmeno. Le appoggiò sul tavolo. Un tavolo solido avrebbe posto fine al suo tremore, forse. Le manette emisero un tintinnio a contatto con la sua superficie.

Due agenti si intrufolarono all'interno, un uomo occhialuto e una donna. Metà della faccia di lei era gonfia e piena di lividi. Il braccio ingessato le penzolava dalla benda appesa al collo.

Keira raddrizzò la schiena e premette i palmi contro il tavolo. Ancora tremavano. Incurvò un lato della bocca all'insù. «Che è successo, agente? Serata no in discoteca?»

La poliziotta crollò sulla sedia davanti a lei. Soltanto un occhio le si apriva del tutto, l'altra palpebra le copriva metà della pupilla. Nonostante tutto, una scintilla assassina le caratterizzava lo sguardo – non letterale, però si chiese se fosse lei l'ibrida poliziotta di cui le avevano parlato.

Forse sperava di metterla a disagio, ma Keira si rilassò di fronte a tanto odio irrazionale. Dopotutto, se lo meritava.

«È colpa di una di tuoi amichetti,» sputò la poliziotta.

Keira inclinò la testa di lato. Chissà con quale dei suoi amici dalla scintilla facile ce l'aveva? Immaginò Altair e i suoi pugni elettrici massacrarle la faccia. No, non poteva trattarsi di lei: la poliziotta riportava ferite troppo lievi, dubitava che Altair avrebbe saputo trattenersi, davanti a una con il grugno da rinoceronte incazzato, pronta a disseminare odio come fossero coriandoli. Valeva lo stesso per Vega, perciò rimaneva una sola ipotesi: Elettra.

L'occhialuto diede una pacca sulla spalla della compagna e si accomodò accanto a lei. «Alex, calmati. Ancora non sappiamo se sia davvero colpevole di qualcosa.»

«Ah, ma io non ho dubbi invece. Questa stronza sta con loro.» Alex, così si chiamava il rinoceronte mummificato, incrociò le braccia sul petto.

Keira non ci aveva capito granché, da quando era arrivata. Nessuno si era degnato di rispondere alle sue domande, nessuno le aveva spiegato con quali accuse fosse lì. Il suo carceriere era stato l'unico tanto gentile da biascicarle nell'orecchio qualcosa, subito prima di buttarla nella cella. La missione di Altair e gli altri non era andata a buon fine a causa di Mira e Drake.

Il resto del tempo, si era solo divertita a strappare le maniche della bruttissima maglia arancione che le avevano appioppato. Il risultato non era migliorato di molto, ma Evelyn sarebbe stata fiera di lei per averci provato.

I due agenti discussero fra loro per qualche altro minuto, e Keira si perse nei propri pensieri per regalare ai due piccioncini l'intimità di cui avevano bisogno.

«Dunque,» esordì l'occhialuto alla fine – Norton, così l'aveva chiamato Alex. «Ti chiedo scusa, la mia collega è ancora un po' scossa per l'accaduto.»

Più che scossa, Keira l'avrebbe definita incazzata. «Capisco che farsi imbalsamare faccia questo effetto.»

Alex grugnì. Norton la ignorò. «Sai perché ti trovi qui?»

«A grandi linee.» Quello che ancora si chiedeva era a causa di chi.

«Abbiamo ricevuto una testimonianza. A quanto pare, ti hanno sentita parlare di un certo piano importante, guarda caso poco prima dell'attacco degli ibridi.»

«E sei una simpatizzante dei figli della Tempesta,» sbottò Alex. «Per me basta questo per decidere che sei colpevole.»

E la risposta alla domanda che tanto aveva tormentato Keira durante le ore infinite trascorse in cella arrivò. Era tanto scontata che non capiva come avesse fatto a non arrivarci subito.

Sprazzi della discussione con Evelyn le perforarono il cervello, affilati come coltelli. Se solo Keira non fosse stata una creatura tanto inetta, tanto patetica e inutile, allora forse in quel momento sarebbe stata a sparare qualche cazzata con lei. Se solo fosse stata abbastanza forte da sopportare il peso di tutti i ricordi, di tutto lo schifo che le vorticava nella testa.

«Per questo,» continuò Norton, lanciando un'occhiataccia ad Alex, «volevamo farti alcune domande. Non vogliamo colpevolizzarti di nulla, non abbiamo prove concrete, ma finché non saremo sicuri che tu sia davvero innocente non possiamo lasciarti andare. Lo capisci, vero?»

Keira nascose le braccia sotto il tavolo, e lì, lontano dagli sguardi giudicanti dei poliziotti, si graffiò, o quanto meno ci provò. Portava le unghie troppo corte per causarsi davvero qualcosa di diverso da una carezza violenta, ma se avesse potuto, si sarebbe tirata via la pelle. «Come si fa a dimostrare che non ho fatto qualcosa, agente?» chiese piuttosto, sporgendosi in avanti.

Regalò un'ampia visuale del seno attraverso la scollatura. Sebbene avesse tutta l'aria di essere uno strappo strategico, quello che le lasciava scoperta la pelle nuda sotto il collo, in realtà era stato un errore.

«Be', se dovessi dimostrarci di essere innocente,» iniziò a ripetere Norton, ma l'altra lo interruppe.

«Mettiamo che io debba dimostrare di non aver mangiato una mela, e l'unico indizio che avete è che la mela al momento non c'è, come fareste?»

«Potremmo venire a sapere che in realtà non sei mai stata nella stanza con la mela, per esempio.»

Keira mosse la testa in un cenno d'assenso, ma subito dopo sgranò gli occhi e scosse la nuca, come se avesse appena cambiato idea. «Certo. Magari vi affidate alle parole di un qualcuno che vi dice che la mela prima era lì, e che dopo il mio arrivo la mela non c'era più. Però il punto è proprio questo: se non fosse mai esistita alcuna mela,» portò ancora le mani sul tavolo, si accarezzò i pollici, «come potreste dimostrare che io non l'ho mangiata

Norton la osservò a lungo da oltre le lenti spesse degli occhiali, senza muovere nemmeno un sopracciglio. Nonostante la sua mancanza di espressione, il modo in cui si umettava le labbra tradì il suo nervosismo.

Keira non era brava con i teatrini quanto Evelyn, soprattutto non senza il suo aiuto. Far perdere il senso di una conversazione però rientrava nelle sue specialità.

Un pugno si schiantò a pochi centimetri dalle sue mani. Si ritrasse d'istinto.

«Che vuoi dimostrare, con queste stronzate, eh?» sibilò Alex.

«Niente. Volevo solo assicurarmi di avere per davvero una speranza di uscire di qui.» Keira affrontò l'occhio spalancato di lei con un sorriso tirato. «Sa com'è, il cesso di casa comincia a mancarmi, ho sempre problemi a farla in posti sconosciuti.»

L'altra si lanciò sul tavolo per divorare la distanza che le separava e le agguantò la maglia, tirandola a sé. Il reggiseno al di sotto venne allo scoperto, ma Keira era più preoccupata per il fiato caldo che l'agente le sbuffava in faccia. Così da vicino, risaltavano tutte le mille sfumature giallastre che le decoravano il volto.

«Smettila di prenderci per il culo, non abbiamo tempo da perdere e, francamente, non penso che nessuno avrebbe niente da ridire se ti prendessi a testate sul naso. Quindi vedi di collaborare e finiscila con le stronzate.»

Keira non capiva se la sua fosse la solita recita dell'agente cattivo o se fosse davvero così violenta. Norton di sicuro era bravissimo nel ruolo del buono, mentre la liberava dalla morsa di Alex e convinceva la collega a riaccomodarsi sulla sedia.

Li studiò come si studia un branco di animali selvaggi: cercò nei gesti e nelle occhiate che si rivolgevano l'un l'altra un significato specifico. Peccato che per comprendere degli atteggiamenti estranei ci volesse ben più di qualche momento. Non aveva modo di scoprire quanto ci fosse di reale nel comportamento di entrambi, tutto ciò che sapeva era che l'odio di Alex, nel pronunciare le parole figli della tempesta, fosse genuino. L'occhio le si spalancava e la saliva le si arricciava sulla lingua.

Magari possedeva un motivo valido per riempirsi di tutta quell'ostilità. Keira non ne aveva idea. Per lei, il terrore che la gente provava nei confronti degli ibridi era una cosa del tutto irrazionale. Il mondo nascondeva mostri ben peggiori.

«Alex, forse è meglio se lasci fare a me,» diceva Norton.

«Così ti fai abbindolare dalle sue stronzate? No, grazie.»

«Allora smettila di minacciarla. Non ci porterà a niente fare così, lo sai benissimo.»

Eppure aveva tutto l'aspetto di una recita. Mostravano solo una mezza verità, forse. Magari il siparietto era programmato.

«Va bene.» Alex si arrese prima del previsto. Alzò il palmo e sollevò le spalle. «D'accordo. Lascio fare a te. Fammi vedere come ti fai fregare.»

Norton non se lo lasciò ripetere due volte: si schiarì la voce e spostò l'attenzione su Keira. «Dunque. Partiamo dal principio. Sapevi di aver venduto un tuo prodotto a un'ibrida?»

Cercavano ancora informazioni su Elettra. Nessun progresso degno di nota, quindi. Ottimo.

«Sapevo che era cieca,» concesse Keira. «Altrimenti non avrebbe voluto il visore, ovvio. E sapete, mi dispiaceva che non riuscisse a vedere tutto il mio splendore, perciò, detto fra noi,» si coprì un lato della bocca con la mano, «le ho fatto anche un piccolo sconto.»

«Capisco. E dimmi, è una cliente abituale?»

«Non ha risposto alla tua domanda,» gli fece notare Alex. Lui la zittì con un cenno, e lei sbuffò.

Keira non sapeva di preciso quanto inventare. Se faceva volare troppo la fantasia, rischiava di sparare stronzate colossali. Una via di mezzo forse sarebbe stata la soluzione. «Non so, non era la prima volta che la vedevo,» e su questo almeno era sincera. Elettra non era proprio una cliente, in effetti. «Non sapeva nemmeno dell'esistenza del visore, sono stata io a proporglielo.» Falso. «Era una cosa segreta, in effetti, perché non era sicura funzionasse, mi serviva una persona non vedente per accertarmene.»

«Perciò, gliel'hai venduto per testarlo, giusto?» Norton si spinse gli occhiali con l'indice.

«E qui mi ha proprio beccata!»

«Perciò siete rimaste in contatto, dopo?»

«No. O meglio, le ho dato il mio numero, ma non mi ha lasciato il suo. Sa com'è, sono una donna impegnata e non era davvero il caso di far ingelosire Eve così.»

Alex reclinò la testa con un sospiro teatrale.

«Eve,» iniziò Norton, «è il nome della tua ragazza, giusto?»

«Sì.»

Non le piaceva nemmeno un po', il modo in cui suonava il nome di Eve sulle labbra di Norton. Lo storpiava.

«Il suo nome completo è Evelyn Moore.» Un'affermazione, non una domanda.

Una piccola macchia di umidità sporcava il muro alle spalle degli agenti. Keira la notò soltanto allora. Si espandeva verso l'angolo. Una singola linea irregolare, che squarciava la parete in diagonale. Una ferita, pensò. Nascosta, lì dove la maggior parte delle persone non guardava nemmeno. Eppure c'era, e si chiese quanto facesse male, a quanto tempo ci sarebbe voluto, prima che si propagasse ovunque e inglobasse l'intera stanza.

«Sì,» rispose soltanto. Aveva la gola secca. Le bruciava.

«Lavora con te?»

Keira alzò le spalle. «Nì. Mi dà una mano, però la maggior parte delle volte mi distrae e basta.»

«Ha un lavoro suo?»

«No.»

«E lei sa della tua dipendenza?»

Arrivò con la violenza di un pugno di Altair, e la scombussolò come una dose di Rejecto. Keira deglutì, si morse il labbro, non rispose.

L'odore di disinfettante si fece più intenso. I rumori scomparvero. Gli occhiali di Norton si trasformarono in un paio di occhi cangianti luminosi nel buio; l'istante dopo, un altro colore, verde e spento.

Serrò le palpebre, ma l'immagine la seguì nell'oscurità. Le mani ripresero a tremarle. Le spiaccicò contro il tavolo, e gli spasmi le si trasferirono sul polso, sulle braccia.

«Ehi, che ha adesso?» Alex si alzò e la scosse per una spalla. In qualche modo, il contatto fisico la riportò alla realtà, e il vago profumo di bagnoschiuma le cancellò il ricordo dalla mente.

Una sigaretta. Keira sentiva il disperato bisogno di una sigaretta. L'atto meccanico di portarsi le dita alle labbra e riempirsi i polmoni di fumo la calmavano, di solito. Abbastanza da rimandare l'urgenza di una dose.

«Deve essere un attacco di astinenza,» disse Norton. «Oppure disturbo da stress post traumatico.»

Odiò il fatto che avesse ragione. E odiò ancora di più che perfino Alex si ammutolì alle sue parole. Dov'era finito tutto l'odio? Tutto il disprezzo? Perché non poteva semplicemente prenderla a pugni?

Norton perse tempo a riaggiustarsi le maniche. Le piegò e dispiegò sul polso per un'eternità. Una volta. Due volte. Tre volte. Keira le contò fino a regolarizzare il respiro.

«Meglio?» chiese lui alla fine.

Lei annuì, in silenzio.

«Te la senti di continuare?»

Attese una rispostaccia da parte di Alex. Non arrivò mai, così si limitò a scrollare le spalle.

Norton impiegò una seconda eternità solo per sospirare. Risucchiò l'aria dalle labbra e la tenne in bilico, il petto gonfio; la lasciò andare in un unico soffio. «Evelyn cosa ne pensa, degli ibridi?»

Eve era sempre stata troppo intelligente per odiare delle persone sulla base del nulla. Questo voleva rispondergli. Questo avrebbe dovuto dire. «Vorrebbe costringerli ad andarsene in giro con i lustrini sui vestiti.»

Ottenne un grugnito esasperato da Alex. Norton invece non batté ciglio. «Evelyn è un'ibrida?»

A questa, Keira rise di gusto. Le risalì dal petto, un suono tanto spontaneo quanto doloroso. Eppure lo accolse volentieri. «No, direi di no. Per fortuna.»

«Tu sei un'ibrida?»

Brancolavano nel buio o cercavano di confonderla? Quale che fosse la risposta, Keira sorrise. «No, non lo sono.»

Norton picchiettò un dito sul tavolo. Distolse lo sguardo da lei, fissò qualcosa alle sue spalle. «Altair Almond,» esordì all'improvviso.

Keira si aggrappò alla sedia per impedirsi di sobbalzare. «Cos'è? Il nome di un nuovo dolce?» Le labbra le si arcuarono verso l'alto al pensiero di un dolce con il nome di Altair. Come minimo, sarebbe stato amaro quanto il caffè.

«A quanto pare è il nome di un'ibrida che è stata vista insieme alla tua ragazza.» Norton nascondeva bene i pensieri. A vederlo, sembrava una lastra di ghiaccio.

«Ah.» Forse Elettra e gli altri cominciavano davvero a perdere il controllo della situazione.

«La conosci?»

«Mai sentita.»

«Sai perché Evelyn dovrebbe ospitare una riunione con gli ibridi ribelli in casa sua?»

Cosa cavolo stavano combinando?

Keira scosse la testa, con sincerità. «No, non ne ho idea. E la cosa comincia anche a farmi preoccupare. E lei che diceva di non essere interessata alle cose di gruppo.»

Non sobbalzò al nuovo colpo di palmo che Alex sferrò contro il tavolo. Se lo aspettava. Keira mostrò un sorrisetto, scrollando la nuca come per dire "eh, che ci vuoi fare?", come se fosse nel bel mezzo di una chiacchierata fra amici e non di un interrogatorio. «Basta cazzate,» sibilò Alex.

Si quietò subito dopo, quando Norton sollevò un braccio per intimarle di allontanarsi. Sprofondarono nel silenzio, tutti e tre, cullati dal suono irritato dei passi di Alex. Zoppicava, eppure preferiva aggirarsi piuttosto che starsene seduta. Il suo respiro, pesante e affannoso, faceva da sottofondo.

Keira nascose le mani nelle cosce. Le schiacciò con forza, nella speranza che il tremore cessasse una volta per tutte.

Norton si sistemò gli occhiali sul naso, sospirando. «McRaven, sarò sincero,» esordì, e lei incassò la testa nelle spalle. «Sappiamo che ci stai tenendo nascosto qualcosa. Mi piacerebbe che collaborassi con noi, così potremmo arrivare a un accordo. Cosa ne dici?»

Balle, pensò d'istinto, non sapevano un bel niente. Eppure conoscevano il nome di Altair, e chissà cos'altro.

«Mi dispiace, agente, non so davvero niente della riunione.» Almeno su questo era sincera.

«Hai costruito tu l'oggetto che stavano usando per indebolire la cupola?»

«Non so di cosa stia parlando.»

«No, certo.» Norton tirò indietro la sedia. Si alzò in piedi e la guardò da oltre le lenti, con quella sua espressione priva di emozioni, piena di non detti. «Per oggi basta così. Pensa bene alla mia proposta, la prossima volta mi piacerebbe che fossi un po' più sincera.»

Se ne andarono entrambi. Keira restò sola per una manciata di secondi, sola insieme alla macchia di umidità che squarciava il muro.

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