Capitolo 11
Poche cose superavano la bellezza di svegliarsi accanto a Evelyn. Keira rimase più del necessario a scrutare il viso dell'altra. Il modo in cui le palpebre le fremevano e le ciglia sfarfallavano, vittime di chissà quale sogno, la affascinava. Perfino mentre dormiva, a volte compariva l'accenno di un sorriso, quel sorriso a metà fra il dolce e l'insolente.
Alla fine, Keira si alzò sospirando. Raccattò della biancheria pulita dal cassetto e la indossò con uno sbadiglio. Si concesse soltanto un'altra occhiata a Evelyn, per assaporare il ritmo incostante in cui le batteva il cuore. I palpiti tornarono normali quando si decise a lasciare la stanza. Normali e così dannatamente noiosi.
Dopo una capatina al bagno, si dilettò a preparare la colazione. Disponeva di pochi ingredienti, per nulla correlati fra loro: una busta di mirtilli congelati, un cartone del latte mezzo vuoto e i resti di una pizza. Ci rifletté a lungo, se riscaldare il latte e scongelare i mirtilli o compiere il peccato maggiore della sua vita e decorare la pizza con i mirtilli e, per un attimo, quasi rischiò di cadere in tentazione. Si immaginava già la faccia disgustata di Evelyn, la battutina imbecille su come, a quel punto, tanto valeva metterci pure dei lustrini.
Ridacchiando fra sé e sé, da sola nella grande stanza, ascoltò la parte sana di mente – se ne aveva una, e lei stessa spesso ne dubitava – e scaldò il latte. La prossima volta avrebbe esagerato. Per quel giorno le avrebbe proposto una colazione accettabile.
Versava il liquido nelle tazze quando si accorse che le mani le tremavano. Alcune gocce finirono sul tavolo. Evelyn sbucò dalla soglia proprio allora. Lei aveva avuto l'accortezza di mettere addosso almeno una maglietta – rigorosamente di Keira – che le copriva anche le cosce. Ciondolò fino al tavolo dove, più che sedersi, sprofondò sulla sedia, come un palloncino sgonfio.
«Buongiorno a te,» la salutò Keira, ammiccando. «La regina dello splendore anche di prima mattina!»
Eve sbuffò da un angolo della bocca. Un ciuffo di capelli le si sollevò per un attimo. «Non mi sono nemmeno lavata la faccia. O lavato i denti.»
«Eppure sei già splendida!»
«Non ho ancora nemmeno fatto la cacca,» insistette Evelyn.
Keira le avvicinò la tazza piena di latte fumante. «E allora ho sbagliato colazione, mi sa.» Rise, mentre l'altra la guardava sbattendo le palpebre. Ancora lo sfarfallio di ciglia.
«Non lo so cos'avevi in testa, ma anche questo sa fare il suo dovere.» Afferrò il contenitore e si bagnò appena le labbra. Non fece domande. Non nominò i lustrini. Strano.
Keira scansò la sedia di fronte per accomodarsi a sua volta. Nascose le dita tremanti fra le cosce. «Volevo fare una pizza ai mirtilli,» le spiegò. «Per la precisione, la pizza di ieri, quella con le acciughe e il pomodoro.»
Evelyn annuì, gli occhi fissi su qualcosa di distante. Due crateri neri segnavano la sua mancanza di sonno, come se non dormisse in maniera decente da giorni. Keira ricordava per certo di averla tenuta sveglia più del necessario – anche se di certo a lei non era dispiaciuto – tuttavia nessuna sveglia le aveva buttate giù dal letto quella mattina. Non aveva alcun senso che lei fosse in quelle condizioni.
«Pizza acciughe e mirtilli,» riprovò, tanto per essere sicura che l'avesse sentita. Ottenne soltanto un sorriso tirato e un'alzata di sopracciglia.
«Che hai?» Aveva pensato di buttarlo lì, come se non le premesse più di tanto sapere la risposta, e invece una vena di asprezza le si insinuò nella voce.
Si pentì – di tutto, di averlo chiesto, di quello che aveva fatto, di esistere – non appena Evelyn mise giù la tazza e mise a fuoco lo sguardo su di lei. La linea della bocca le divenne più sottile, sembrò più sottile, e Keira si appoggiò con la schiena alla sedia, in cerca di un sostegno.
«L'hai fatto di nuovo,» disse solo Eve.
Keira aprì la bocca. Di puttanate da rifilarle ne aveva a bizzeffe – che l'aveva presa per qualcun altro, che l'aveva presa per il gatto di Elettra, che le serviva per studiare la Tempesta – ma non sarebbe servito nemmeno a suscitarle una risata. Ci aveva provato già tante di quelle volte che ormai la sola idea di tentare ancora la nauseava. E allora non le rispose, perché qualsiasi cosa avesse detto, avrebbe avuto torto.
«Da quanto tempo va avanti?» Evelyn splendeva perfino in quelle condizioni, un angelo più luminoso del neon appeso al soffitto.
«Come lo sai?» Ancora la stessa durezza nel suo tono. Keira provò il bisogno di lavarsi la lingua con il sapone. Il solo sapore della propria voce la repelleva.
«Ho visto il tuo telefono, ieri sera,» ammise l'altra. «Mentre eri al bagno, prima di dormire.» Lei abbassò gli occhi, e Keira si torturò le dita con quel poco di unghie che aveva.
«È stato prima o dopo la scopata?» sputò. Affondò nella carne fino a farsi male.
«Ti sembravo incazzata durante?» ribatté l'altra, alzando gli occhi al cielo. Batté una mano sul tavolo, e alcune gocce di latte si sollevarono dalla tazza. «Che cazzo di differenza fa? Mi avevi promesso che avresti smesso!»
«Undici volte.»
«Cosa?» urlò Evelyn.
«Te l'ho promesso undici volte.» E tutte e undici le aveva mentito. «Ma tu avevi promesso che ti saresti fidata e non mi avresti più guardato il telefono, o sbaglio? Che avevi paura, che avessi invitato l'agente a cena fuori?»
Il cipiglio di Evelyn, il modo in cui il labbro le tremava, la luce che le si rifletteva negli occhi – forse proveniva dai suoi occhi – le dilaniarono il cuore. Se solo ne avesse avuto il coraggio, Keira le avrebbe chiesto di picchiarla. Ma il corpo di Evelyn era minuto, non sarebbe mai riuscita a farla soffrire come avrebbe dovuto, perché una creatura come lei non era nata per fare del male. Altair. Avrebbe dovuto chiederlo ad Altair.
«Vuoi veramente rigirarmi la patata bollente adesso?» sbottò.
Keira distese le labbra in un sorriso forzato. «Si dice la frittata.»
«La frittata mi piace ancora di meno!»
«Allora...»
«Ma non cercare di cambiare argomento! O di incazzarti tu con me! Perché sono pazza, non scema, e mi hai fatto veramente girare le palle!» Evelyn si alzò, tanto era agitata. Muoveva le mani, si sbracciava mentre continuava la sua filippica. «Da quanto tempo è che hai ricominciato, eh? E non dirmi che quella dell'altro giorno era l'unica, perché non ci casco.»
Keira non trovò le parole per risponderle. La gola le bruciava, come se i tuoni della Tempesta l'avessero attaccata. Non esisteva nulla che le avrebbe regalato nuova dignità agli occhi di Eve. Di miracoli nel corso degli anni ne erano già avvenuti undici.
Si morse l'interno della guancia fino a percepire il sapore del sangue. «Un mese,» mentì. Un giorno forse avrebbe smesso di fare tanto schifo.
Desiderava che l'altra le sbraitasse addosso le peggio parole, che le rinfacciasse quanto poco fosse affidabile, quanto la disgustasse. Invece Evelyn si svuotò, lasciando uscire tutta l'aria in un sospiro, come se tutta la rabbia nei suoi confronti fosse evaporata e non rimanesse altro che rassegnazione.
Keira percepì l'umidità colpirle gli occhi.
«Perché non me l'hai detto?» Evelyn crollò di nuovo a sedere.
«Lo sai che sono problematica,» le rispose lei. Si addentò la lingua l'istante successivo, perché non era davvero questo che voleva dirle, non era una patetica scusa che voleva recepisse.
Una come lei Keira non la meritava. Non l'aveva mai meritata. Keira era rotta dentro e neppure Evelyn era in grado di ripararla.
Lasciami, avrebbe voluto urlarle, ma non ne aveva il coraggio. La parola le nasceva sulla punta della lingua e moriva prima ancora di raggiungere l'esterno.
«Io so solo che sei una testa di cazzo,» le rispose Evelyn. «E dovresti comprarmi dei lustrini, anziché andare in giro a sballarti a casa di tizi stronzi.» Un accenno del suo sorriso. Non l'aveva perdonata, non ancora, ma l'avrebbe fatto, con il tempo. Keira non se lo meritava, eppure sarebbe avvenuto il dodicesimo miracolo.
«Lo sai che non ti aiuta,» continuò poi. «Dimentichi il problema per un po', quale che sia. Viaggi nel mondo delle favole con gli unicorni che ti fanno ciao, ma poi ti fa stare solo più di merda.»
«Gli unicorni che mi fanno ciao mi inquietano da morire,» rispose Keira. Finse di essersi calmata, quando il ginocchio le si agitava sotto il tavolo.
«Quella roba ti ammazza i neuroni.»
«Adesso si spiegano molte cose.»
«Keira.» Sbuffò quasi sogghignando. «Sono seria. Perché? Stavi meglio. Era da quanto? Due anni, che eri pulita?»
«Tu non sai essere seria,» cambiò argomento lei. Intrecciò le dita fra loro, nel tentativo di farle smettere di tremare. Non servì a nulla.
«Quella sei tu, signorina pizza acciughe e mirtilli!»
«Allora mi stavi ascoltando!»
Evelyn aprì la mano davanti a lei, con la teatralità che soltanto lei sapeva creare. Keira si zittì all'istante, come ammaliata, e restò ad aspettare che l'altra poggiasse il palmo sul tavolo con un sospiro. «Porca troia, sto cercando di parlare di un cazzo di argomento serio.»
Il campanello suonò per salvare Keira dalla ramanzina. Entrambe si osservarono, cercando una spiegazione negli occhi dell'altra. Non aspettavano qualcuno, e le sembrava strano che Altair si presentasse così presto, dopo la missione...
Il ginocchio si fermò. La missione. Era stata tanto presa dalla discussione con Eve che se n'era dimenticata. Non aveva ricevuto notizie. Chissà com'era andata.
Tirò indietro la sedia e andò a controllare la porta. Il nodo allo stomaco le si sciolse al pensiero di sfuggire al confronto con Evelyn.
«Sì, ma non aprire in mutande almeno!» le urlò dietro lei.
Ridendo, Keira passò dalla camera per raccattare una maglia e un pantalone a caso, mentre il campanello continuava a suonare. Soltanto quando si rese presentabile andò ad aprire; sostò con la mano sulla maniglia per un attimo.
«McRaven, apri! Polizia!»
Un uomo occhialuto e uno alto quanto un tappo di bottiglia le puntarono le pistole contro non appena lei aprì. La scritta "polizia" spiccava sulle giacche delle loro divise, appena più lunghe e più larghe rispetto a quella che aveva visto indossare da Mira.
«Ho ucciso qualcuno?» chiese Keira a occhi sgranati. Alzò le mani, per mostrare ai due agenti di non essere armata. Se soltanto Eve non l'avesse costretta a rivestirsi, forse avrebbe avuto qualcosa con cui distrarli o, quantomeno, un modo per prendere tempo.
L'occhialuto ripose la pistola e cacciò un paio di manette. «McRaven, sei sospettata come complice degli ibridi.» Le mani sudaticce di lui afferrarono quelle di Keira per ammanettarla.
Lei non si oppose, non sarebbe servito a niente. «Complice degli ibridi? Perché invento visori geniali? Non è che solo perché sono un genio...»
«Abbiamo modo di credere che tu fossi in combutta con loro per l'attacco di questa notte.»
Keira sigillò le labbra. Altair si era fatta beccare quindi. Quello che non comprendeva era come facesse la polizia a sapere di lei. Non ce li vedeva a parlare, né lei, né Elettra o Vega.
«Ehi, che fate?» Evelyn comparve alle sue spalle, ancora senza pantaloni. Si lamentava di Keira, quando lei era la prima a presentarsi in mutande.
«Vogliamo solo interrogarla,» spiegò l'occhialuto. L'altro era una statua di cera, imbambolato con l'arma sollevata, per assicurarsi che le due donne non cacciassero una bomba dal reggiseno.
«E allora perché le manette?» insistette Eve.
«È la procedura. Sospettiamo una combutta con gli ibridi, perciò la terremo dentro finché non siamo sicuri che sia pulita.»
«Va tutto bene,» le disse Keira. Le sorrise, come se niente fosse successo, come se quei poliziotti non avessero appena interrotto uno dei loro litigi.
«Ma...»
«Non si preoccupi. Se è innocente, la libereremo presto.»
Keira li seguì fuori senza fare obiezioni. La verità – e si faceva davvero schifo, ma non poteva negarlo – era che avrebbe affrontato ben più volentieri l'interrogatorio della polizia piuttosto che la conversazione con Evelyn.
Note:
Ok, questo capitolo è stato contemporaneamente bello da scrivere e un tormento xD Queste due mi faranno uscire pazza mentre che arrivo alla fine della storia, me lo sento.
Comunque, spero che il capitolo vi sia piaciuto ^^
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