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PROLOGO

"Andiamo al mare?"
"Si può fare, certo."
Erano le nove. A casa loro ci si svegliava presto persino d'estate (figurarsi d'inverno). Nessuno si spiegava come fosse possibile. Forse non lo era. I vicini vedevano le luci accese fino a notte inoltrata quasi ogni sera. "Bah," pensavano, "non saranno umani."

"Va bene a Roseto?"
"Sì, assolutamente."

Erano padre e figlio. I Penna non erano ricchi, eppure potevano permettersi una bella villa fuori Teramo (in realtà, poco oltre Montorio) e abitarci in due. Solo loro. Serena se n'era andata un paio d'anni prima, o giù di lì.

"Ci portiamo i panini?"
"Bah, potremmo pure pranzare al lido, pa'. Uno spaghetto allo scoglio e via."
"Mi piace!"

Erano molto uniti, eppure tanto diversi. Sì, sembra banale, ma non posso farci niente.
Forse si sarebbero trovati antipatici se non fossero stati parenti. Uno troppo di terra, l'altro perso nei mari del cielo, in una fantasia in cui si vola o si nuota tra le nubi. Il padre era un uomo concreto, equilibrato, un masso del Camicia sceso tra i pecorari, il figlio leggerezza pura. Se mai scopriranno un minerale capace di librarsi in aria e levitare come una conchiglia in balia delle onde, capiremo di cose fosse fatto il suo corpo.
Una mente normale mi direbbe adesso cose come "e il padre bilanciava il figlio" o "lo teneva aggrappato a terra". E sbaglierebbe di grosso. Fosse così, non avrei nulla da raccontare.  Talvolta, il palloncino solleva l'ancora.

"E si torna tardi." Poi, per il padre, Marino era molto di più. Un salvagente? Una cosa simile, se si conta che senza Danilo sarebbe annegato. Dopo la morte di Maddalena, sua nonna, Marino divenne la stampella di suo padre, l'unico modo di camminare con la speranza di non cadere.
"Domani sarò in ufficio, ma d'accordo."

Danilo, di solito, non si lasciava trascinare dalle proposte degli amici. Al lavoro lo chiamavano 'il macigno'. Era un continuo "no, non posso" di qua, "no, ho fare" di là. Invece, se il figlio gli lanciava l'amo lui abboccava quasi sempre.

"Abbiamo i teli?" Era uno svago spensierato, privo di troppe seccature, distante dai tanti discorsi morbosi e svilenti tipici di chi vive segregato in un'azienda come altre, con una paga da schiavo e un ufficio claustrofobico a mo' di gabbia. Se non si capiva, mi riferivo ai colleghi del buon Danilo.
"Sì, Marino, ho lavato tutto ieri sera. Manchiamo di infilarci il costume e possiamo uscire." L'uomo ponderato e razionale provava per la prima volta il bisogno di respirare aria più leggera.

Così fu. In un paio di minuti gli zaini erano satolli, le borracce piene, la porta chiusa e le chiavi in tasca. Attraversarono il breve giardino e scorsero l'auto nel vialetto. Le piante erano in ordine, curate e tosate in modo da dare la forma migliore a ogni foglia, ramo per ramo. Gli alberi svettavano dall'alto della loro chioma, i grilli gracchiavano all'ombra.

"Mauro ha fatto un bel lavoro, è sempre il migliore."

E lo era. Il giardiniere potava le fronde del loro cortile da oltre otto anni. Ne sarebbero stati nove dopo due mesi. Aveva una cerchia di clienti piuttosto piccola, perché preferiva riposarsi nel modo giusto e portare a termine meno incarichi, ma farlo al meglio. Tutti i suoi committenti erano soddisfatti ed erano disposti a strapagarlo. Danilo Penna lo contattava di quando in quando, non appena le ombre della siepe di disfacevano, sformandosi in lunghi artigli e unghie indesiderate. E Mauro correva a riparare. Poi, piantava un paio di rose rosse e fiori nei vasi, lucidava la passerella di travertino, si occupava del prato. Insomma, i classici del suo mestiere.

"Sì, è proprio splendido," ripeté Danilo.
"Non lo so," rispose repentinamente Marino. A volte gli piaceva mettere zizzania tra i pensieri del padre. E gli riusciva con una leggiadria esemplare. Era come un ballo, si ondeggiava al ritmo delle parole e bastava un piede di traverso per fare uno sgambetto. Certo, non era per malizia. Per lui era un gioco, un innocente scherzo.
"Perché?"
"Beh, sa fare di meglio. L'ha detto anche lui, no? Aveva fretta." Alcuni rami erano un po' appuntiti, ma era cercare il pelo nell'uovo.
"Sì, verissimo." E Danilo non ebbe per contrastarlo, se non con un'umile compromesso. Fosse stata un'altra persona l'avrebbe divorata viva con tutte le scarpe. "Ma non mi va di chiamarlo per rompergli le scatole. Sa essere vendicativo," e qui si parlava per esperienza, "e non ne vale la pena. Porta a termine l'incarico con ampio anticipo ogni santa settimana, per uno sgarro non polemizziamo, dai."
"D'accordo. Hai le chiavi?"
"Dell'auto? Eccole!" Le teneva in mano. Luccicavano alla luce del Sole. Aprì e si sedette, poi accese il motore e un tuono fece tremare l'asfalto. Era una decappottabile, una macchina maestosa. Comprarla era stato uno scherzo. Il precedente proprietario, un tipo di Ancarano, l'aveva prestata al nipote (errore madornale) e lui ci si era schiantato contro un muro. L'aveva ridotta a una brutta copia accartocciata. Risistemata e sostituita la carrozzeria, il padrone si era deciso a venderla (dopo pianti e lacrime amare). Certo, era una superstite, una tigre con la dentiera. Eppure, ruggito e pelliccia parevano identici a prima dell'incidente, almeno se sottoposti a uno sguardo inesperto. Danilo ci volle ragionare per settimane. Era un affare o una fregatura? Lo stabilì Marino. Non era molto esperto di motori o cose su ruote (ne capiva meno del padre), ma Danilo non se accorse. "Pa', un'auto così non ce la potremmo mai permettere nuova. E se pure potessimo ci sentiremmo troppo in colpa a comprarla. Questa è usata, sì, ha già visto cose poco piacevoli, è vero. Ma il meccanico ci ha garantito che non combinerà brutti sgarri. Poi, a occhio sembra appena sfornata, fresca di concessionaria." Per cui, la risposta giusta apparve in tutto il suo splendore.

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