La Danza Bianca
La prima cosa che capisco è il sapore della neve.
Mi passo la lingua sul palato. È difficile muoverla, la sento rigida. Sembra mi si sia congelata nella bocca.
Il nevischio si sta trasformando in acqua. È un piccolo rigagnolo gelido che mi scende giù per la gola, anch'essa congelata, immobile.
Quando riesco a deglutire, mi rendo conto di essere sveglio. Apro gli occhi, sbattendo le palpebre un paio di volte.
Neve. Il mondo è fatto di neve.
Scende dalle quelle foglie congelate degli alberi e si posa sul mio viso, sulle ciglia appena dischiuse, nella bocca un poco aperta, sulle labbra irrigidite e incrostate di ghiaccio. Per ora, del mio corpo non sento altro.
I fiocchi bianchi danzano nell'aria, componendo piccole coreografie ipnotiche. È il vento a spostarli, a farli danzare, a creare per loro quella strana musica costante.
E poi, respiro. Il mio primo respiro. È un rumore prolungato, secco, che rompe per un attimo il canto del vento. Una piccola colonna di fiato caldo sposta la traiettoria di alcuni batuffoli di neve. Quando l'aria torna dentro, è così fredda che sento il petto contrarsi.
Piego piano la testa di lato, quasi più per istinto che per un pensiero ragionato. E non vedo altro che un tappeto bianco, lo stesso che mi preme contro la guancia. E anche quello è freddo, tanto freddo.
C'è qualcosa, che spunta da quel tappeto. Sembra un ago. Ma è marrone come una foglia d'autunno.
Ce n'è un altro, un po' discosto. E un altro ancora. Forse ce ne sono anche sotto la mia guancia, ma non riesco a percepirli. Le punture del freddo sono le uniche cose che sento.
In mezzo agli aghi, laggiù, c'è qualcos'altro. Piccole punte livide, bluastre, la base rosata è seppellita nella neve.
Non la sento, ma so che quella è la mia mano. Mi concentro, e vedo le dita contrarsi.
Con una lentezza straziante, la sollevo quel tanto che basta per posare il palmo sulla superfice della neve, che scivola via piano dalle dita. Poi, con una scossa elettrica, tutto il mio braccio di sposta, fino alla spalla, scrollandosi di dosso quel sottile strato di tappeto bianco che lo ricopriva.
Comincio a sentire tutto il corpo, ora. E il mio primo pensiero cosciente è che, se non mi sollevo il prima possibile da quel tappeto morbido e morto, non resterò sveglio ancora a lungo.
Piego un gomito, poi l'altro. Sento di avere qualcosa in mano, stringo il pungo senza pensarci. La testa mi sembra pesante come un blocco di ghiaccio, ma in qualche modo riesco a sollevarmi quel tanto che basta per vedere quel poco di neve accumulata che mi scivola giù dal petto.
Il mio cervello è lento come il resto del corpo, ma posso quasi sentire gli ingranaggi assopiti che riprendono a girare lentamente.
La neve non balla. Il vento non canta. Quelli erano aghi di pino. Sono in un bosco di pini, sotto una pioggia di neve. E probabilmente sto per morire di ipotermia.
Puntellandomi sulle mani, riesco a tirarmi ancora più su. I miei respiri continuano a condensarsi in nuvolette di fumo, l'aria fredda mi raschia i polmoni. Riesco a mettermi seduto dritto, e mi stringo le braccia attorno al petto, cercando un calore impossibile. Perché le mie braccia sono del tutto scoperte.
Addosso non ho altro che una maglia a mezza manica, e un paio di jeans estivi. Dal mio pugno chiuso sporge una penna, una semplice, inutile penna a sfera. E basta. Nient'altro. Piego un po' le gambe, e mi accorgo che anche i miei piedi sono nudi nel manto bianco.
Non sopporto più il contatto con quel tappeto gelido sotto di me.
Davanti a me c'è un albero. Metto la penna in tasca. Stringo i denti e, ignorando l'emicrania atroce che mi urla di non muovermi, artiglio il tronco con le dita e provo a tirarmi su. Piego le ginocchia vicino al petto, mi alzo un altro poco, afferro un ramo. Tiro con le braccia e spingo con le gambe. Alla fine, sono più o meno in piedi, appoggiato con quasi tutto il peso al tronco ruvido.
Le nuvolette di fiato rimbalzano sul legno e mi tornano sul viso. È caldo, quasi piacevole. Ma non è abbracciandomi un albero che smetterò di avere freddo.
Mi giro sulle gambe stanche e molli, appoggiando la schiena al tronco e stringendo di nuovo le braccia al petto.
Gli ingranaggi del mio cervello stanno riprendendo a girare, per quanto il freddo terribile sia un grosso ostacolo. Fissando gli alberi di fronte a me, e la quantità di neve smossa dove ero sdraiato poco prima, riesco a farmi una sola domanda: cosa ci faccio qui?
Zero assoluto. Chiudo gli occhi, in cerca di un qualsiasi elemento che possa suggerirmi perché sono in mezzo a una tormenta di neve in pantaloncini e T-shirt estiva. Ma mi sembra di galleggiare nel nulla più totale. Sono ancora troppo stanco per ricordare, qualsiasi cosa sia successa.
E in quel momento imparo la mia prima lezione: mai chiudere gli occhi quando sei solo in un posto che non conosci.
Sento un fruscio diverso dal ritmo del vento. Apro subito gli occhi, scrutando in mezzo agli alberi alla mia destra, ma vedo solo altra neve. Ho guardato troppo tardi.
Comincio a rendermi conto di quanto sono debole. Sono in un bosco, da solo, disarmato e congelato. E sto tremando. Per il freddo, ma forse non solo per quello.
Apro la bocca e gli do fiato, più per vedere se riesco a parlare che per sperare in una risposta. - Chi... chi c'è? - strano, non immaginavo che la mia voce fosse così. Ha toni profondi, ma sembra giovanile. Trema anche lei con me.
Perché, come me la immaginavo, la mia voce?
No, come la ricordavo, più che altro. Perché, insomma, è la mia voce, dovrei...
Ma ancora, la mia mente sembra galleggiare nel nulla puro. Vorrei provare a concentrarmi di più, ma sto tremando sempre più violentemente.
E poi, ancora quel rumore. Questa volta davanti a me. E questa volta, scorgo qualcosa. Tra gli alberi, a meno di dieci metri, quel qualcosa si è fermato, e mi fissa.
Non sono sicuro di cosa sia, la vegetazione fitta copre parte della vista, ma li vedo, i due occhi. E il muso. E la chiostra di denti scoperti.
Non mi serve un istante in più per pensarci. Mi slancio verso sinistra e corro via, via da quel qualcosa che fa più paura della neve.
Le gambe irrigidite rispondono malamente ai miei comandi, ma il panico è meglio di un multivitaminico. Dopo qualche secondo, sto volando tra gli alberi, saltando radici, spingendo le mani addosso agli alberi vicini per evitarli e darmi la spinta. Ho il cuore a tremila, ma sopra il battito che mi rimbomba nelle orecchie distinguo comunque un rumore, quel rumore, poco dietro di me, a destra. Mi slancio di nuovo a sinistra, e quando inciampo sulla radice, mi aggrappo automaticamente a un ramo orizzontale, dandomi la spinta con l'altro piede per lanciarmi in avanti. Evito il tronco contorto di un pino appena in tempo e continuo a correre.
Non ho idea di dove abbia imparato a correre così su un terreno così impervio. Non è facile, ma il mio corpo sembra essere più o meno in grado. Eppure, non è abbastanza: sussultando, mi accorgo che l'ombra di quell'essere è praticamente dietro di me.
No, affianco a me.
Mentre corro, due ombre terrificanti fanno un balzo e tentano di saltarmi addosso.
Mentre il mio cervello non riesce a fare altro che farmi urlare, il mio corpo stranamente agile trova un modo per salvarsi. Sfruttando lo slancio della corsa, i miei piedi si staccano da terra, mentre le mani afferrano un ramo dell'albero più vicino, a più di due metri da terra. Puntello i piedi contro il tronco e in un istante mi sto dando lo slancio per salire ancora più su, allungando le braccia per afferrare il ramo più alto disponibile.
Una forza terribile tira il retro della mia maglia, ma la stoffa si strappa, e le mie dita si chiudono sul legno. Mi tiro su appena in tempo, le fauci dell'altro essere mi lisciano la punta del piede nudo.
Una volta messi i piedi sul primo ramo a cui mi ero aggrappato, l'adrenalina mi spinge a salire ancora un po', ancora un attimo. Quando sono a, forse, quattro o cinque metri da terra, perdo la presa sul ramo a cui mi stavo aggrappando, e mi arrendo a sedermi cavalcioni su quello su cui sono, cercando di riprende fiato. Dopotutto, se le bestie fossero in grado di arrampicarsi, sarei già morto.
La neve continua a cadere, ignara e incessante. Per un po', l'unica cosa che sento è il battito del sangue nelle tempie e il mio respiro pesante, che si condensa in grosse nuvole bianche.
Poi ci sono i ringhi. E gli ululati.
So già quello che vedrò guardando giù, ma cerco di ripetermi che sono al sicuro, che lì non possono arrivare, lì non possono arrivare.
Mi sporgo solo un poco. Alla base dell'albero, i due lupi ululano e sbavano e graffiano il tronco, puntandomi contro i musi ringhianti come armi da fuoco molto, molto affamante. Uno dei due ha in bocca un pezzo di stoffa.
Ancora respirando pesantemente, stringo meglio le gambe attorno al ramo per paura di cadere, e mi tocco la base della schiena. La maglia è sbrindellata, ma non c'è traccia di sangue. Eppure, le fauci hanno toccato la pelle, ne sono sicuro. Tastando la schiena, incredulo, tocco un punto che mi fa rabbrividire un poco. Non è dolore, è proprio una scossa elettrica, che mi percorre la spina dorsale. Chissà perché, l'idea del lupo che pianta una zanna proprio in quel punto mi fa gelare il sangue. Ma non è successo. La schiena è apposto, sto bene.
Noto che anche il piede è apposto, e pure tutto il resto del corpo. Cavoli, tra la corsa e l'arrampicata, non mi sono fatto neppure un graffio. Sono decisamente più agile di quanto avrei creduto possibile. Ho solo qualche livido, uno sul braccio, uno sulla coscia e credo uno sulla guancia, dove sono stato colpito da grossi rami bassi. Ah, e sto congelando: le punte delle dita delle mani stanno diventando blu, e non mi sento le braccia. Sì, insomma, sto una favola.
Sto ricominciando a respirare normalmente, anche se i lupi non hanno smesso di ringhiare. Stringo le mani al ramo, con l'unico desiderio di appoggiarmi con la schiena al tronco e tornare a dormire. Il freddo passerebbe, e così i ringhi dei lupi. Magari, qualcuno mi troverebbe là, svenuto; io mi risveglierei in un letto d'ospedale, al caldo, sotto le coperte, con i miei genitori al fianco che ringraziano perché sono di nuovo con loro...
Mi rendo conto di star solo delirando appena prima di perdere l'equilibrio. Nonostante le belve assassine che ringhiano a pochi metri da me, l'adrenalina si sta diradando, e con essa anche le poche energie ritrovate.
Stringo di nuovo le gambe al ramo, cercando di restare concentrato e non farmi pervadere dal torpore.
Ma c'è un solo modo per continuare a ragionare: pormi il prossimo problema.
D'accordo, sono vivo. Ora, come esco da questa situazione?
Non ho idea di quanto le belve siano affamate, né di quanto saranno pazienti nell'aspettare che scenda. E io decisamente non posso permettermi di restare qui a morire di freddo per ore e ore. E non posso salire troppo in alto, e perché il tronco dell'albero si assottiglia, e perché rischierei di cadere da un'altezza mortale con un singolo passo falso.
Deglutendo, mi rendo conto che c'è una sola soluzione possibile. Sento gambe e braccia rigide, e la testa in una cappa buia, ma semplicemente non posso fermarmi. Non ne so nulla di ipotermia, ma penso che se mi muovessi quantomeno eviterei di cadere in quel torpore e svenire. E poi, chissà, magari i lupi si stancheranno di seguirmi...
Osservando le bestie ululanti cinque metri sotto di me, tremando di ansia, freddo e terrore, mi aggrappo al tronco e mi metto in piedi sul ramo su cui sono. Evitando di pensare troppo a quanto questa sia una follia, individuo il ramo che fa per me. Non devo nemmeno saltare, mi basta camminare in equilibrio, scavalcare e arrampicarmi un poco per arrivare all'albero vicino.
Continuiamo questo gioco per quello che mi sembra un tempo infinito. Io passo da un albero all'altro, scivolando tra i rami contorti troppo ravvicinati o saltando quando sono troppo distanti, con un sospiro di sollievo ogni volta che un salto va a buon fine. Non sono molto in alto, ma cadere significherebbe la morte, perché i lupi mi seguono da terra, agili, ringhianti. Non mi staccano mai gli occhi di dosso.
Vorrei andare più veloce, come nei film, ma non ne ho ne' la forza, ne l'abilità, ne' il coraggio. Non mi risulta che Tarzan avesse dei lupi ringhianti alle costole quando aveva imparato a muoversi tra gli alberi. Quantomeno, però, l'adrenalina mi permette di non rischiare di addormentarmi di nuovo.
Uno dei salti mi fa perdere un battito. Il piede destro scivola. Mi aggrappo con le mani ad un ramo poco sopra, con la disperazione già in gola, ma per qualche miracolo riesco a non cadere. Mi ritrovo a pancia in giù sul legno innevato e scivoloso, e mi tiro su di nuovo col fiato pesante.
Rimango letteralmente abbracciato al tronco dell'albero, aspettando che il battito del cuore si calmi. Anche i lupi ci avevano creduto: mi sembra ringhino più forte, e mi aspettano esattamente sotto al punto in cui sono scivolato.
È in quel momento che lo sento.
Mi arriva alle orecchie come un richiamo antico, perentorio, dolce. È lievissimo, un suono trasportato dal vento e più leggero di quello, ma sono sicuro di cos'è ancora prima di averlo pronunciato ad alta voce.
- Acqua - mormoro sorpreso, in risposta a quel richiamo.
Acqua. Un fiume.
I lupi non si butteranno in un fiume per cacciarmi. L'acqua farà perdere le tracce.
Eppure, la corrente potrebbe essere troppo forte. L'acqua troppo fredda. O troppo in basso rispetto a me. O troppa poca per nuotarci.
Ma no, il fiume è la mia unica chance. Il fiume è la salvezza. Lo so, per qualche motivo, lo so e basta.
Spinto da quella nuova possibilità, riparto, accelerando di poco l'andatura. Non do nemmeno più ascolto al ringhio dei lupi, impegnato come sono a cercare di arrivare alla fonte del richiamo.
Eppure, non riesco a vederlo. O almeno, non subito.
Tutto ciò che vedo all'inizio, senza quasi farci caso, è un raggio di sole che si contorce, rincorrendo se stesso, creando uno strano gioco fluido di cui non capisco il senso. Il bagliore mi colpisce in pieno un occhio, facendosi strada tra le fronde dell'albero su cui mi sono appollaiato a riprendere fiato.
Solo a quel punto lo vedo. È... latte. Il sole si sta riflettendo su un'enorme distesa di latte. La neve danza davanti ai miei occhi, ora con un ritmo più sostenuto, seguendo il canto frenetico del fluido denso, posandosi tra le piccole cascatelle e rapide che si estendono a destra e a sinistra, perdendosi tra gli alberi.
Scuoto la testa. Accidenti, lo stordimento è una piaga. La neve non balla, il fiume non canta, e quella è solo acqua, biancastra per il riflesso della nevicata fitta. Oh, e io sto per cadere.
Stringo la presa attorno al ramo su cui sono appena in tempo. Mi sento come se qualcuno mi avesse gonfiato un palloncino dentro al cervello. Le braccia e le gambe mi fanno un male assurdo, e nonostante non mi sembri di avere ferite visibili, sento bene di essere pieno di ematomi. Ci metto un po' a ricordare dove mi trovo, e a realizzare che non ne ho la più pallida idea.
Il fiume. Ho trovato il fiume, cerco di ripetermi. Piano piano, riesco a ricordarmi di cosa questo significhi.
Sono salvo. I lupi non mi prenderanno. Devo solo tuffarmi e...
Tuffarmi?! Ogni neurone del mio cervello mi urla che sarebbe una pessima idea. Stanco e intorpidito come sono, come dovrei fare a nuotare?! Contro quella corrente, poi...
Eppure, c'è qualcosa, qualcosa, in quell'acqua che scorre, di ipnotico, travolgente. Vorrei poterla toccare, solo un attimo, solo con un dito, e so che tutto andrebbe meglio, so che andrebbe meglio.
No, decido. Sto ancora delirando.
Solo allora recepisco la prima informazione che avrei dovuto captare.
Sembra tutto normale. La neve cade, il vento fischia, e il rumore dell'acqua poco discosta da me è simile a un rombo in quel silenzio piatto.
Il silenzio.
I lupi. Dove sono i lupi?
Comincio a guardarmi attorno freneticamente. Niente più ringhi, ululati, latrati. Mi metto in piedi, poi mi accovaccio, appoggiandomi a rami vicini, cercando di individuare una qualsiasi traccia della loro presenza. Ma niente. Niente di niente.
Non so se rilassarmi o farmi prendere dal panico. Come hanno fatto a dileguarsi così in fretta? Da quanto tempo mi hanno perso? Anzi, mi hanno davvero perso? O sono lì, nel folto, che aspettano una mia mossa falsa? O magari, col loro istinto di cacciatori, hanno trovato un modo per salire...
Non so come sono fatti i lupi. Non so come cacciano. Non lo so. E so che non voglio scoprirlo.
Vorrei poter chiudere gli occhi, concentrarmi, cercare di ricordare se avevo visto qualche documentario in merito. Ma ho paura ad isolarmi dal mondo, e il cuore che batte a tremila è già una distrazione sufficiente.
Decido di continuare a muovermi come ho fatto fino ad ora. Devo solo trovare il passaggio giusto. Devo muovermi. Muovermi, e restare concentrato.
Alla fine li vedo. Il fiume è largo, e probabilmente abbastanza profondo nel centro, ma i pini sono alti e le corone di rami abbastanza ampie. Ed eccoli lì, due rami anomali, troppo lunghi, che quasi si sfiorano a cinque o sei metri di altezza sopra il fiume, come un piccolo ponte naturale.
Se riesco a raggiungere l'altra sponda, sarò lontano da quelle belve.
Se cado, mi spaccherò la schiena.
Potrei riuscire a trovare un insediamento, se seguissi il corso del fiume fino a valle.
Se cado, l'acqua gelida mi congelerà all'istante.
Scendendo a terra, troverò un riparo dalla neve, che sta venendo giù sempre più fitta. Non li sopporto più, quei fiocchi bianchi negli occhi.
Se cado, mi prenderà il panico, e non sarò più in grado di controllarmi.
Se cado, nuoterò.
Se cado, affogherò.
No. È la mia unica scelta. E non cadrò.
Respirando pesantemente per cercare di aspirare un po' d'aria dalla nube di neve che mi rotea attorno, mi muovo verso gli alberi incriminati. Devo salire, per arrivare al ramo giusto. E quando sono alla sua base, la distanza dal fiume che scorre quasi sotto di me sembra di dodici metri, non sei.
Inspiro. Espiro. Per un attimo, rimango in ascolto del vento. Poi vado.
Per un po', sono ancora circondato da un intrico di rami. Sembra che la corona dell'albero una volta si estendesse tutta sopra il fiume, ma una tormenta deve averne spazzata via buona parte. Mi rimangono sempre meno rami e rametti a cui tenermi con le mani, mentre con i piedi avanzo pianissimo sul legno più spesso.
Più i rami si diradano, interrompendosi bruscamente sotto la mia presa, più le mie percezioni si fanno terribilmente vivide. Sento gli aghi di pino, conficcati sotto i vestiti e appiccicati addosso dal sudore, che mi prudono sulla pelle. Sento il rombo del fiume sotto di me, che ora sembra una mitragliatrice in azione più che un richiamo materno, ma assolutamente non oso guardare in basso.
E sento il vento che mi fischia nelle orecchie, più forte a ogni mio passo. E sento la neve, che mi trascina per le vesti, mi spinge e mi tira, in un turbine bianco sempre più preoccupante.
A farmi compagnia, sono rimasti solo due rami, alla mia destra. Ma cominciano ad essere davvero troppo fini per affidargli il mio peso. Lì per lì penso di accovacciarmi sul ramo più lungo e spesso per continuare ad avanzare, ma poi mi rendo conto di un problema tecnico a cui non avevo pensato: anche quello si assottiglia. Nel punto di contatto con il ramo dell'albero dell'altra sponda, entrambi non sono più spessi del mio dito.
All'inizio, l'idea era quella di arrivare fino ad un certo punto in piedi, poi mi sarei appeso con le mani, pregando e sperando di farcela a spostarmi con la forza delle braccia. Ma non mi ero reso conto di quanto i rami fossero piccoli, sulla punta. Per non rischiare che si spezzino evitando la parte più fina, dovrei allungare le braccia per qualcosa come quattro metri. Ma ho come la sensazione che sia un po' impossibile. E poi, non appena avanzassi troppo, il ramo su cui sono si piegherebbe verso il basso, allontanandomi troppo dalla punta dell'altro... no, non può funzionare.
Ancora reggendomi ai sottili rami sulla destra, mi arrischio a sporgermi un attimo. E se davvero provassi a nuotare...
Affogherei.
Il fiume pare l'ingresso diretto per l'Inferno. Rocce appuntite si fanno strada verso la superfice contro la forza distruttrice dell'acqua, che scorre senza possibilità di limiti. Il rumore è simile a un rombo di tuono. I pochi ramoscelli e sassolini trasportati dall'acqua vanno ad una velocità tale che faccio fatica a vederli.
Se cado, affogherò.
La neve mi turbina attorno impazzita, indemoniata, di un bianco purissimo che a tratti mi blocca la vista. E io ho freddo. Ho sempre più freddo.
L'unica soluzione sarebbe saltare. Un salto di oltre cinque metri, per poi aggrapparmi all'altro ramo con le mani.
Guardo indietro. La sponda da cui sono venuto. E decido di tornarci.
Non salterò verso la morte. Al diavolo i lupi.
I lupi.
Maledizione, i lupi.
Non sono più due. Ne vedo tre, cinque, dieci. Nascosti nel fitto degli alberi, ma stanno uscendo allo scoperto. Stanno in un totale silenzio, e mi guardano, e aspettano.
Se torno indietro, potrei resistere sugli alberi un altro po', forse addirittura un'altra giornata. Ma finirei per svenire, per la stanchezza o per il freddo. Ma chi voglio prendere in giro, probabilmente non arriverei nemmeno alla fine della tormenta. E sarei cibo per i lupi.
Se vado avanti, mi aspetta il salto della morte.
Per un attimo, mentre la neve mi vortica intorno e mi si attacca ovunque, mi chiedo come ho fatto a finire in una situazione del genere. Morte indietro e morte avanti. E non riesco nemmeno a ricordare cosa posso aver fatto per meritarmi tutto questo.
Poi sento uno scricchiolio. Il ramo a cui mi tenevo con le mani è troppo fino. Un altro secondo, e la punta mi rimane in mano.
Allargo istintivamente le braccia, e riesco a non perdere l'equilibrio.
E vado avanti. Un passo dopo l'altro, vado avanti. È la mia unica possibilità, lo so.
Non sto più tremando. Sono terrorizzato e infreddolito, ma sono fermo. Ingoio il groppo che ho in gola, e mi ordino di mantenermi calmo, concentrato. Freddo come la neve che mi tira i capelli e la maglia, cercando di farmi perdere il poco equilibrio acquisito.
Sto arrivando al limite. Ancora qualche passo.
Mi sembra che la tempesta si stia calmando, ma forse sono io che non la noto più. Ogni suono, ogni percezione sta diventando ovattata. Il rombo del fiume è distante, il canto del vento sembra solo il ricordo di ciò che era prima. Perfino il mio respiro sembra muto, anche se vedo le nuvolette d'aria calda condensarsi nella tormenta.
Tutto ciò che conta è l'altro ramo. L'altra parte.
Tutto ciò che conta è sopravvivere.
Quando sento che il legno sotto i miei piedi comincia a piegarsi troppo, barcollo un po' e mi fermo. Inspiro, espiro. Osservo la neve, e oltre, la mia meta. Inspiro, espiro. Piego le ginocchia, e mi lancio.
Volo insieme alla neve. Volo al di sopra dell'acqua, disteso nell'aria, le braccia tese allo spasimo.
Se cado, affogherò.
Non vedo più nemmeno l'altro ramo. Sto solo volando, nella direzione in cui mi sono spinto. Non so più niente, se non che devo aggrapparmi a qualcosa. So solo che devo vivere.
Quando stringo di nuovo il legno con le dita, la prima cosa che sento è una sensazione di caldo sollievo lungo la spina dorsale. Poi il dolore atroce alle braccia, che sembrano volersi staccare dal corpo troppo pesante e lasciarlo cadere.
Rimango appeso per qualche secondo. Il ramo si piega un poco, ma non troppo. Le braccia mi fanno un male terribile. La neve mi vortica ancora attorno, sempre un po' meno famelica.
Sembra tutto uguale. Ma io ce l'ho fatta.
Mi guardo indietro l'ultima volta. I lupi sono lì, che mi fissano. Ma stanno ben lontani dalla riva.
Non mi seguiranno, realizzo. Ha funzionato. Sono libero.
Con la spinta del sollievo, mentre mi rigiro verso l'altra sponda, lascio il ramo con una mano e la lancio più avanti, per continuare ad avanzare.
Sull'altra sponda c'è un lupo.
È alto almeno il doppio di un essere umano. Sbava, e ha i denti scoperti. Gli occhi rossi grandi come piatti da portata mi fissano ferali.
Urlo.
Manco la presa.
E cado.
--
Sto annegando. Ho sbattuto la testa contro qualcosa. Non vedo niente. Il freddo è mortale. Non capisco dov'è l'alto, dov'è il basso e dov'è l'ossigeno.
La corrente mi trascina con una forza cento volte maggiore di quella della neve, facendomi aggrovigliare e rotolare a suo piacimento. Passo un tempo infinito con la bocca serrata, cercando la superfice. Alla fine, disperato, prendo una boccata d'acqua, ascoltando i polmoni imploranti invece del cervello.
Sono risalito in superfice? Sto respirando. È allora perché è ancora tutto nero e gelido e vorticante?
--
Quando apro gli occhi, sono girato su un lato. La prima cosa che vedo sono una serie di zampe, la pelliccia che va dal grigio scuro al nero.
La coscienza torna come una secchiata d'acqua gelida. Istintivamente, sgrano gli occhi, urlo e mi trascino indietro con le mani.
Sbatto con la schiena contro qualcosa di umido. Fauci.
Sono totalmente circondato.
La testa ha cominciato a pulsare. I lupi attorno a me si limitano a guardare, alcuni con i denti scoperti, ma nessuno ringhia. Sono così tanti e così vicini che non ho praticamente spazio per muovermi.
Davanti a me, c'è l'essere. Da terra, sembra tre volte più alto. Ed è bagnato. Fradicio.
Non posso scappare. Mi fa male tutto. Non ho più niente da perdere.
E poi, capisco che devo aver dato proprio una bella botta alla testa. Perché sento una voce.
- Sei il primo essere umano capace di non bagnarsi che vedo da secoli, figlio di Nettuno. -
È stato il lupo enorme, a parlare. Non so come faccio a saperlo.
- Partiamo davvero male. Sono stata costretta a bagnarmi per salvarti, anche se avresti potuto salvarti benissimo da solo. Emani un grande potere, ma non sembri esserne cosciente. Devo capire cosa fare con te. -
Il lupo - anzi, la lupa, a quanto pare - si scuote. Goccioline d'acqua volano dalla sua pelliccia in tutte le direzioni.
Ora sì che sono sicuro di essere svenuto e di star sognando.
Anche se i dolori che provo sembrano così reali...
La lupa emette una specie di brevissimo latrato, e un'altra bestia mi balza addosso. Le braccia mi cedono, e poi sono sdraiato supino. Le zampe del lupo mi pesano sul petto. Osservo il muso a pochi centimetri dalla mia faccia, e mi viene voglia di piangere.
- Perciò dimmi, figlio di Nettuno, qual è il tuo nome?- la voce dell'essere mi rimbomba nella testa.
Qual è il tuo nome?
Fino ad ora, ho avuto paura. Tantissima paura. Dei lupi, del fiume, della neve. Ho avuto paura, sono stato disperato. Sono disperato. Ma nel momento in cui recepisco quella domanda, un artiglio di panico mi lacera il petto. E capisco perché la mia mente sembra un buco nero, e perché mi sento così confuso, e perché non ho la più pallida idea di cosa ci faccio qui.
Qual è il mio nome?
Chi sono io?
- Io... io non lo so... -
Non guardo più il lupo sopra di me. Sto guardando il cielo.
La neve cade piano, ballando ancora un poco la sua danza ipnotica.
Angolo autrice
Dopo più di due anni, è un'emozione pubblicare una storia ex novo.
Mi sono sempre chiesta cosa fosse successo durante l'addestramento da romano pre-Campo Giove di Percy, perché zio Rick non dedica molto spazio a questa parte della sua storia. Ma il personaggio di Percy cambia, durante questi mesi mai descritti, sia in termini di comportamento che di abilità in battaglia. Eppure, di fanfiction sul suo addestramento si trova poco e niente, in italiano soprattutto.
Questa storia perciò è un esperimento. È stata dettata dalla voglia di poter leggere una fanfiction del genere, più che scriverla. Non ci saranno date di pubblicazione fisse, andrò un po' a braccio, in base all'ispirazione.
Unico cambiamento che ho fatto: siamo a inizio febbraio, non aprile. Volevo darmi un po' di tempo in più, e il dettaglio del freddo era irresistibile. Per il resto, più o meno, ho cercato di seguire quanto ricordavo era stato detto ne "Il figlio di Nettuno". Ovviamente, aggiungerò anche diversi dettagli e fatti mai citati nei libri.
Alla prossima, spero il prima possibile (ammesso e non concesso che io non muoia di caldo).
~Philo_Sophia08
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro