Prologo
"Forse le storie che leggiamo, scriviamo e raccontiamo non sono che una seconda luna, inventata dagli umani per sconfiggere il buio nelle notti di tempesta"
Alessandro Baricco
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PENELOPE NON AVEVA MAI creduto che i sogni si potessero avverare. Non era una grandissima fan dei lieto fine come nei film felici e leggeri, quelli che guardi quando non hai nulla da fare e tutto ciò che ti resta è una ciotola di pop-corn che, se non li mangi adesso, si buttano. Non aveva mai alzato lo sguardo alle stelle, pregando le loro luci lontane di esaudire un suo desiderio annidato nel petto. Non si era mai sentita in obbligo di esprimere un desiderio soffiando, di anno in anno, sulle candeline che segnavano l'appassire di un momento e lo sbocciare di un altro. E forse questo perché di desideri ne aveva uno, al massimo due.
Se qualcuno le avesse mai chiesto cosa avrebbe voluto cambiare della sua vita, lei avrebbe risposto veloce e sicura. Niente. Nada de nada. E questo perché, secondo lei, della sua vita non c'era nulla che andava cambiato; ogni cosa le andava bene così com'era.
Aveva l'amore di un fratello maggiore, per il quale lei stravedeva - e pareva non essere l'unica; non vorreste sapere quante semidee avevano una cotta per Luke. Aveva la mandria dei suoi fratellastri e sorellastre, quei tremendi burloni con in faccia sempre un ghigno da volpe; aveva una casa per la quale nutriva un amore radicato fin dentro le ossa, che quasi le ancorava le piante dei piedi al terreno e le impediva di anche solo pensare di andarsene di lì; aveva degli amici, il cui numero si poteva tranquillamente contare sulle dita di una mano, ma sapete come si dice: "avere pochi amici ma buoni". Aveva la fortuna di possedere le possibilità di fare ed amare tutto ciò che voleva; aveva la stabilità di un'adolescenza nascente che lei, ora come ora, non avrebbe cambiato di una virgola.
E, esperienze passate a parte, aveva una bella vita. Non c'era nulla che avrebbe chiesto in più.
Aveva, aveva, aveva. Parlando di ciò che aveva e non di ciò che era, Penelope poteva definirsi una persona felice. Perché aveva. Se poi qualcuno le avesse chiesto cosa avrebbe voluto cambiare di sé stessa, lei avrebbe immediatamente consegnato alcuni suoi tratti caratteriali al primo che passava. Alcune cose stridevano un poco con le altre, facendole storcere il naso. Qualcosa che andava bene c'era, così come era presente quella scheggia di legno nel polpastrello, fastidiosamente dolorosa e di cui lei avrebbe fatto tranquillamente a meno.
Penelope era sempre stata quel tipo di persona che non ha nemmeno un briciolo di pazienza e che non sa mantenere il silenzio per più di cinque minuti di fila.
Questo chiaramente spiegava quella frenesia che spesso le popolava le membra, rendendole le dita irrequiete e conducendola nella fretta continua nel fare qualsiasi cosa. Penelope leggeva, si muoveva, parlava, connetteva le sinapsi del suo cervello velocemente. Lei era, in tutto e per tutto, la velocità.
Pensava. Penelope pensava rapidamente, accendendo lampadine e aprendo cassetti. Il problema era, cosa che spesso portava le persone a giudicarla come una impulsiva, che quando pensava di fare qualcosa, si focalizzava solamente sull'azione in sé, tanta fretta aveva. Sembrava ogni volta che il mondo stesse per esploderle in mano. Concentrandosi quindi solo su quel momento, le conseguenze date dall'azione da lei compiuta non venivano totalmente contemplate. Lei, come in futuro qualcuno le avrebbe detto, ragionava a metà.
Tipico era quel suo continuo analizzare il mondo che la circondava con la fame nello sguardo, come se avesse appena mandato giù dieci tazze di caffè una dopo l'altra, sempre con quei suoi grandi occhi blu che saettavano da un angolo all'altro della realtà alla ricerca di qualcosa che potesse divertirla. Il ghigno furbo che spesso affiorava sulle sue labbra era il suo segno distintivo: vedevi quello, e subito comprendevi che lei aveva intenzione di fare - o aveva già fatto - un qualche tipo di danno. Frequenti gli scherzi lì al campo, per la maggior parte erano opera sua e degli Stoll.
Penelope era una ragazzina di dodici anni un po' polverosi, quasi conclusi, con un sorrisetto simpatico perennemente stampato sulle labbra. La sua pelle pareva cambiare colore con le stagioni, quasi fosse la tela di un pittore che non riusciva a decidere quale tinta utilizzare. D'estate s'abbronzava così tanto da sembrare di un'altra etnia, assumendo un colorito bronzeo; d'inverno, invece, era pallida come un foglio di carta nuovo. Costanti erano però le lentiggini che le punteggiavano la pelle, come macchioline d'inchiostro su una pergamena. Aveva lunghi e perennemente legati capelli rossi come l'ambra - che poi ancora si chiedeva da dove fossero usciti di quel colore, in una famiglia di biondi - le cui ciocche più vicine al viso le sfioravano, corte com'erano, le clavicole sporgenti. Si guardava allo specchio ed osservava la sua pelle rosea tendersi in quei punti del suo corpo che erano in procinto di allungarsi con la crescita. Conservava ancora, in alcuni punti, le forme morbide e lisce della bambina che era stata; in altri era già evidente la donna spigolosa che sarebbe divenuta. Spalle strette, mento appuntito su un viso sottile, gambe di sua opinione un po' troppo magre. Incastonate sul suo viso stavano due maestose iridi cerulee, sempre luccicanti di furbizia e screziate vicino ai bordi di un azzurro un po' più vivido, che ne delineava il contorno ben nitido. A seconda della stagione passavano dall'essere specchi d'acqua limpida al riflettere la superficie verdastra di un piccolo stagno straripante di piccole raganelle.
Aveva dodici anni e non guardava né avanti né indietro; si trascinava ancora l'antica percezione dei bambini che tutto ciò di esistente è il momento presente. Al massimo, s'allungava a pensare a cosa avrebbe fatto il giorno dopo, destreggiandosi tra le varie attività di cui il Campo Mezzosangue disponeva. Non si era mai chiesta cosa il futuro avrebbe riservato lei - non era come alcuni figli di Apollo, che per ore se ne stavano a rimuginare sul futuro e gli avvenimenti che avrebbe portato. Si poneva domande, ma sempre circoscritte alla stagione viva del presente che stava vivendo. Qui sbocciava uno dei terribili difetti che aveva e di cui, poche righe sopra, vi ho parlato: quello di agire sempre senza considerare le conseguenze delle sue azioni.
Penelope era anche quel tipo di persona che, ad un'analisi poco attenta, potrebbe essere giudicata una non in grado di ascoltare. Perché? Semplicemente, lei di rado metteva in atto i consigli che le venivano dati, poiché preferiva fare di testa sua. Ma li conservava, i consigli: li chiudeva in un piccolo cassetto, sapendo che, quando ne avrebbe avuto bisogno, quelli sarebbero stati lì per essere utilizzati.
Tra le tante parole di quell'infanzia appena sfiorita, lei conservava una frase ben nitida nella sua testa: "le azioni di oggi sono le cause di ciò che accadrà domani". Tante cose, tanti concetti le sue orecchie avevano recepito e la sua mente archiviato, negli anni. Con il passare del tempo, alcuni insegnamenti andavano via via perdendosi, come una vecchia fotografia i cui colori svaniscono un poco. Tutte quelle lettere avevano finito per accavallarsi l'un l'altra tra gli infiniti cassetti della sua memoria, perdendo l'ordine originario. Ed ora, tutto ciò che restava di quei tanti insegnamenti che lei, da bambina, quasi non aveva capito, erano quello sopracitato e questo, impresso nella sua mente come un marchio di fuoco sulla pelle.
"Χαλεπòς δέ ἐστιν ὁ βίος". La vita è dura.
Che farsene, di quell'insegnamento, lo aveva imparato solo l'anno prima, durante l'impresa che aveva dato inizio alla sua carriera da semidea. Per farla breve: lo scudo di Achille, il vero scudo del vero Achille, era stato ritrovato sulle spiagge di Long Island, risplendente di bronzo al sole. Tra la folla di semidei che volevano a tutti i costi la possibilità di scendere nell'Ade per restituire al divino Achille lo scudo, lei si era proposta con la sola voglia di dimostrare agli altri - ai grandi - di che pasta era fatta. Se l'erano guardata tutti in modo stranito, osservando la sua bassa statura e il corpicino gracile di una bambina. Ma alla fine, testarda com'era, aveva ottenuto la possibilità di riportare ad Achille, uno di quei semidei che più ammirava per le prodezze da lui compiute, il famigerato scudo.
Di quell'impresa, conclusasi solo l'estate prima, Penelope ricordava che lo scudo pesava come un sacco di mattoni, legato con sicurezza sulle sue spalle. Ricordava il suono che le suole delle sue scarpe creavano camminando sul suolo degli Inferi, in quel luogo in cui l'aria era satura di zolfo e odore di bruciato. Lei e Nerea avevano passato le peggio peripezie per riportare quello scudo al suo proprietario.
Nerea era una tredicenne dal luminoso sorriso e gli occhi a mandorla, scuri di un'oscurità nebulosa, che erano quieti e curiosi. Aveva guance morbide e il viso tondo, dai lineamenti dolci che si sposavano alla perfezione con la delicatezza del suo carattere. Le lunghe ciocche dei suoi capelli neri erano sempre adorne di due o più trecce articolate e che, quando faceva caldo, lei si acconciava intorno al capo cosicché non le dessero noia. Aveva spalle strette e fianchi generosi, freschi di sviluppo, sulla cui pelle lei si divertiva a disegnare piccoli quadrifogli, sostenendo che un giorno, in quei punti, ci si sarebbe fatta dei tatuaggi. Aveva un profondo amore per tutto ciò che era di colore verde e pareva essere la persona più fortunata dell'intero pianeta. Indeterminata, alloggiava nella Casa Undici da quando aveva quattro anni. Le era stato raccontato di essere apparsa sul portico della Casa Grande, che giocava con immensa tranquillità con la sua bambola di nome Poppy. Così, puff!, era apparsa, insieme a Drew Tanaka, figlia di Afrodite e sua cugina da parte di padre. Delle due bambine si sapeva solo ciò che loro continuavano a ripetere, ovvero che erano cugine. Per il resto, di Nerea e di Drew non si sapeva nulla.
Avevano un bel rapporto, loro due. Nerea era ciò che di più simile ad una sorella Penelope avesse e le piaceva avere un rapporto del genere con una ragazza. Passare il tempo con lei significava rotolarsi nell'erba e ridere, sentirsi il petto e la testa leggeri e privi dei pesi di ogni preoccupazione, ridere e non smettere mai. Spesso, Nerea si stendeva tra le piantine di fragole, osservando il cielo, e le narrava a memoria i versi di poemi antichi. Incredibile era quella ragazza: un cronometro vivente ed una fonte infinita di memoria.
Le pale del ventilatore appeso al soffitto giravano in un vano tentativo di creare aria fresca. Inutile: la calura di quel mese di maggio quasi giunto al termine intaccava ogni cosa, rendendo le mani di Penelope bollenti come una teiera sul fuoco. L'unico suono che s'udiva nell'infermeria era il continuo tap tap prodotto dalla punta della sua scarpa, che lei insistentemente sbatteva contro il pavimento in legno. Ferma, immobile come una statua, il piede sinistro era l'unica parte del suo corpo che pareva muoversi. Pareva persino che non stesse sbattendo le palpebre sugli occhi. Le sue iridi anche si muovevano, frenetiche, scorrevano le pagine di un fumetto, mangiandosi con voracità ogni disegno e parola.
La copia tra le sue mani era vecchia e logora, come se ne avesse passate davvero di tutti i colori. I bordi erano rovinati, le pagine ondulate in ricordo di un vecchio bagno che avevano fatto in una pozzanghera, i colori della copertina un po' sbiaditi. A penna, sulla copertina posteriore, erano state scritte così tante cose che ormai ogni parola era illeggibile, come se l'unico foglio di carta disponibile nel giro di chilometri fosse stato sempre quello.
Da quanto stava lì seduta, quasi abbarbicata sulla sedia in plastica alla quale la pelle delle sue cosce si era ormai fastidiosamente incollata per via del caldo? Di certo, lei non ne aveva idea.
Quel ragazzino, il nuovo arrivato, pareva non avere la minima intenzione di svegliarsi. E be', si diceva Penelope, mica se la passava tanto male: dormire è uno dei più grandi piaceri della vita.
Era arrivato la notte precedente, accompagnato da Grover. Il suo arrivo era stato previsto alcuni giorni prima, ma lei non era nemmeno sicura che sarebbe mai arrivato vivo al campo. Si aspettava un suo braccio, o nemmeno quello. Il fatto che fosse Grover il suo protettore non le dava grandi aspettative, con tutta sincerità. Ricordando ciò che era successo in passato, non era sicura al cento per cento che il ragazzino riuscisse ad arrivare sano e salvo.
Ripensando al passato, però, non ce l'aveva con Grover. Non era stata colpa sua e non c'era motivo di addossargli ogni sentimento negativo scaturito da quel giorno, il giorno del loro arrivo. Le cose accadono sempre con una varietà che talvolta ci spaventa, presentandosi con sorpresa e spesso non producendo alcun rumore percepibile dall'orecchio umano.
Ed invece ce l'avevano fatta. Ora il nuovo arrivato se ne stava svenuto in uno dei letti dell'infermeria, senza un briciolo di forza. Lei si era presa il personale incarico di prendersi cura di lui, anche se non era una figlia di Apollo. Da quando era arrivato, non gli aveva staccato per un solo attimo gli occhi di dosso.
Saranno stati la sua condizione fisica al momento dell'arrivo, il fatto che in mano stringeva uno dei due corni del Minotauro, la sua tanto attesa presenza, ma lei non riusciva a fare a meno di stargli intorno. Anche se lui molto probabilmente nemmeno si era reso conto della sua presenza, quelle due volte che aveva aperto gli occhi, troppo concentrato sul viso della Chase che gli troneggiava di fronte. Non doveva essere stata una gran bella vista al momento del risveglio.
Ecco perché, oltre al forte interesse che nutriva per quel nuovo esemplare di piccolo dio, Penelope voleva restare a tutti i costi ancorata a quella sedia, vicino al suo letto. La Chase pareva fin troppo interessata anche lei, ossessionata dalla Grande Profezia com'era. Credeva che lui fosse il segno che tutti stavano aspettando - più che altro, che lei aspettava. Quella ragazzina voleva avere una dannata impresa e buttarsi a capofitto in quel mondo che pullulava di mostri e mostriciattoli vari. Come se non le fosse già bastato quello che avevano vissuto entrambe al loro arrivo al campo; aveva la smania di uscire di lì. Penelope, al contrario, se ne stava tanto bene, protetta dalle barriere magiche fornite dal pino di Talia. Aveva già avuto la sua impresa e poteva passare le sue giornate con tranquillità; una nuova avventura era proprio l'ultima delle cose che avrebbe voluto.
Troppo concentrata a divorare quel fumetto che chissà quante volte aveva già letto, Penelope non si accorse subito che il nuovo arrivato si era svegliato. Solamente quando il suo piede smise di fare tap tap sul pavimento lei poté udire un sospiro stanco e un po' debole farsi strada nel silenzio dell'infermeria. Alzò di scatto lo sguardo dalle figure colorate e dai nitidi contorni neri.
«Finalmente di ritorno dall'Ade, piccoletto»
Il ragazzo la squadrò confuso, strizzando più volte gli occhi come se dovesse metterla a fuoco. Penelope si alzò dalla sedia e vi posò sopra il fumetto, avvicinandosi poi al nuovo arrivato e sedendosi sul bordo del letto. Dal comodino accanto al letto prese il bicchiere di ambrosia che i ragazzi di Apollo le avevano raccomandato di dargli non appena avrebbe ripreso un po' di coscienza. «Tieni, bevi questo. E' praticamente una bibita energetica, ti farà sentire meglio»
Lui, sbattendo per l'ennesima volta le palpebre sugli occhi, bevve dalla cannuccia lunghi sorsi di ambrosia, storcendo appena i lineamenti del viso in una smorfia quando ingoiava. Doveva avere la gola secca e arida come deserto. Quando ebbe finito di bere, le sue guance parevano avere una punta appena accennata di colore in più.
«Meglio di prima?» chiese Penelope, osservandolo curiosa.
«Che cos'era?» chiese lui, la voce che gli raschiava la gola quando veniva fuori.
«Non si risponde ad una domanda con un'altra domanda» replicò Penelope con un sorrisetto divertito, riponendo il bicchierone di ambrosia sul comodino. «Comunque: qualcosa di estremamente buono e che ti darà una grande mano a rimetterti in sesto, questo era»
Il ragazzino annuì appena, umettandosi le labbra secche. Aveva negli occhi lo sguardo assonnato di chi vorrebbe solo crollare di nuovo in un sonno profondo come l'oceano. I suoi occhi parevano, per quello che lei riusciva a vedere attraverso il velo di stanchezza che era calato sopra di essi, delle perle di vetro in cui erano state racchiuse le onde del mare, verdi nello stesso identico modo. La osservò con calma, percorrendo i lineamenti del suo viso con una curiosità fioca dietro le iridi.
«Sono Penelope» disse lei, sorridendogli.
Penelope Castellan credeva fermamente in tre cose.
Uno: l'esistenza dei supereroi come IronMan e Superman. Due: la velocità di una macchina da corsa era raggiungibile da una persona, e quella persona era lei. Tre: sorridere genuini a qualcuno che non si conosce quando lo si incontra per la prima volta è il modo migliore per metterlo a proprio agio.
Il sorriso, diceva lei, è ciò che di migliore esiste al mondo. Non il sorriso finto, falso, quello che dietro cela tante brutte cose. Parlava del sorriso vero, quello che affiora sulle labbra e ci mette tanto ad andar via. Luke aveva quel tipo di sorriso che spinge tutti gli altri, inspiegabilmente, a sorridere a loro volta. E questo, secondo lei, era il miglior tipo di sorriso che si potesse incontrare.
«E... il tuo nome me lo dirai quando ti sarai rimesso a posto. Non c'è urgenza per i convenevoli, anzi, preferisco anche evitarli. Sappi però che io sono Penelope». Dovette mordersi la lingua per smettere di parlare. Aveva la tremenda abitudine di infilare nelle frasi sempre troppe parole, troppi aggettivi, troppi avverbi. Riempiva, riempiva e riempiva: odiava vedere spazi vuoti. Penelope era una di quelle persone che quando iniziano a parlare non la finiscono più.
Il ragazzino parve quasi grato che lei non avesse continuato a parlare, come se avesse già capito quanto logorroica fosse. Annuì piano una seconda volta, guardandosi intorno. Dopo pochi secondi spesi ad osservare il luogo in cui si trovava, i suoi occhi scattarono nuovamente sulla figura di Penelope. «Grover? Dov'è?»
Lei sorrise di nuovo e drizzò la schiena, mettendosi dritta. «Te lo vado a chiamare; aspettava qui fuori»
Grover non era particolarmente in forma, proprio come il nuovo arrivato. Aveva delle profonde occhiaie che gli solcavano il viso, segno di quella notte che aveva passato praticamente in bianco. Il satiro si sedette sulla sedia che in precedenza lei occupava, non prima di averle dato il suo fumetto.
La ragazzina si strinse al petto quella copia ormai logora che, come lei, ne aveva passate davvero tante. Lanciò un ultimo sguardo al nuovo arrivato e lo salutò con la mano, accompagnando quel silenzioso "ci si vede" con un piccolo sorriso. Lui la seguì con lo sguardo fin quando non ebbe varcato la porta dell'infermeria.
Penelope Castellan non credeva che i desideri si avverassero, ma l'arrivo di quel ragazzino stava iniziando a farla ricredere. Un nuovo compagno di giochi - stenterete a crederci, ma ho davvero detto "compagno di giochi" - era arrivato, e lei non vedeva l'ora di sapere cosa poteva farne di lui. Dopotutto, questo era uno dei due piccoli desideri che covava nella sua gola, nascosti persino alla sua voce: avere un nuovo viso da guardare in quella moltitudine di facce già fin troppo conosciute, per infrangere la noia di un'estate che pareva non iniziare mai e riempire le sue mani a coppa di una nuova amicizia, della quale sentiva il disperato bisogno.
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