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23. Seconda possibilità

「𝐀𝐍𝐍𝐀𝐁𝐄𝐓𝐇 」

                    OGNI COSA ERA COSI' CONFUSA che persino la mente di Annabeth, una di quelle menti che mai si lascia scombussolare con tanta facilità perché legata al lato razionale d'ogni cosa, era un groviglio di domande, dubbi, perplessità e paura.

Avrebbe voluto avere lì Luke, accanto, per chiedergli come mai le cose sembravano andare tutte per il verso sbagliato. Un po' come quando era piccola. Prima di imparare a porsi domande da sola, lui era come la sua enciclopedia portatile: sapeva tutto, a rigor di logica lei poteva chiedergli tutto.

Luke, Luke, Luke. Non lo si trovava più. Lei e Penelope lo avevano cercato per l'intero campo, chiamando il suo nome a gran voce nel bisogno di averlo lì, lì con loro, nel bisogno di avvertirlo riguardo ciò che era accaduto al figlio di Poseidone. Ma nulla, il ragazzo pareva essersi dissolto come la nebbia mattutina al giungere delle ore più calde.

Ed ora sedevano tutte e due nell'infermeria, su quelle dannate sedie in plastica bianche sulle quali d'estate, in pochi minuti, ti pare che la pelle vi si sciolga sopra, ognuna su un lato del letto dove Percy giaceva, immobile e pallidissimo in volto. Penelope sedeva sulla destra, rigirandosi nervosamente la sua fish tra le dita, con gli occhi di zaffiri fissi sul viso del suo amico. Annabeth, invece, cercava di evitare che Percy si strozzasse col nettare che stava lentamente sorseggiando, dal bicchiere che lei stringeva in mano.

«Dovrei tornare a cercarlo?» chiese Penelope, infrangendo di colpo il silenzio con quella sua domanda. Era tesa come una corda di violino, lo si poteva vedere da lontano un miglio.

Annabeth studiò per pochi istanti il modo in cui la sua gamba sinistra non riusciva a star ferma, muovendosi costantemente su e giù, su e giù. Osservò il modo in cui si passava le dita tra i capelli ogni due per tre, tirando le prime ciocche come a volersi trascinare fuori da quello stato di agitazione tramite una minuscola dose di dolore fisico. Aveva speso una buona mezz'ora a tormentarsi la pelle del braccio con pizzicotti, tanto che lei aveva dovuto intimarle di smetterla.

Sospirò, distogliendo lo sguardo dal segno rosso che s'era lasciata. «Ci raggiungerà, vedrai. Non può essersene andato.»

«E se invece l'avesse fatto?» replicò la figlia di Ermes, la voce un po' più acuta del solito. «Stamattina, quando è uscito dalla cabina, aveva un borsone con sé. E se... e se fosse andato via?»

Annabeth non ebbe il coraggio di valutare quell'opzione.

«Santo cielo, Annabeth» fece Penelope, quasi in un sussurro, pronunciando il suo nome come se non riuscisse a dire altro, in quel momento.

Sollevò lo sguardo su di lei. La rossa s'alzò con un gesto maldestro, noncurante, mandando indietro la sedia nel farlo. Iniziò poi a misurare la stanza vuotain passi, le mani sui fianchi strette sul tessuto della maglietta. In viso aveva un'espressione bianca come un foglio di carta.

«Starà bene, tranquilla» disse lei, avendo ormai compreso che la maggior parte del suo stato d'agitazione era dovuta alle condizioni di Percy. «Tu e Chirone avete fatto un lavoro eccellente.»

«Difficile, vorrai dire.» Penelope le parlava dandole le spalle, appoggiatasi con le mani al bordo di un letto vuoto. «Trovare quel dannato antidoto è stato un parto. Non ho mai visto una cosa del genere, prima.»

Annabeth la scorse rabbrividire.

Seguì un lungo ed assordante silenzio, gravoso sulle loro spalle, durante il quale Annabeth ripensò agli eventi di quella giornata. Era stato tutto troppo veloce. Un attimo prima, si arrovellava la testa nella paura che Penelope ci restasse male, a sapere che sarebbe partita; un attimo dopo, sorrideva perché avevano, finalmente, chiuso ogni vecchia ed amara questione. Un attimo prima, cercava di far ragionare Drew ed assisteva alle strazianti lacrime di Nerea; un attimo dopo, il panico se la mangiava viva.

Penelope si strofinò nervosamente il palmo della mano destra. Il suo sguardo saettò dalla porta, spalancata per far passare aria nonostante questa fosse immobile sull'intero campo, al suo. Stava forse per dirle qualcosa, perché schiuse le labbra, ma non ne ebbe modo.

Chirone rientrò nell'infermeria, ora seduto nella sedia a rotelle magica. Pochi minuti prima, era andato a tranquillizzare quella pover'anima di Nerea, che aveva avuto un tremendo attacco di panico. Sul Campo Mezzosangue aleggiava un'aria di tensione, crepitante come elettricità, mentre la voce su ciò che era successo si diffondeva velocemente.

Gli occhi del centauro cercarono quelli di Annabeth. «Non si è ancora svegliato?»

Lei scosse il capo, tornando a guardare Percy. Aveva ripreso un po' di colorito, sorseggiando il nettare, ma era ancora molto più pallido del solito. «Ancora fuori uso.»

«Chirone, come ha fatto un dannato scorpione dell'abisso ad entrare nel campo?» sbottò Penelope, voltandosi di scatto verso il centauro. «Chi potrebbe mai...?»

«Non lo so, figliola» rispose Chirone, scuotendo il capo. Tamburellò le dita sul bracciolo della sedia. «Qualcuno deve averlo evocato, ma non ho la minima idea di chi possa essere stato.»

«Luke?» chiese speranzosa Penelope. «Si è fatto vivo?»

Chirone non le diede risposta, ma dal suo sguardo entrambe le semidee compresero che sarebbe stata una risposta negativa in ogni caso.

Seguirono altri interminabili minuti di greve silenzio.

Fu il debole colpo di tosse di Percy ad interromperlo. Tutti e tre i presenti si voltarono a guardarlo, Penelope che s'avvicinava al letto e Chirone che faceva lo stesso. Argo, in piedi in un angolo a fare la guardia, non mosse un muscolo o proferì parola, come sempre faceva.

Percy strizzò gli occhi, aprendoli poi lentamente. Si guardò intorno, strizzandoli ancora per via della luce che li aveva colpiti, e tirò su dal naso. Quando guardò chi aveva intorno, la sua espressione si rilassò.

«Ci risiamo» disse a Penelope, la voce roca e raschiata.

«Idiota» sbuffò lei, sorridendo subito dopo. Il viso le si era illuminato di colpo. «Che accidenti di problemi hai, Jackson? Tutte a te succedono.»

Percy, se fosse stato in piedi, si sarebbe stretto tra le spalle. «Che vuoi che ti dica, sono speciale.»

Annabeth sorrise, lasciando che le sue labbra si distendessero completamente. Era felicissima di vederlo sveglio. «Eri grigioverde quando ti abbiamo trovato» disse, cogliendo la sua attenzione.

«Dovresti indossare quel colore più spesso» Penelope si abbandonò contro lo schienale della sedia. «Ti sta particolarmente bene.»

Percy sorrise appena, spostando poi lo sguardo sulla sua mano destra, fasciata abbondantemente. Aggrottò le sopracciglia.

«E' una brutta ferita» disse Annabeth. «Se non fosse stato per le cure di Chirone...»

«Non esagerare, su» intervenne il centauro. «Percy deve ringraziare anche la sua costituzione.»

«E me» aggiunse Penelope, celando un piccolissimo sorriso. «Sarà la dodicesima volta che gli salvo la vita.»

Chirone sorrise, ma il suo era un sorriso tirato sul volto pallido. Aveva l'aria spossata, impressa negli scuri occhi velati dalla stanchezza, come se avesse passato la notte intera a correggere compiti di latino non propriamente brillanti. «Deve ringraziare anche te, vero» annuì. Voltò poi lo sguardo, tornando a guardare Percy. «Come ti senti?»

«Come se mi avessero congelato le budella e poi le avessero passate al microonde» rispose il dodicenne.

«Descrizione appropriata, considerando che il veleno era di uno scorpione dell'abisso.» Gli occhi di Chirone parvero ombrarsi, come se vi fosse calato sopra uno scuro velo. «Ora dimmi, se puoi, cos'è successo esattamente.»

Con il racconto di Percy, ogni cosa andò lentamente in frantumi. Dolorosamente, Annabeth percepì i frammenti dello specchio rompersi uno per volta, in una lenta agonia di vetri infranti e mani tagliate.

Tra un sorso di nettare e l'altro, il figlio di Poseidone raccontò tutta la storia.

Ora, la sua mente si era definitivamente spenta. Andata, ogni corrente era saltata ed i fili erano stati tagliati. Era un pensiero inconcepibile. I suoi occhi erano fissi nel vuoto, immobili, la bocca ricolma di parole che non sarebbe riuscita a cavare fuori. Provò ad accendere la luce, ma la corrente era andata.

Con le labbra dischiuse in un respiro tremante, alzò lo sguardo dinnanzi a sé, sul viso di Penelope. Le parve di aver visto un fantasma, al suo posto. Aveva gli occhi vuoti, abissi freddi ed infiniti, lontani anni luce. Se ne stava congelata sul posto, le mani intrecciate in grembo ed i piedi puntati a terra. Non era nulla, nemmeno carta bianca. Carta stracciata.

Non seppe mai da dove tirò fuori le parole con le quali parlò. «Non posso credere che Luke...» trasse un respiro, storcendo subito il viso per soffocare lacrime rabbiose. «Sì. Sì, posso crederci. Sia maledetto dagli dèi, non è più stato lo stesso dopo l'impresa.»

«Bisognerà fare rapporto sull'Olimpo» mormorò Chirone, ancora pallido in viso. «Ci vado subito.»

«Luke è ancora là fuori, in questo momento» disse Percy, pronunciando il nome di Luke come se fosse la creatura più disgustosa dell'intero pianeta. «Devo andare a cercarlo.»

Il centauro scosse la testa. «No, Percy, gli dèi...»

«... non vorranno nemmeno sentir parlare di Crono, lo so. Zeus ha dichiarato chiusa la faccenda!»

Penelope, al suo tono di voce più alto, tremò.

Chirone sospirò. «Percy, lo so che è difficile. Ma non devi precipitarti fuori alla ricerca di vendetta. Non sei ancora pronto.»

Percy storse il viso in disappunto, ma sapeva anche lui che Chirone aveva ragione. Annabeth stessa si teneva ancorata alla sedia a fatica, furiosa e triste al tempo stesso. Lo sconvolgimento aveva ora lasciato il posto ad una rabbia scurissima, insorta nel momento stesso in cui la corrente aveva ripreso a funzionare nella sua testa.

«Non merita altro, però...» borbottò tra sé e sé il figlio di Poseidone.

Penelope s'alzò di scatto, facendo ribaltare la sedia. Annabeth sussultò al rumore improvviso, puntando gli occhi sull'esile figura della semidea, che ad ampie falcate usciva dall'infermeria. Ebbe il bruciante desiderio di seguirla, così ardente che per un istante gli occhi le si fecero lucidi.

Chirone sospirò, per l'ennesima volta, lo sguardo ancora rivolto alla porta e al punto in cui Penelope era sparita. «Non oso immaginare cosa stia pensando.»

«Chirone» lo chiamò Percy, preoccupato ora, «è davvero stata lei?»

Il viso del centauro si contrasse in una smorfia amara come il caffè. «Se Luke ha detto questo... potrebbe anche essere. Penelope è sempre stata eccellente nel furto.»

«Ha parlato della lingua ammaliatrice» replicò Percy. «C'entra una qualche figlia di Afrodite?»

«Sicuramente. Quella loro capacità è estremamente potente, Percy. Per colei, o colui, che la sa manovrare bene ed a suo piacimento, è un gioco da ragazzi convincere le persone a fare ciò che vuole. Ora, resta l'incognita numero uno: chi è la suddetta ragazza?»

Annabeth non spese tempo a pensarci. Il fatto era uno solo: Luke li aveva traditi. Aveva fatto una cosa orribile, se ne era andato, li aveva traditi. In primis aveva tradito sua sorella, l'aveva usata e l'aveva manipolata come più gli tornava utile. E poi, poi aveva tradito lei.

Faceva male come una pugnalata al centro del petto.

«Ecco perché Zeus pareva così impaziente di vederla, sull'Olimpo» affermò Percy. «Sospettava fosse stata lei.» Il dodicenne tirò di nuovo su col naso. «Chirone... la profezia dell'Oracolo... parlava di Crono, vero? E c'ero anch'io? E c'erano anche Luke, Penelope?»

Dall'esterno, sul portico, s'udì il tonfo sordo di qualcosa che cadeva in terra.

Chirone si voltò nuovamente verso la porta, rilasciando un sospiro stanco dalle labbra. Ancora, un secondo tonfo. Gli occhi del centauro parvero spegnersi ancora un po', flebile fiamma lambita dal vento. Voltò lo sguardo ad Annabeth, incrociando il suo, e lei capì.

Senza dire una parola, s'alzò dalla sedia. Non le importava più di tanto della profezia, in quel momento. Salutò Chirone con un breve cenno del capo e scoccò un ultimo sguardo a Percy, per poi uscire dall'infermeria con passi grevi.

Il campo era soleggiato, invaso dalla calura di quella giornata d'agosto. Il cielo, limpidissimo, ospitava le grandi e soffici masse delle nuvole candide, che deambulavano col vento, poggiate sul mondo come se a dividere cielo e terra vi fosse una linda cupola di cristallo. I gabbiani solcavano il cielo, lontane figure bianche nel sole, ed il frinire delle cicale nel bosco riempiva ancora il suono.

V'era, sul campo, posato un velo di pace così innaturale.

Non appena mosse un passo sul portico, Annabeth capì cosa aveva causato i rumori appena uditi. Le sdraio ed il tavolino da pinnacolo erano rovesciati malamente in terra, con tanto di carte sparse un po' ovunque sul pavimento di legno. I caccia-spiriti s'agitavano pigramente nella calda ed umida brezza che tirava.

E Penelope stava con gli avambracci poggiati alla ringhiera del portico, nella stessa posa in cui suo fratello usava mettersi. Annabeth, guardandola di spalle, ricordò in lei le stesse movenze di Luke, lo stesso modo di approcciarsi col mondo, e storse il viso in un'espressione intristita.

Osservò il modo in cui il sole pareva dar fuoco ai suoi capelli, e mosse un passo avanti.

«Non una parola» affermò Penelope con durezza, prima ancora che lei potesse dire o fare qualsiasi cosa. Annabeth si sorprese di averla sentita parlare, ma fece come le aveva detto, limitandosi ad avvicinarsi.

Per un istante, ebbe paura di farsi troppo vicina. Ma poi lo fece comunque, lo fece nonostante avesse il timore di un'esplosione d'ira da parte della figlia di Ermes. Quando la rabbia colpisce quelle persone che ne sono poco soggette, poco schiave, colpisce con forza e lascia un brutto segno.

Affiancandola però, i suoi occhi incontrarono il suo viso, e si sorprese. Penelope non pareva né arrabbiata né triste, né nessun altra cosa. Il suo volto era una maschera di ghiaccio. Assente, vuota, perfettamente immobile, impenetrabile.

A notarsi era una cosa, piccola come le lentiggini che tempestavano il suo viso e lo rendevano una galassia su un cielo d'alabastro. Aveva gli occhi rossi, stropicciati, stanchi, rotti. Il cristallo contenuto al loro intero aveva incontrato il pavimento ed era andato in frantumi. Piccolo spiraglio di luce attraverso il passo sbarrato d'una porta chiusa, era l'unico filo che le permise di vederla per davvero.

La brezza soffiò, portandole al viso il profumo d'arancio dei suoi rossissimi capelli.

Non una parola lasciò le loro labbra. Vi fu solo silenzio, per un tempo che Annabeth non si degnò nemmeno di provare a percepire. Restarono semplicemente lì, immobili, gli sguardi fissi su un qualche lontano ed irraggiungibile orizzonte, così come il limite del mare è desiderato dai marinai, da quegli uomini che ai confini del mondo vogliono spingersi, che cercano di ignorare l'amara consapevolezza che è tutto un correre e correre in cerchio. E per quanto possano bramare quella linea di confine, per quanto possano viaggiare, ci sarà sempre quel limite invalicabile, quella terra lontana e frutto d'un sogno che non si avvererà mai.

Annabeth si sentiva così. Si sentiva l'agonia di un essere umano che corre e corre a perdifiato, che corre anche se i muscoli bruciano ed i polmoni si perforano ad ogni respiro, nel disperato tentativo di raggiungere una meta che sa già essere persa in partenza.

Non era mai stata una persona molto empatica, o brava ad esternare le proprie emozioni. Forse, però, dovrei correggermi, perché lei, forse, le sue emozioni sapeva esternarle benissimo. Non ci aveva mai provato, semplicemente. Se le teneva dentro, celate o pressate oltre la sottilissima barriera della pelle. Prima o poi e lei, credo io, non lo sapeva, quella barriera si sarebbe rotta.

Penelope, al contrario, era sempre stata un libro aperto. Leggerle il viso era di una facilità incredibile, tant'è che spesso, durante qualche litigio, Annabeth poteva quasi anticipare ciò che avrebbe detto, avendoglielo letto negli occhi, nelle labbra, nelle guance rosse di agitazione. Quel giorno però, non lesse nulla. Non vi riuscì, e ci provò tante e tante volte, finendo solamente per andare a sbattere contro una parete. Avrebbe potuto provare a scalare il muro e cercarla oltre esso, ma era una struttura levigata e liscia, troppo alta e senza appigli. Troppo lunga anche: in qualsiasi direzione voltasse lo sguardo, il muro continuava all'infinito.

Iniziò a porsi tante di quelle domande che, se ve le dicessi tutte, impazzireste.

Guardare il sole splendere, placido come se nulla di tutto quello fosse accaduto, era come un'offesa nei suoi confronti. Per un singolo, folle istante, desiderò avere l'interruttore giusto per spegnere la stella e rendere ogni cosa buia, così che tutta quella dolce luce avrebbe smesso di farsi beffe di lei.

La superficie del laghetto delle canoe scintillava come mille diamanti nel sole, la pelle di porcellana di Penelope era bianchissima e segnata da tanti, altri e piccoli rossori, frutti di pizzichi e graffi dati dalla frustrazione.

Celando gli occhi alla luce del sole, si voltò a guardarla. Teneva gli occhi chiusi, le lunghe ciglia rosate adagiate le une sulle altre. Sapendo di non essere guardata, spese qualche attimo a valicare il suo profilo con lo sguardo. Il naso era piccolo e sottile, appena rivolto verso l'alto e ricoperto di tutte quelle macchioline d'inchiostro, le lentiggini. Le labbra sottili e rosate erano pressate insieme in una linea diritta e precisa.

Si chiese cosa racchiudesse in quel momento sotto le palpebre, ch'avevano il colore del cielo al tramonto. Pochi, miseri centimetri separavano i loro corpi e le loro pelli, ed Annabeth avrebbe voluto avvicinarsi per sentire se la pelle della ragazza era fredda come ghiaccio. Quello che avvertiva lei, standole accanto, questo era.

Si chiese tante cose, guardandola. Se ne avesse avuto il modo, avrebbe preso quei frammenti di cristalli e li avrebbe rimessi a posto. Ma se nemmeno si sentiva le mani, come avrebbe potuto farlo?

Non percepiva più i polpastrelli, i tendini racchiusi sotto la sua pelle. Congelate, intrappolate in una prigionia di ghiaccio. Non si sentiva le braccia, grevi stavano attaccate alle sue spalle. Pezzi di carne inanimata, andata a male, appesi al suo osso con corde sfilacciate. Non si sentiva le gambe, le ginocchia. Come paralizzata, non sentiva più niente.

Si guardava le mani, provava ad articolarle nella credenza che riuscendoci avrebbe capito di esserci ancora. Le muoveva ed erano come pietra, eppure lei non c'era.

Non si sentiva più. Non si sentiva più, perché il male era ovunque. Tutte le membra, agonizzanti i muscoli stavano contratti, tutto faceva male. Quando ti si frantuma l'anima, fa male tutto.

Combattuta stava con i piedi sulla linea di confine, indecisa su cosa fare. Voleva chiudere gli occhi, scappare per un attimo da quel mondo inondato di luce dove tutto ciò che i suoi occhi coglievano era il bianco che li bruciava. Non v'era scampo però, anche nelle tenebre scorgeva il suo viso. Nitido, accecante ancora come la luce dell'esterno; voleva serrare le palpebre anche lì ma non poteva farlo.

Non chiudeva gli occhi però, nel timore che se l'avesse fatto lei sarebbe volata via. Bastava un gesto, un guizzo dei muscoli, e se ne sarebbe andata. Come le foglie secche che giacciono in terra all'inizio dell'inverno, lei voleva raccorglierla e tenerla per sé, tenerla al sicuro dal vento freddo.

Ma c'erano tante, troppe foglie sul terreno. Stessi colori, rossi, aranci, marroni, e lei si sentì improvvisamente privata della loro conoscenza. Come daltonica, non li distingueva più. Cercarla fra tutte quelle foglie era come cercare un ago in un pagliaio.

Non le parlava, non la sentiva, non la leggeva. Ma, in una parte di sé che fino a quel momento le era rimasta sconosciuta, sapeva che anche Penelope si sentiva così.

Guidata da chissà quale istinto, forse dalla semplice voglia di farlo, allungò una mano e passò le dita tra alcune sue ciocche di capelli, come a voler districare qualche nodo. Un gesto così naturale che non si era mai concessa con nessuno, a parte sé stessa. Al primo, minimo contatto, Penelope si voltò a guardarla.

Annabeth si sentì lo stomaco annodarsi nell'incontrare quelle due pozze d'acqua che erano le sue iridi, ora ridotte a degli stagni verdastri e melmosi. La limpida acqua piovana era ormai svanita, fluita via, assorbita dal terreno.

«Ti stanno aspettando» mormorò Penelope.

Annabeth sbatté confusamente le palpebre nel sentirla parlare dopo così tanto tempo. Poi aggrottò le sopracciglia, non avendo compreso a cosa si riferiva.

La rossa voltò il capo verso la collina, verso il pino di Talia, ed indicò con un cenno il luogo. Annabeth seguì il suo sguardo, mentre lei ripeteva: «Ti stanno aspettando.»

Suo padre e la sua matrigna, con tanto di gemellini, erano in piedi accanto al pino. Scrutavano la valle, inondati dal sole. Il suo cuore perse un battito quando posò lo sguardo sul viso di suo padre, specchiandosi nei suoi lineamenti.

«Dovresti andare.» La voce di Penelope era ridotta ad un tono piatto e privo di alcuna inflessione. «Da qui alla Virginia è un lungo viaggio, non vorrai farli aspettare oltre.»

Annabeth tornò a guardarla, sentendosi la gola improvvisamente arida.

«Non andrò.»

Penelope cambiò espressione: le sue sopracciglia s'inarcarono appena. «No?» disse, in tono di pretesa, come se sapesse già che quelle parole non avevano nulla di vero.

Annabeth voleva, però, che fossero vere, e sicure, e giuste, e corrette. Scosse il capo, portandosi un paio di ciocche dietro l'orecchio. «No, non andrò. Non posso...»

La sua voce si spense nell'incontrare i suoi occhi.

«Non puoi... cosa

Prese a torturarsi le mani.

«Non posso.»

«Sì, ma cosa?»

Rilasciò uno sbuffo, cercando di non mangiarsi le parole.

«Lasciarti qua.»

Forse credeva che l'avrebbe vista sorridere, a quella sua affermazione, forse ci sperava in un sorriso. Ci restò male nel vederla serrare la mascella e per un istante ebbe il terribile pensiero che non la volesse con sé.

Penelope scosse il capo, tornando a guardare la valle senza guardarla davvero. «No. Assolutamente no.»

«Perché?» chiese, sentendosi le guance accendersi d'agitazione e d'animo. «Non avevamo fatto pace? Non posso lasciarti qua, da sola, dopo-»

«Ti ho detto di no.» Lo sguardo che Penelope le rivolse non era da lei, lo vide subito e ne restò interdetta. Gelido, come i ghiacci dell'estremo Nord. «Tu andrai in Virginia. Con tuo padre.»

«E tu, tu che fine fai?» sbottò Annabeth, che non riusciva davvero a credere a quelle parole, non dopo quello che si erano dette nemmeno tre ore prima. «Tutti se ne vanno. Non voglio che resti sola.»

«Tu andrai in Virginia» insistette Penelope, irremovibile. «Hai la possibilità di avere una vita normale, una famiglia normale. Hai la possibilità di mettere le cose a porto e di andare d'accordo con tuo padre. Hai la possibilità di amare tuo padre e di essere amata da lui. E non ti lascerò gettare al vento questa seconda possibilità quando io non ho avuto nemmeno la prima. Non se ne parla. Puoi ancora sistemare le cose. Può andare bene. Non resterai qui al campo, non per me.»

Annabeth avrebbe voluto replicarle chiedendole chi era lei per decidere ciò che dovesse fare, ma si rese conto che sarebbe stato stupido. Sarebbe stata una reazione immediata, accesa, come quelle che sempre aveva avuto con lei. Stette in silenzio, assorbendo le parole della figlia di Ermes.

Forse non avrebbe dovuto gradire quel sentimento, ma il petto le si scaldò.

«E tu?» chiese quasi in un sussurro.

Penelope trasse un respiro profondo prima di risponderle. «Io starò bene» disse, lo sguardo ancora rivolto alla valle. «Starò bene.»

Annabeth non ci credeva affatto.

La mente le si accese di un'idea, la bianca luce di una torcia nel bel mezzo di un banco di nebbia. Stava per parlare, per chiederle di venire insieme a lei, per dirle che avrebbero potuto lasciare il campo insieme ed andare in Virginia, insieme, ma non ne ebbe modo.

I passi incerti di Percy riempirono il silenzio. Entrambe si voltarono, gli sguardi che si puntarono sulla figura del dodicenne, tenuto in piedi da Argo. Lui le guardò tutte e due, gli occhi verdissimi che esitavano sui loro visi, e poi mosse qualche altro passo in avanti, fino a raggiungerle.

S'appoggiò alla ringhiera, in mezzo a loro. Per un lungo istante non parlò, ed Annabeth ebbe la voglia di continuare il discorso che lui stesso aveva interrotto, ma non se la sentì, non in sua presenza. Poco dopo, si sarebbe chiesta come mai avesse pensato ciò.

Percy trasse un lungo sospiro. Poi, con i suoi soliti tatto e delicatezza di un ippopotamo, chiese a Penelope: «Cosa farai?»

«Cosa farò» ripeté lei, asciutta.

«Mh-mh. Cosa farai.»

«Credo che andrò a bruciare qualche vecchio indumento. Tu che farai, Percy?»

«Cosa farai per l'inverno» chiarì Percy, voltandosi a guardare Penelope.

«Quello che ho sempre fatto: stare al campo.»

Percy esitò per un istante, rilassando il viso, prima teso in un'espressione preoccupata. «E se... e se, tipo, venissi a stare da me? Potremmo andare a scuola, e non credo che la mamma avrà problemi-»

«No, Percy. L'ho detto anche ad Annabeth. Avete la possibilità di vivere un anno normale, se il cielo ve la manda buona. Posso cavarmela da sola, non mi servono delle balie.»

«Oh, ma smettila!» esclamò Annabeth, profondamente turbata da quelle sue parole. «Non saremmo le tue balie. Vogliamo solo il tuo bene.»

Penelope si voltò ed il suo viso era freddo, non era il viso di Penelope. «E voi sapere qual è il mio bene? Ma per favore, ragazzi. Apprezzo le proposte, ma no. Andate a casa. Statemi bene. Io starò bene. Ci sono Travis e Connor. Starò bene.»

«No, non starai bene» insistette Percy.

La figlia di Ermes serrò la mascella ed i suoi occhi parvero scurirsi. «Starò bene.»

Percy avrebbe forse replicato, cocciuto com'era, ma Annabeth aveva capito che non c'era più possibilità di farle cambiare idea. Tagliò di netto le parole del dodicenne con le proprie.

«Fatti sentire, però. Chiamaci. Va bene?»

Penelope la guardò per lunghi istanti, muta. La sua espressione non vacillò un singolo istante, non cambiò e non si sgretolò. Restò quella solida maschera che ormai s'era costruita addosso, ed Annabeth non fu più in grado di specchiarsi nei suoi occhi.

«Mi farò sentire» annuì, abbassando lo sguardo, forse cedendo alla debolezza che le leniva il cuore. «Voi... voi non fate cose stupide, okay? Soprattutto tu, Percy. Verrò personalmente a pestarti con una mazza da baseball, in caso.»

Stava cercando di essere la solita, ma non le riusciva più di tanto.

«Tenete gli occhi aperti.»

«Anche tu» disse Percy, forse non sapendo davvero come replicare. «Tieni... tieni gli occhi aperti. Non farti fregare la Bandiera. Tieni alto l'onore della nostra squadra.»

Annabeth avrebbe preferito restare lì. Non voleva che restasse da sola ad affrontare quella... quella cosa. Non era giusto. Ma poi guardò suo padre e le parole della figlia di Ermes le risuonarono fra le tempie, rimbombando come un'eco in una cattedrale.

Non ne era convinta, si sentiva una grandissima egoista, ma mosse un passo indietro, allontanandosi dalla ringhiera. Aveva detto che si sarebbe fatta sentire. Si promise di chiamarla almeno una volta ogni due giorni, e passare con lei un po' di tempo tramite Messaggio-Iride. Rivolse ai suoi due amici un ultimo sguardo, forse un po' triste.

Risalendo la collina, si sentì i loro sguardi addosso, pungenti contro la schiena e contro le scapole. Lì, sulla cima, fu suo padre ad abbracciarla per primo. Goffamente se la strinse contro, come sempre era stato, con un sorriso imbarazzato sul viso abbronzato. Annabeth deglutì il groppo che aveva in gola. Lasciò quella che avrebbe potuto e avrebbe dovuto esser più di una semplice carezza al pino di Talia, mormorando un saluto che rimase imprigionato tra le sue labbra, e mosse un passo avanti.

Si lasciò alle spalle tante, troppe cose.

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