22. Tradimento
「 𝐏𝐄𝐑𝐂𝐘 」
PERCY ERA COMBATTUTO. Sedeva a gambe incrociate sul proprio letto, uno dei pochi nella Casa Tre, con le orecchie tese ad ascoltare il suono dell'acqua che zampillava e scorreva e fluiva. Ancora, dopo tutto quel tempo, non era riuscito a capire da dove provenisse tale suono — sarà stata roba da Poseidone.
Tra le dita, aveva la lettera che — ne era sicuro — il Signor D. in persona aveva stilato solo per lui. Questo perché, al posto del suo nome, sulla carta ruvida ed ingiallita, quasi sembrasse una pergamena antica, v'era scritto: "Egregio Peter Johnson".
L'aveva trovata sul proprio comodino quella mattina, quando s'era svegliato, sapendo già cosa vi era scritto. Penelope gli aveva già parlato di quel tipo di comunicazione, una di quelle tante volte in cui gli aveva chiesto se avesse deciso o meno cosa fare per l'anno scolastico. La rossa sembrava impaziente di sapere.
La lesse per quella che gli sembrò la sesta, forse settima volta.
Era combattuto, ogni minuto sempre di più. Un altro dei problemi dell'iperattività e del disturbo dell'attenzione era che le scadenze non gli parevano vere fin quando, con gesti bruschi, lui non se le ritrovava spiaccicate in faccia. Era l'ultimo giorno, la fine dell'estate, e lui non aveva ancora comunicato né a sua madre né al campo cosa avesse intenzione di fare per quell'inverno.
Insomma, si diceva, erano meglio nove mesi spesi ad allenarsi come gli eroi, in quel luogo dove l'inverno ed il brutto tempo parevano non giungere mai, o nove mesi spesi a riscaldare una sedia, seduto in una classe le cui pareti parevano soffocarlo?
Francamente, lui avrebbe scelto la prima opzione.
Ma c'era anche sua madre da prendere in considerazione. Dèi, come fremeva alla voglia di rivederla. Per la prima volta, aveva la sana opportunità di vivere con lei e lei solamente, senza Gabe di mezzo. Aveva l'opportunità di starsene a casa, finalmente tranquillo, ed andare in giro per la città nel tempo libero. Ricordò le parole di Annabeth, quasi udendo la sua voce ripetere: "il posto in cui si trovano i mostri è il mondo reale. E' lì che capisci davvero quanto vali."
A quel pensiero, la sua mente tornò alle sorti di Talia, la figlia di Zeus, e fu quasi tentato di allungare il collo per scorgere, fuori dalla finestra, l'imponente pino innalzarsi sulla cima della collina. Quanti mostri sarebbero venuti a cercarlo, se avesse lasciato il Campo Mezzosangue? Se fosse rimasto a casa, senza la protezione di Chirone e delle barriere magiche, lui e sua madre sarebbero mai arrivati alla fine dell'anno scolastico?
Sempre che non fossero i compiti d'ortografia o gli interminabili titoli dei temi, ad ammazzarlo prima.
Non poteva permettersi di mettere a rischio l'incolumità di sua madre in quel modo.
Ripensò anche a tutti gli amici che s'era fatto di ritorno dall'impresa, ricordandosi che anche Annabeth sarebbe partita e tornata a casa. Aveva colto il suo suggerimento e, appena tornati, aveva scritto al padre, che viveva in Virginia. Lui aveva subito risposto. Ed ora, lei sarebbe andata via.
Magari, si disse, avrebbe potuto fare qualche salto al campo durante l'anno, giusto per rivedere Penelope, Nerea e gli altri.
Con questo, il suo pensiero fluì all'invito che Luke gli aveva posto la sera prima, dopo cena. Così, s'alzò con un balzo, lasciando la lettera sul letto, e decise che era il momento per un ultimo allenamento nell'arena.
Il campo era quieto, inondato solamente dallo stridente verso delle cicale, sotto la vampa d'agosto. Coloro che sarebbero partiti erano nelle loro cabine ancora, a preparare i bagagli e ad organizzarsi per l'imminente partenza. Quelli che, invece, sarebbero rimasti al campo, sedevano sui portici in totale silenzio, forse a godersi quei brevissimi istanti in cui il vento spirava e, seppur caldo, un poco dava piacere.
Con la coda dell'occhio, notò l'infuocata chioma di Penelope nei pressi della Casa Dieci, capendo che stava dando una mano ai ragazzi di Afrodite con le valige. Stessa cosa faceva Argo, un po' più lontano, trascinando diversi bauli su per la collina.
Si impose di non pensare alla partenza.
Quando giunse all'arena, come sospettava, Luke era già lì. La maglia arancione madida di sudore e la spada che riluceva sotto al sole cocente, stava prendendo a feroci fendenti i manichini imbottiti. Come sempre, stringeva la punta della lingua tra i denti.
Percy restò lì in piedi, sotto l'imponente arco in pietra che era l'ingresso dell'arena, ad ammirare il figlio di Ermes combattere come se non si trattasse di un semplice allenamento, ma come se stesse fronteggiando l'acerrimo nemico nel duello più importante della sua vita. Non riconobbe, come era solito, le movenze di Penelope nelle sue, poiché combatteva con una foga mai vista, accanendosi contro i poveri manichini. La sua doveva trattarsi di una nuova spada, forse in acciaio, perché brillava di una luce diversa, più fredda, nel sole.
Per l'ennesima volta, si ritrovò a chiedersi come avesse fatto quel ragazzo, un guerriero incredibile, a fallire nella sua impresa.
Lasciò immobile un colpo a mezz'aria quando lo vide, fermandosi. Non sorrise. «Percy.»
Percy credette di aver interrotto un brutto momento, accorgendosi dell'espressione nebulosa del suo viso, come se fosse perso in un lungo e complesso flusso di pensieri. «Ehm, scusami,» disse imbarazzato «ero solo...»
«Tranquillo, tranquillo» lo rassicurò Luke, abbassando la spada e puntandola contro il terreno. La sua espressione si rischiarò appena. «Facevo giusto qualche tiro aspettandoti.»
Percy si strinse tra le spalle, entrando nell'arena. «Quei manichini non daranno più fastidio a nessuno.»
Lui si voltò un attimo a guardare i mucchi di paglia e pezzi d'armatura. «Ne costruiremo altri la prossima estate.»
Ora che la sua spada era immobile ed il silenzio tra loro, Percy notò che l'arma aveva qualcosa di strano. Aggrottò le sopracciglia guardandola, incuriosito. La lama era di due metalli diversi: per metà di bronzo e per metà di acciaio.
Luke si accorse che la stava guardando. «Oh, questo? E' un giocattolo nuovo di zecca. Si chiama Vipera.» Se la rigirò in mano e la lama scintillò nel sole, minacciosa. «Un lato è in bronzo celeste e l'altro in acciaio temprato. Funziona sia con i mortali che con gli immortali, con i mostri e con i semplici umani.»
Percy deglutì, ripensando a ciò che Chirone gli aveva detto in giugno: un eroe non doveva ferire un mortale a meno che non fosse strettamente necessario.
Lanciò uno sguardo cauto alla spada. «Non sapevo potessero forgiare armi così.»
«Loro non possono» replicò Luke, ammirando la sua nuova arma. «E' un pezzo unico.»
«E la gemella di Alétheia?» chiese Percy, sapendo già che a Penelope non sarebbe piaciuto sapere di quella nuova spada. «Che fine fa?»
Luke esitò un istante, come se non sapesse quale risposta dargli, poi si strinse tra le spalle. «Potrei darla a Penelope ed insegnarle a combattere con due spade, ma non ce la vedo. Me la terrò io, almeno per ora.»
Percy annuì, pressando tra loro le labbra e nascondendosi le mani in tasca. Pensò che quando Luke chiamava la sorella con il suo nome intero non andava tutto per il verso giusto, ma il pensiero durò un istante. Il caldo di quella giornata pareva cercare di logorarlo ogni secondo che passava e gli toglieva dal capo l'energia necessaria per pensare.
Con un sorrisetto ed un agile movimento, Luke rinfoderò la spada. «Senti, che ne dici di andare un'ultima volta nel bosco, a cercare qualcosa con cui batterci?»
Stavolta, fu Percy quello ad esitare, anche se non sapeva veramente il perché. Avrebbe dovuto sentirsi sollevato che Luke fosse così amichevole nei suoi confronti. Da quando erano tornati dall'impresa si era tenuto un po' a distanza. Percy temeva che ce l'avesse con lui per tutta quell'attenzione ricevuta.
«Credi sia una buona idea?» chiese. «Nel senso...»
«Oh, dai!» Il biondo frugò nel suo borsone, posato all'ombra, e ne cavò fuori un pacco di sei lattine di Coca. «Ti offro anche da bere.»
Percy guardò sbalordito il pacco di lattine, chiedendosi come avesse fatto ad ottenerlo. Le bevande mortali non si trovavano nel magazzino del campo, ed era pressoché impossibile procurarsele sottobanco, anche se chieste ad un satiro. Poi, si rese conto che era di un figlio di Ermes che parlava, e allora la cosa non gli parve così strana — gli Stoll parevano avere le tasche magiche: qualunque cosa ti serviva, loro te la reperivano.
Zucchero e caffeina. La sua forza di volontà si sbriciolò come pasta frolla.
«Sicuro. Perché no?»
S'addentrarono nel bosco ed andarono a caccia di qualche mostro, ma faceva davvero troppo caldo. Qualsiasi creatura con un pizzico di cervello se ne sarebbe rimasta nella propria caverna a godersi il fresco. Si chiese come mai loro non stessero facendo lo stesso. Così, in assenza dei mostri, si sedettero tra gli alberi, all'ombra, a scolarsi le lattine di Coca.
Il ruscello scorreva placido a pochi metri da loro, nella stessa radura dove lui, durante la sua prima partita a Caccia alla Bandiera, aveva spezzato la lancia elettrica di Clarisse. Il canto delle cicale era più intenso ora che si trovavano nel bosco, e riempiva il silenzio assieme al lievissimo suono delle fronde degli alberi che s'agitavano appena nel venticello.
Dopo un po' di tempo speso in silenzio, ad osservare il bosco attorno a loro, Luke parlò. «Ti manca la sensazione dell'impresa?»
«Con i mostri che mi attaccano ogni tre passi? Vuoi scherzare?»
Luke inarcò un sopracciglio.
Percy sospirò. «Sì, mi manca» ammise. «E a te?»
Un'ombra gli si calò sul volto.
Percy era abituato a sentir decantare, con sospiri sognanti ed occhi lucidi, la bellezza di Luke da quasi l'intera controparte femminile del campo. Ma in quel momento il ragazzo non gli parve affatto bello. Era esausto, le occhiaie a solcargli la pelle, ed una rabbia sbiadita gli ingrigiva il viso. I capelli biondi non risplendevano al sole, ma parevano la sabbia grigiastra che v'è sulla spiaggia al tramonto. La cicatrice pareva più profonda, a solcargli il viso come una stretta cavità nella roccia.
«Vivo sulla Collina Mezzosangue da quando avevo quattordici anni» disse, la voce che non pareva la sua tanto era seria e cupa. «Da quando Talia... be', lo sai. Prima di qui, ho cresciuto mia sorella. E poi, non ho fatto altro che allenarmi, allenarmi ed allenarmi, senza mai smettere. Volevo qualcosa. Non sono mai riuscito ad essere un ragazzo come gli altri, nel mondo normale. Poi si sono degnati di assegnarmi un'impresa, e quando sono tornato è stato come se mi dicessero: "Okay, fine della corsa. Vai per la tua strada e chi si è visto si è visto".»
Luke schiacciò la sua lattina nel pugno e la lanciò malamente nel fiume, sotto gli occhi stupiti di Percy. Una delle prime cose che ti venivano insegnate, al campo, era: "Non gettare i rifiuti nel verde". Le ninfe e le Naiadi lo ripetevano in continuazione e te la facevano anche pagare cara, se non si rispettava la natura — basta pensare a come due giorni prima Cillian Evans, Apollo, si era ritrovato il letto pieno di millepiedi e fango.
«Al diavolo le corone d'alloro» sbottò Luke, scuro in viso. «Non ho intenzione di fare la fine di quei trofei polverosi che riempiono la soffitta della Casa Grande.»
«Da come parli, sembra che tu stia partendo» disse Percy, aprendo una nuova lattina.
Luke si voltò a guardarlo con un ghigno obliquo sulle labbra. Percy si sentì strano a guardarlo. «Oh, Percy, ma io sto partendo. E' vero. Ti ho portato qui per salutarti.»
Percy guardò il borsone. «Dove andate, te e Pen-»
Non finì la sua domanda, perché Luke schioccò le dita ed ai piedi di Percy s'accese un piccolo fuoco. Lui quasi balzò in piedi dalla sorpresa, allontanando le scarpe dal terreno. Il fuoco bruciò con violenza per qualche istante e poi s'estinse con poco, lasciando un buco nero nel terreno. Una creatura nera e luccicante, grande quanto la sua mano, ne zampettò fuori. Uno scorpione.
Fece per prendere la penna, fiondando la mano in tasca.
«Io non lo farei, se fossi in te» lo ammonì Luke, un sorriso freddo ora sul viso. «Gli scorpioni dell'abisso possono saltare a quattro metri e mezzo. Il pungiglione penetra anche nei vestiti. Sessanta secondi e sei morto.»
«Luke, ma cosa...?»
La lampadina si accese nella sua testa, illuminandogli la coscienza come un lampo nella notte.
Sarai tradito da colui che ti chiama amico.
La sua profezia, la sua dannata profezia. Aveva smesso di tormentarsi riguardo quel verso, credendo che fosse finita com'era finita l'impresa.
«Tu» mormorò.
Luke s'alzò con calma, spazzandosi i jeans dalla polvere. Lo scorpione lo ignorò totalmente. I suoi occhietti, luccicanti e maligni, restavano puntati su Percy, mentre stringeva le chele e gli si arrampicava sulla scarpa. Avrebbe voluto scattare e schiacciarlo, ma sapeva che non sarebbe stato abbastanza veloce.
«Ho visto un sacco di brutte cose, là fuori» disse Luke con un sospiro. «Tu non te ne sei accorto, Percy? Le tenebre che si infittiscono, i mostri che diventano più forti, il freddo che sale e sale. E tu, non hai capito quanto tutto questo sia inutile? Tutti gli eroi... non sono altro che pedine degli dèi. Avrebbero dovuto perdere il trono migliaia di anni fa, ma hanno continuato a prosperare. Solo grazie a noi mezzosangue.»
La mente di Percy era in confusione totale. Non riusciva a credere a quello che le sue orecchie stavano udendo. «Luke, stai parlando dei nostri genitori.»
Prima di scoppiare a ridere, un'ombra gli valicò lo sguardo. «E questo dovrebbe bastarmi per amarli? La loro preziosa "civiltà occidentale" è un cancro, Percy. Sta uccidendo il mondo e lo sai anche tu. L'unico modo per fermarla è raderla al tappeto, ricominciare con qualcosa di più onesto.»
Percy scosse il capo. «Sei pazzo come Ares.»
Gli occhi di Luke, un tempo luccicanti e chiari zaffiri, erano in fiamme. «Ares è solamente uno sciocco. Non ha mai capito chi fosse il suo vero padrone. Se avessi tempo, Percy, te lo spiegherei. Ma temo che non vivrai abbastanza.»
Lo scorpione prese ad arrampicarsi sulla gamba dei suoi jeans, facendo rabbrividire Percy. Doveva uscire da quella situazione, ma gli serviva tempo per pensare a come fare.
Tempo.
«Crono!» esclamò. «Ecco chi è il tuo padrone.»
Un gelo si diffuse nell'aria, gravando sul bosco. Un gelo fermo ed immobile, terribile proprio per questo. Quel tipo di gelo secco che ti s'insinua nelle ossa e pare prendere possesso di esse.
«Dovresti stare attento con i nomi» gli ricordò Luke.
«E' stato Crono a farti rubare la Folgore e l'elmo. Ti ha parlato in sogno.»
L'occhio destro di Luke ebbe un fremito, proprio come quello di Penelope. «Ha parlato anche con te. Avresti dovuto dargli ascolto, Percy.»
«Ti sta facendo il lavaggio del cervello, Luke.»
«Ti sbagli» lo contraddisse lui, scuotendo il capo in diniego. «Mi ha mostrato quanto i miei talenti siano sprecati, qua. Sai qual era la mia impresa, due anni fa? Mio padre, Ermes, voleva che rubassi una mela d'oro dal Giardino delle Esperidi e la portassi sull'Olimpo. Dopo tutto l'allenamento che avevo fatto, ecco il meglio che era riuscito ad escogitare.»
«Non è un'impresa semplice» obiettò Percy. «L'ha compiuta Ercole.»
«E che gloria c'è nel ripetere le gesta altrui?»
Il gelido silenzio che seguì le parole pesò come un macigno.
«Potrei ucciderti qui, come Achille fece con Ettore, e sta' certo che nessuno se ne ricorderebbe davvero» continuò Luke, le parole sempre più amare sulle sue labbra. «Gli dèi non fanno altro che replicare il passato, come se nella nostra gloria fosse necessaria una traccia, un marchio antico. Non ci ho messo il cuore, in quell'impresa. Il drago del giardino mi ha lasciato questa,» indicò con rabbia la sua cicatrice «e quando sono tornato non ho ottenuto altro che pietà.»
«Anche tua sorella ti ha dimostrato pietà?» chiese Percy, quasi sentendosi la lingua scottare contro il palato, sapendo che quella domanda avrebbe sortito un determinato effetto.
Luke, infatti, contrasse il viso in una smorfia. «No, lei no. Ma l'ho guardata in faccia e ho capito che aveva perso qualcosa: un'idea, un'immagine. L'avevo delusa.»
«Non credo che-»
«Tu non sai, Percy» lo interruppe Luke, fissandolo con occhi gelidi. «Riguardo questo, non puoi parlare.»
Percy trasse un respiro profondo, cercando di calmarsi. Lo scorpione salì un po' più in alto, fermandosi sul suo ginocchio.
«In quel momento, avrei distrutto l'Olimpo pietra dopo pietra» continuò Luke, guardandosi le mani con uno sbuffo iroso, come se non fossero le sue, ma le mani di un distruttore. «Ma ho portato pazienza, e ho aspettato il momento opportuno. Ho cominciato a sognare Crono. Lui mi ha convinto a rubare qualcosa che valesse il rischio, qualcosa che nessun eroe avesse mai avuto il coraggio di prendere.»
«E come hai fatto?»
«Be', primo, la sicurezza lassù fa pena. Gli dèi peccano di arroganza, si credono che nessuno avrebbe mai il coraggio di derubarli.» Le labbra di Luke si stesero in un sorriso che, un po', ricordava quello volpino della sorella. «E poi, la lingua ammaliatrice funziona bene, Percy.»
Aggrottò le sopracciglia, non capendo. «Cosa intendi?»
«Hai mai visto Penelope rendere invisibile qualcosa?» chiese Luke, e Percy ebbe un tuffo al cuore. «E' incredibile quando lo fa, davvero. Con l'aiuto di un'amica, l'ho convinta a rubare anche l'elmo, ed era fatta.»
No, no, Percy si rifiutava di crederci. Non poteva essere vero. Scosse il capo, sentendosi un'ondata di disgusto allagargli la bocca e la gola. «Non è stata lei. Non è vero. Dici una bugia.»
«No, no, è stata lei» replicò Luke, ancora sorridendo. «Be', non di sua spontanea volontà, ma l'ha fatto comunque.»
Percy ripensò all'urgenza con cui Zeus, sull'Olimpo, aveva chiesto della figlia di Ermes. Sul momento non aveva davvero capito come mai sembrasse così intenzionato a trovarla, ma in quell'istante ci arrivò: lui non era l'unico sospettato.
«L'hai usata» disse, quasi in un sussurro. Gli veniva voglia di vomitare. «Hai usato tua sorella!»
Luke si strinse tra le spalle. «Il fine giustifica i mezzi, Percy. E poi, Penelope non avrebbe esitato ad unirsi a me, se avesse saputo.» Il figlio di Ermes osservò soddisfatto lo scorpione chiudere le tenaglie. «Io, invece, ho preso la Folgore. E' stato divertente ed immensamente facile. Ero già nel New Jersey quando ho sentito rombare i tuoni e ho capito che si erano accorti del furto.»
Percy cercò di mantenere un tono di voce calmo, nonostante fosse ancora schifato dal pensiero di Luke che tradiva in quel modo sua sorella. «Allora perché non hai portato la refurtiva a Crono?»
Il sorriso di Luke vacillò, minacciando di spegnersi. «Io... ho peccato di presunzione. Zeus ha mandato i suoi figli e le sue figlie e cercare la Folgore. Artemide, Apollo, Atena, mio padre Ermes. Ma è stato Ares a trovarmi. Avrei potuto batterlo, ma non sono stato abbastanza cauto. Mi ha disarmato, ha preso la Folgore e l'elmo e ha minacciato di riportarli sull'Olimpo ed incenerirmi. Ma la voce di Crono è venuta in mio soccorso, suggerendomi cosa dire. Sono stato io a mettere in testa ad Ares l'idea di una grande guerra fra dèi. Gli ho detto che non doveva fare altro che nascondere gli oggetti per un po' e starsene tranquillo, a guardare gli altri che litigavano. Gli ho visto un bagliore maligno negli occhi e ho capito che aveva abboccato. Mi ha lasciato andare, così sono tornato sull'Olimpo prima che qualcuno s'accorgesse della mia assenza.» Luke estrasse la sua nuova spada, passandovi sulla lama il pollice ed ammirandola come fosse l'oggetto più bello del mondo. «Poi, il Signore dei Titani... m-mi ha punito con degli incubi. Ho giurato di non fallire più. Quando sono tornato al campo, i sogni mi hanno detto che sarebbe arrivato un secondo eroe, un eroe che si poteva indurre con l'inganno a portare la Folgore e l'elmo nell'ultimo tratto di viaggio, da Ares... al Tartaro.»
«Sei stato tu ad invocare il segugio infernale nella foresta» lo accusò Percy, puntandogli un dito contro.
«Dovevamo indurre Chirone a pensare che il campo non fosse un posto sicuro per te. Solo così ti avrebbe assegnato l'impresa. Dovevamo confermare i suoi timori riguardo ad Ade che ti stava dando la caccia. E ha funzionato.»
«Le scarpe volanti erano maledette» continuò Percy, ripensando ad ogni cosa, grande o piccola che fosse, e che lui aveva bellamente ignorato. «Dovevano trascinare me e lo zaino dritti nel Tartaro.»
Ancora, Luke storse il viso. «E lo avrebbero fatto, se non le avessi date a Grover. Quel satiro rovina ogni cosa che tocca. E' riuscito a confondere persino la maledizione.»
Luke posò lo sguardo sullo scorpione, e così fece Percy. L'animale si era fermato sulla sua coscia, ora. «Dovevi morire nel Tartaro» disse Luke, «ma per rimediare, ti lascio in compagnia del mio amichetto.»
«Talia ha dato la sua vita per salvarti» replicò Percy a denti stretti, disperatamente cercando di guadagnare tempo e cedendo, sempre di più, alla rabbia che gli montava dentro. «E tu la ripaghi in questo modo?»
«Non nominare Talia!» strillò Luke, irato, avanzando un passo verso di lui. «Non osare nemmeno pronunciare il suo nome! Gli dèi l'hanno lasciata morire! Questa è una delle molte cose per cui pagheranno.»
«Crono ti sta usando, Luke. Proprio come sta usando Ares. Non dargli ascolto.»
«E tu, allora?» esclamò Luke, la voce di colpo stridula. «Ma guardati. Cosa ha mai fatto tuo padre per te? Crono risorgerà. Hai solo rimandato i suoi piani. Getterà gli dèi nel Tartaro e ricondurrà gli umani nelle grotte a cui appartengono. Tutti, tranne i più forti... i suoi servitori.»
«Richiama la bestiola» suggerì Percy. «Se sei così forte, battiti tu con me.»
Luke incurvò le labbra in un ghigno. «Bel tentativo, Percy. Ma io non sono Ares. Non ci casco. Il mio signore mi aspetta, e ha moltissime imprese in serbo per me.»
Percy aveva bisogno di altro tempo. «E tua sorella?» esclamò, nello stesso tono che Luke aveva usato un istante prima con lui. «E' già dalla tua parte? Che fine le farai fare, la userai come hai già fatto?»
Il sorriso sul viso del figlio di Ermes si spense di colpo alla menzione della sorellina, e l'ennesima ombra, stavolta ben più scura, gli calò addosso. Negli occhi gli scorse una memoria sbiadita come una vecchia fotografia, mentre lo guardava stringere i pugni. «Era solo una bambina» mormorò, il tono così basso che a stento Percy fu in grado di udirlo. «Lei... lei non ha visto. L'ho portata via prima che potesse vedere. Prima che... prima che ne restasse impaurita. Non era giusto.»
Alzò il capo e puntò nel suo sguardo gli occhi, pallide perle di vetro levigato dal mare. «Non capirebbe, non ancora. Ma sono sicuro che, in un prossimo futuro, ci riuscirà. Glielo farò capire.» Il fuoco di prima tornò ad incendiargli lo sguardo. «Tu, invece, morirai oggi, Percy Jackson. E voglio che tu muoia con la consapevolezza che lei sarà al mio fianco, e tu non sarai qui per impedirmi di portarla via.»
Sguainata la spada, tracciò in aria un arco e scomparve in un tremolio di fredde e vuote tenebre.
Fu questione di secondi.
Lo scorpione si slanciò in avanti.
Percy lo scansò con un fulmineo gesto della mano e tolse il cappuccio alla spada, per poi tagliarlo in due a mezz'aria quando cercò di balzargli addosso.
Stava per congratularsi con sé stesso, quando lo sguardo gli ricadde sulla mano destra. Sul palmo, proprio al centro, v'era una piaga rossa e fumante, che secerneva una viscosa sostanza gialla.
La bestiaccia lo aveva punto, alla fine.
Barcollò, la vista che gli si appannava di colpo. Il cuore iniziò a pulsargli nelle orecchie e lui non udì più nient'altro oltre al suo veloce galoppare. Si voltò, pensando all'acqua.
Crollò in ginocchio sulla riva del ruscello che scorreva lì, nella radura, e a fatica vi immerse la mano. Ma non accadde nulla. La piaga restò lì, invariata, e lui si sentì venire sempre meno. Il veleno era troppo potente. Tanti pallini neri iniziarono a danzargli dinnanzi agli occhi.
Sessanta secondi.
Doveva tornare al campo, o il suo corpo non sarebbe mai stato trovato, probabilmente divenuto il pasto di un mostro. Doveva tornare al campo, o nessuno avrebbe mai saputo cosa fosse appena successo. Doveva tornare al campo.
Ma aveva le gambe di piombo e non riusciva ad alzarsi. La fronte in fiamme, si sentiva come se gli avessero acceso un falò nel petto e questo stesse ora diramando le sue lingue di fuoco ovunque, facendo suo il suo corpo. Provò a gattonare, ad avanzare trascinandosi, ma non si sentiva più le braccia. Singhiozzò nel sentire il dolore alla mano, il palmo appena posato contro il terreno.
In quel momento le ninfe si staccarono dai loro alberi.
Riuscì a malapena a chieder loro aiuto, che l'ultima cosa che vide fu il viso di una di loro. Chiamò il nome di Luke, come a volerla avvertire di ciò che era avvenuto.
Poi, tutto si fece nero.
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