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21. Atene e Sparta

「 𝐏𝐄𝐍𝐄𝐋𝐎𝐏𝐄 」

                 PENELOPE LASCIO' CHE IL SOLE accarezzasse con dolcezza la sua pelle, lasciata scoperta dai vestiti estivi, anche se in realtà il suo tocco era tutt'altro che piacevole. Per l'ennesima volta, si pentì di non aver pensato a mettersi la crema solare.

La cosa migliore da fare, per distrarsi e non pensare alle brutte sensazioni, era passare un po' di tempo con Silena. Quella ragazza era incredibile: bastava un suo battito di ciglia, una ciocca posata dietro l'orecchio, una parola, e la testa di Penelope si faceva leggera come una piuma. No, la quattordicenne non utilizzava la lingua ammaliatrice, non la praticava granché. Drew era molto più brava di lei, in questo.

Silena aveva questa... la sua presenza era rilassante, ecco. Bastava uno sguardo a quel volto angelico, ed ogni preoccupazione pareva svanire. Penelope aveva sempre pensato che il ragazzo che se la sarebbe meritata sarebbe stato il più fortunato dell'intero globoᅳse mai qualcuno se la fosse meritata, è chiaro, una così la trovi una volta ogni cent'anni.

Sul campo era posato il velo leggerissimo di una calma che presto sarebbe stata infranta, come s'infrange il limpido del cielo quando il temporale ne squarcia le meraviglie.

Si diresse, senza esitazione, alla Casa Dieci, alla ricerca della sua amica. Come c'era da aspettarsi, diverse figlie (erano principalmente ragazze, nella Dieci) stavano trascinando a fatica i loro bauli strapieni di roba firmata giù dai cinque gradini che conducevano al portico. Una di loro si stava sforzando così tanto che aveva il viso rosso come un peperone, ma non si era scomposta minimamente: trucco, capelli e vestiti erano ancora perfetti ed intoccati.

Scavalcò con un salto una valigia di Louis Vuitton così grande che lei avrebbe potuto comodamente dormirci dentro, e risalì i gradini. Allungò un braccio per sfiorare, con la punta delle dita, il caccia-spiriti appeso fuori dalla porta, il quale produsse un delicato suono metallico al suo tocco. Poi, entrò.

La prima impressione che ebbe fu quella di trovarsi nella hall particolarmente affollata di un grande ed ampiamente frequentato centro commerciale. Storse il naso, infastidita dall'intenso profumo del luogoᅳspesso, alcuni membri della casa solevano fare un uso eccessivo dei prodotti di profumeria.

Diversi raggi di sole danzavano pigramente sul legno lucidissimo del pavimento, entrando dalle finestre, spalancate per ventilare l'ambiente, e passando attraverso le sottili tendine di pizzo celesti e verde pastello. Tutti i letti erano perfettamente in ordine, rifatti e senza la minima piega delle lenzuola. Era tutto, fastidiosamente, impeccabile.

Penelope riscontrava ancora delle difficoltà ad abituarsi a tutto quell'ordine. Salutò distrattamente alcune ragazze, intenzionata a trovare subito Silena, ma le suddette ragazze le chiesero una mano con le valigie. Sospirando e sorridendo al tempo stesso, acconsentì.

«Avete visto Silena?» chiese a Beatrix Reynolds, una biondina dalla figura slanciata e dei grandi occhi neri come la pece. La ragazza scosse il capo, scendendo l'ultimo gradino con un sospiro soddisfatto. Penelope lasciò andare il manico del suo mastodontico trolley, chiedendosi come facessero dei vestiti a pesare così tanto.

Addison Fonte si sistemò brevemente la frangetta castana, la quale spingeva lo sguardo a due intricanti occhi color ambra. «Non era andata con Drew alla Casa Grande?»

Penelope si sedette sui gradini, affaticata dal caldo della giornata. «Perché sarebbero dovute andare alla Casa Grande?»

«Argo è venuto prestissimo a chiamare Drew» rispose Caspian Wheeler, posando la sua valigia a terra. Portò una mano alla fronte per proteggere gli occhi azzurrissimi dal sole. «Ha detto che Chirone aveva una questione piuttosto importante di cui parlare con le due Tanaka, e Silena si è offerta di accompagnarle.»

«Ah, sì!» esclamò Beatrix. «Mi sono svegliata presto proprio perché hanno fatto un po' di rumore. Dovrei proprio comprare dei tappini per le orecchie...»

Penelope aggrottò la fronte, ignorando l'affermazione sui tappini. «Avete sentito o visto altro?»

«No, parlavano a voce molto bassa. Però, nella poca luce, ho visto Drew sbiancare un po'» rispose Addison.

«Addirittura?»

La ragazza annuì e lei iniziò a preoccuparsi. In effetti, quella mattina Nerea non era nel suo letto. Non se ne era fatta un problema, però, perché la sua amica aveva la spaventosa abitudine di svegliarsi poco prima dell'alba. Non riesco a dormire oltre, diceva, e Penelope non osava controbattere.

S'alzò con un balzo. «Grazie, ragazzi. Buon anno, se non ci rivedremo per Natale, e mangiate tante caramelle.»

«Mio padre è un dentista» contestò Caspian, ponendo le mani sui fianchi con uno sbuffo.

«Un ottimo motivo per rubarne qualcuna dai negozi senza che nessuno se ne accorga!» esclamò Penelope, voltandosi per rispondergli ma continuando a camminare all'indietro. «E ricordate: la polizia non sa arrampicarsi. Se proprio dovete scappare, salite da qualche parte!»

I tre la salutarono con un coro di leggere risate e lei partì spedita verso la Casa Grande, immersa nel sole delle dieci. La sensazione che qualcosa sarebbe andato storto, di lì a poco, non faceva che aumentare.

Ed ecco, che la prima cosa prese a vacillare, minacciando di frantumarsi in pochi attimi.

Penelope stava costeggiando gli ampi e rigogliosi campi di fragole, profumati sotto al caldo sole di quella giornata, quando un tocco leggero, proveniente da una mano piccola e sottile, si fece sentire sulla sua spalla destra. Voltò immediatamente il capo, in sé sperando che si trattasse di Silena.

Ma non era la figlia di Afrodite. Era Annabeth.

Aveva, sul viso, un'espressione grigiastra come i nuvoloni che racchiudeva nelle rare iridi, come se ci fosse qualcosa che la rendeva triste. Nella mano libera, stringeva la pallida carta di una lettera.

«Ehi» la salutò Penelope, increspando appena le labbra in un sorriso.

«Ehi» ansimò la bionda in risposta, riprendendo velocemente fiato. Doveva aver corso per raggiungerla. Esitante, gettò uno sguardo alla lettera che le sue dita stringevano.

Penelope caricò il proprio peso sulla gamba sinistra, incrociando le braccia al petto e dipingendo un piccolo ghigno sulle proprie labbra. «Chi ti ha scritto, Chase? Hai un ammiratore segreto?»

Lo sguardo che Annabeth le rivolse, una volta alzato il capo, bastò per far sgretolare nella sua bocca ogni parola scherzosa che avrebbe potuto rivolgerle. La figlia di Atena prese un respiro tremante. Sembrava aver paura di dirle qualcosa.

«Oh, non dirmi che è un ragazzino di Ares» sorrise divertita Penelope, passandosi poi la lingua sui denti. «Chi lo direbbe poi, a Clarisse?»

«Non è un ammiratore segreto» sospirò Annabeth.

«Però non ti dispiacerebbe, ammettilo.»

La bionda sorrise appena. «Se fosse di Ares, me ne dispiacerei.»

Penelope provò ad aggrapparsi alla debole scintilla di sorriso che le aveva intravisto sul viso, sperando che sarebbe riuscita a strapparle una risata vera e propria. «Allora, te lo dico io, che mi chiamano la Pizia» disse. «E' una lettera di tua madre, che ti richiede con impazienza di salire sull'Olimpo per divenire l'architetto ufficiale.»

Non ottenne un nuovo sorriso da parte della dodicenne di fronte a lei. Anzi, la menzione della madre parve scurire ancor di più l'espressione che Annabeth aveva in viso. «Magari fosse questo. La lettera è di... di mio padre.»

La sopracciglia di Penelope schizzarono in alto. Non se l'aspettava proprio. «Tuo padre?» cercò di lanciare uno sguardo alle parole sulla carta, di una calligrafia disordinata a frettolosa, chiaramente maschile. «E quando ti ha scritto?»

«Sono stata io a scrivergli» disse Annabeth. «Ho seguito il consiglio di Percy e ho provato a dargli una seconda chance. Lui mi ha riscritto subito. Quest'anno torno a casa.»

"Oh" fu tutto ciò che Penelope riuscì a dire. Ci pensò un attimo su e si rese conto che, in effetti, Annabeth non gliele avrebbe parlato. Non avevano un rapporto così stretto. Tuttavia, sembrava non averne parlato con nessun altro, almeno a quanto lei sapeva.

Si guardarono, silenziose. E così, anche lei se ne sarebbe andata. Penelope sperava, nella parte più profonda del suo cuore, che l'anno che avrebbero passato insieme, in attesa della nuova estate, sarebbe stato buono. Voleva rimediare a tutti gli errori commessi, ora che ne aveva finalmente il modo, e voleva costruire un buon rapporto. Innanzitutto, voleva porgerle delle scuse che ancora non avevano lasciato le sue labbra.

Tra le tante cose da dire, chiese: «E perché hai quella faccia?»

Annabeth alzò gli occhi, incontrando i suoi. «Credo sia perché non sono abituata a lasciare il campo» rispose, stringendosi tra le spalle. Esitò un istante. «E poi, avevo paura che ci restassi male. Abbiamo appena fatto pace eᅳ»

«Non abbiamo propriamente fatto pace» osservò lei, il cuore riscaldato dalle parole della bionda. Trattenne a fatica un sorriso. «Non ci siamo dette niente, in effetti.»

La figlia di Atena si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. per allontanarla dallo sguardo. «Hai fatto tutto ciò che volevo vedere da parte tua. Mi hai chiesto scusa. Negli Inferi, prima che noi scappassimo. Mi hai chiesto scusa.»

Penelope ricordò quel momento in un fugace flash, strizzando le palpebre. Cosa era stato? A tratti nemmeno se ne era ricordata. Quelle scuse erano venute da chissà dove, le avevano risalito la gola nel bisogno di dire qualcosa. Forse, voleva che le sue ultime parole avessero un peso.

«Ti basta? A me non basta.»

Le guance di Annabeth si tinsero appena appena di rosa, animandole il viso. «Vuoi delle scuse da parte mia?»

«No, non sei tu quella che deve chiedere scusa.» Penelope si passò una mano sulla fronte, non credeva che quel momento sarebbe arrivato così presto. Se l'avesse saputo, si sarebbe preparata un discorso. «Non mi basta il semplice averti chiesto scusa, questo è il problema.»

Annabeth allungò appena appena il collo verso l'alto. «Non ti credevo così gentile.»

«Non è essere gentili» replicò lei. «E' essere giusti.»

E lei voleva essere giusta, nei suoi confronti. Avevano passati anni a disperezzarsi a vicenda per un motivo che, ora come ora, non sembrava più grande della punta di un dito. Non se le meritava, tutte le cose che le aveva detto e fatto.

La bionda deglutì con lentezza, prima di parlare. Per un istante solo, parve esitare, come se fosse sul punto di rimangiarsi ogni parola e ritirarsi da quella conversazione. «Ho sentito tutto, sul treno.»

Le sopracciglia di Penelope schizzarono verso l'alto.

La bionda annuì, abbassando poi gli occhi ai propri piedi. Per la prima volta in vita sua, Penelope la vide insicura di quello che stava facendo. «Tutto quello che hai detto a Percy. Non stavo dormendo perché Grover mi aveva appena tirato un calcio da sotto al tavolo, svegliandomi.» Le sorrise e Penelope avrebbe voluto sotterrare la testa nell'erba come uno struzzo. «Posso immaginare come tu ti sia sentita. Per i primi tempi, credevo che Luke e Talia avrebbero presto perso interesse in me perché avevano già te. Dopotutto, mi era già successa una cosa simile.»

Penelope avrebbe voluto farsi piccola piccola. «Un gioco di cause...»

«Conseguenze e riflessi, sì» concluse Annabeth, celando un lieve sorriso dietro una ciocca di capelli. «Eri piccola e lui era l'unica persona che avevi mai avuto. Capisco anche la gelosia.»

«Forse...» Penelope rilasciò un respiro tremante, non riuscendo a contrastare il sorriso che spingeva agli angoli della sua bocca, «avremmo dovuto dirci queste cose un po' prima.»

«Forse.» Annabeth si strinse tra le spalle. «Devo ancora capire quali sono i lati del mio carattere che non ti vanno tanto a genio, però...»

Penelope rise reclinando all'indietro il capo, percependo tutti i detriti e le polveri degli anni passati, edifici crollati su loro stessi, raccogliersi ed iniziare a prendere una nuova forma. Le mani le tremavano per la contentezza. «Quelli sono segreti di stato, non posso rilasciarli.»

«No?»

Fece schioccare la lingua contro il palato, scuotendo il capo. «No, mi dispiace.»

«Tanto verrò a saperlo, prima o poi» replicò la bionda, inarcando un sopracciglio.

«Me la stai tirando? Se vuoi rimetterti a litigare, possiamo iniziare anche subito.»

«No, no» sorrise Annabeth, scuotendo il capo con un nuovo bagliore negli occhi. Le parve di scorgere un piccolo sole brillare in essi, facendosi strada fra i possenti nuvoloni con i suoi sottilissimi raggi. «Dichiaro dunque concluso il conflitto tra Sparta ed Atene.»

«Io sarei Sparta?»

«Certamente. Io ho Atena dalla mia parte.»

«Mi pare giusto» rise Penelope. Tese la mano sinistra, attendendo la stretta della bionda. «Sanciamo allora questa pace, Pericle.»

«Smettila di chiamarmi così, ti prego» disse Annabeth con un'inaspettata confidenza nel tono di voce, allungando una mano e stringendola con la sua in una presa salda e decisa. «Mi immagino vecchia e raggrinzita, con la pelle che cede.»

«Stile Oracolo?»

Annabeth rise di nuovo. «Più o meno.»

Penelope stava sorridendo così tanto che ormai già sentiva i muscoli del suo viso protestare infastiditi, ma non se ne curò. Guardò Annabeth, osservando il modo in cui la luce solare donava ai suoi boccoli dolci riflessi dorati, ed un sentimento caldo come le rassicuranti fiamme di un caminetto iniziò a danzarle nel petto.

C'erano tanti di quei discorsi ancora da affrontare, ma scelse di non pensarci, almeno per quel momento. Perché? Be', andava tutto alla grande.

«Senti,» esordì, posandole le mani sulle spalle «aiutami a trovare Silena. Devo parlarle. E intanto, mentre la cerchiamo, mi dici qualcosa in più su questa faccenda di tuo padre. Che dici?»

«Mi sembra una buona idea» rispose Annabeth, umettandosi le labbra. «Ma Silena è proprio lì.»

Penelope voltò il capo, seguendo la direzione in cui lo sguardo della figlia di Atena s'era puntato. Silena sedeva sotto al portico della Casa Grande, da sola. «Bene, allora!» esclamò, carica di buon umore dalla freschissima conversazione e dalla pace ristabilita. «Ti dispiace se andiamo un attimo da lei?»

Annabeth scosse il capo in segno di diniego e la incitò a procedere verso l'alta casa azzurra e bianca.

Se la prima struttura non solo aveva smesso di vacillare, ma s'era fissata con più sicurezza nel terreno, qui la seconda vacillò con prepotenza.

Quando raggiunsero Silena, Penelope quasi non credette a ciò che vide. Mai, in tutti quegli anni spesi assieme, l'aveva vista in quello stato. S'avvicinò rapidamente, il cuore in gola per il timore che fosse successo qualcosa di davvero brutto.

La figlia di Afrodite sedeva su una delle sedie a sdraio poste intorno al tavolino da pinnacolo, la testa tra le mani ed il piede sinistro irrequieto. Indossava ancora il pigiama, segno che s'era affrettata ad uscire dalla Casa Dieci senza pensare a nient'altro. Fissava il vuoto con occhi vitrei, le belle labbra appena dischiuse in un'espressione assorta.

«Silena» chiamò Penelope inginocchiandosi davanti a lei. Alla sua mancata risposta, le pose le mani sulle spalle e la scosse appena. «Ehi, 'Lena, cosa è successo?»

La ragazza le rivolse lo sguardo e l'opacità di quei due zaffiri le fece venire i brividi.

«Silena, ti prego.» Annabeth si inginocchiò accanto a lei, scrutando il viso della figlia di Afrodite con la fronte aggrottata.

Silena si passò lentamente una mano sul viso, drizzando poi la schiena. «Come te lo spiego» disse quasi in un sussurro, la voce raschiata dalla lunga assenza di parole. Quando la guardò di nuovo, la sua espressione era sempre incolore. «E' assurdo.»

Penelope si sedette sul pavimento. «Cos'è assurdo? Drew e 'Rea?»

«Sono lì dentro da...» la mora allungò il collo per controllare la posizione del sole nel cielo, «quasi un'ora e mezza. Non ho idea di cosa stiano parlando.»

«Chi sta parlando di cosa?» chiese Annabeth, tirandosi in piedi. «Chirone doveva dir loro...?»

Silena scosse il capo ed alcune ciocche di neri capelli caddero a solleticarle lo sguardo. «No, non Chirone. Ci sono i loroᅳ»

La ragazza non ebbe modo di concludere la sua frase, perché le parole le furono strappate di bocca dal tonfo sordo con cui la porta principale si spalancò. Sussultarono tutte e tre, voltandosi giusto in tempo per vedere la figura slanciata di una ragazza allontanarsi ad ampie falcate.

«Drew!» chiamò Silena, alzandosi subito in piedi con un'espressione sollevata in viso.

La quattordicenne si voltò di scatto, i lunghi e lisci capelli neri che avevano riflessi color sangue nel sole di Agosto. Sul viso chiaro come la luce lunare giaceva un'espressione dura come la pietra. Parlò, tuttavia, con un tono zuccheroso come un bel e morbido frutto. «Sì, 'Lena?»

«Cosa vi hanno detto?» domandò sua sorella, raggiungendola con ansiosi passi.

Drew scosse il capo, sorridendo come sorriderebbe una bambola. Nulla aveva di vero, quel sorriso: era gelido come le acque dei Poli. «Oh, 'Lena. Vogliono essere una famiglia.»

Penelope ed Annabeth si guardarono, entrambe le loro fronti aggrottate dall'assenza di risposte. «Chi, Drew?» chiese la bionda, avanzando verso le due figlie di Afrodite affiancata dalla rossa.

«Silena non ve l'ha detto?»

«NO! MAI, MAI E POI MAI!»

Penelope si voltò di scatto, il cuore che saltava un battito, nell'udire la voce fin troppo conosciuta di Nerea. Voce spezzata ed intrisa di una tristezza indescrivibile, infranta come i vetri di uno specchio per porterà sciagure.

Chirone fece capolino da dietro la porta della Casa Grande, che Nerea aveva appena chiuso con violenza, con un calcio. «Nerea, cara, non piangereᅳ»

«No!» gridò lei di rimando, il bel viso rigato da lacrime amare. «Pensa davvero che mi lascerò trattare come un oggetto che a tratti si vuole e a tratti no? Mai, non accadrà mai! Se lo scordi! Lei e pure loro!»

Penelope aveva la gola serrata, chiusa in una ferrea morsa di paura. Cosa era successo?

Nerea si portò le mani ai capelli, respirando a fatica. Tra le lacrime, le sue ginocchia cedettero e lei finì in terra, piangendo ancora. Lei, Annabeth e Silena la raggiunsero in fretta.

Silena cercò di farla alzare, carezzandole con dolcezza il capo. Chiamò il suo nome con dolci sillabe, ma la tredicenne singhiozzò ancora più forte. Ormai, tutti i semidei e semidee, satiri e ninfe assistevano alla scena con occhi curiosi.

«Nerea» sussurrò Penelope, prendendole il viso tra le mani. «Alzati, andiamo via. C'è troppa gente.»

«Me ne infischio della gente!» gridò la sua amica, scansandola e sollevando con rabbia il capo. Tremava, da testa a piedi. Le allontanò tutte e tre, rialzandosi in piedi con uno sbuffo iroso. Poi, puntò un dito verso Chirone.

Il centauro era ora affiancato da due uomini perfettamente identici in viso. Erano entrambi vestiti interamente di nero, portando addosso giacca e cravatta in modo impeccabile. L'uomo di sinistra aveva la corporatura robusta di un nuotatore, con le spalle ampie e le gambe forti. Quello di destra era più mingherlino, ma alto quanto il primo. Chiaramente gemelli, avevano identici visi allungati e dalle guance leggermente scavate, due espressioni impenetrabili a solcargli i lineamenti asiatici. La seconda ed ultima differenza erano i tagli di capelli: quello di destra li portava corti come un militare, quello di sinistra più lunghi e tirati all'indietro con della brillantina.

Nerea era irriconoscibile. Gli occhi nerissimi, sempre caldi e dolci, erano ora accesi da un furore che solo nella rabbia disperata lei aveva mai visto. «Sai chi sono quei due, Penelope?» chiese con la voce spezzata dal pianto e vacillante dall'ira che le abitava il petto. «Sono i fratelli Tanaka, i padri miei e di Drew. Sono venuti qui a reclamarci come le loro bambine. Vogliono costruire dei bei ricordi per noi e per loro, come una grande, bella e felice famiglia! Dopo nove anni!»

Penelope guardò i due uomini con le labbra dischiuse dalla sorpresa. Un vecchio male, da lei fin troppo conosciuto, le dilaniò il petto, come ripetute e crudeli pugnalate.

Nerea stava per sbraitare qualcos'altro, ma Drew intervenne. Con mano fermissima ed un'espressione di marmo in viso, serrò le dita attorno al tessuto della sua maglietta e la strattonò, con un'inaspettata forza che la fece barcollare.

«Non è il caso di parlarne qui, 'Rea» disse, prendendo a trascinare la cugina via dall'attenzione dell'intero campo. Fulminò tutti gli spettatori con lo sguardo, esclamando poi: «E voi cos'avete da guardare, tornate alle vostre attività!»

Penelope, non sapendo cosa fare realmente, seguì Drew. Avrebbe voluto dirne quattro ai signori Tanaka, ma voleva prima capire cosa era successo, e capirlo nel dettaglio. Dato che la parola di Drew non aveva funzionato un granché, si occupò lei di folgorare tutti con lo sguardo, e questa volta il colpo andò a segno.

Drew trascinò Nerea fino al limitare della macchia boschiva, sotto l'ombra di un alto pino marittimo. Lì, lasciò andare la sua maglietta con un gesto brusco, posando poi le mani sui fianchi. Fissò la cugina con uno sguardo di pietra. «Cosa abbiamo detto, Nerea?»

La tredicenne scosse il capo, negando. «No, Drew, non lo farò. E' sbagliato.»

La figlia di Afrodite mosse un minaccioso passo in avanti, puntandole un dito contro. «E' più che giusto, invece. Lo hai detto tu: ci hanno ignorate per quasi dieci anni. Ed ora, noi li ripagheremo con la stessa moneta.»

«Ma non è andando a vivere con loro che lo faremo!» replicò Nerea, il viso contratto nello sforzo di non piangere ancora. «La sola prospettiva di stare nella stessa stanza con loro è... disgustoso, Drew! Come puoi...?»

«Potreste cortesemente spiegarmi cosa diavolo sta succedendo, tra voi due?» intervenne Penelope, prima che Drew potesse replicare. Si pose in mezzo alle due, allontanandole, per evitare qualunque brutta mossa.

Nerea aveva il respiro affannoso e gli occhi sgranati. Fissava la cugina più grande con una rabbia implacabile nello sguardo. «Diglielo tu» sibilò. «Visto che decidi per me quando, in realtà, non ne avresti il diritto.»

Penelope rivolse lo sguardo a Drew, il cui volto era una maschera impenetrabile di freddezza e compostezza, esattamente come quella dei due uomini sul portico. Nei suoi lineamenti ritrovò una somiglianza spaventosa. Silena ed Annabeth, intanto, assistevano alla scena con le labbra serrate.

«Allora, Drew?»

La figlia di Afrodite rilasciò un sospiro dal naso. «Una buona parte l'ha già spiegata Nerea, strillandola a mezzo campo» disse con freddezza, incrociando le braccia al petto florido. «Vuoi sapere com'è andata? Che dirti, i nostri padri si sono presentati qui di prima mattina, chiedendo di vederci. Vogliono una famiglia. Dicono che ci vogliono bene. Ora, desiderano averci con loro in casa, desiderano vivere insieme a noi.»

«Cosa che noi non faremo!» esclamò Nerea, furente. Cercò di muovere un passo avanti, ma Penelope la trattenne.

«Drew... vuoi accettare?» chiese Silena, cauta, facendosi avanti ed affiancando la sorellastra. «Hai idea di quanto sarebbeᅳ»

«Brutto? No di certo!» replicò Drew, col solito tono leggero. «Mio padre, quello più robusto, è il fondatore e proprietario di una delle più famose e produttive marche di profumi al mondo. Il padre di Nerea, invece, è sedici volte campione mondiale nelle corse, coi suoi cavallini purosangue. Sono ricchi da sfondare, 'Lena. La nostra vita non sarà affatto brutta!»

«Credi davvero che starete bene solamente per i loro soldi?» si fece avanti Annabeth, un'espressione disgustata in viso. «Drew, accidenti, non li conoscete nemmeno...»

«Non me ne può importare un accidenti, Chase. Chiamami pazza, ma so quello che dico.» Drew si portò con eleganza i lunghi capelli dietro le spalle, tornando poi a guardare Nerea e rivolgendosi a lei. «Tesoro, staremo benissimo. Hai idea di quante cose potremo comprarci? Spenderei ogni centesimo di quel denaro, ogni centesimo. Vivremo nel lusso puro. L'uniche cose di cui mi curo sono i loro soldi e la consapevolezza che, con essi, io e te vivremo da dee. Non fa una piega.»

Un gelido e teso silenzio cadde su tutte loro cinque, pressandole sotto il suo peso. Penelope osservò Nerea deglutire a fatica, forse per mandare giù il groppo che le occupava la gola, e rivolgere alla cugina uno sguardo indecifrabile.

No, non potevano davvero farlo. Era un'idea folle.

Drew inarcò un sopracciglio. «Allora? Nessuna di voi replica più?»

«Sei scellerata, Drew» sospirò con pesantezza Silena. «Non puoi sapere che tipo di persone quei due siano. E se fossero violenti? E se fossero immischiati in qualche brutto giro?»

«Chiamerei Chirone al primo segnale e ci farei riportare qua» rispose Drew, decisa. «Andremo a vivere a New York. Ci hanno già iscritte ad ottime scuole, ci ha pensato il padre di Nerea. La Brooklyn Academy per me e una certa Meriwether per lei. E' perfetto.»

«Non è perfetto, non lo è affatto» sospirò Nerea, scuotendo ancora il capo. Negli occhi aveva una tristezza indicibile. «Non voglio vivere in quel modo, non fa per me. Sei tu quella fatta per questo tipo di vita, non io.»

L'espressione marmorea di Drew vacillò, minacciando di sgretolarsi. «Mi lasceresti da sola?»

«Mai.»

«Allora verrai con me.»

Nerea stava per replicare, ma Drew alzò una mano per zittirla. «Non voglio sentire repliche. Se ci saranno problemi, e non credo ce ne saranno, torneremo qui. Te lo prometto. Pensa a tutte le cose che potremmo fare. Se non sbaglio poi, Percy Jackson dovrebbe frequentare la tua stessa scuola, quest'anno. Siete amici, no?»

Penelope sospirò, appoggiandosi con la schiena al tronco di un albero. «Drew, almeno si sa perché vi hanno abbandonate, anni fa?»

«Semplice: eravamo qualcosa che non potevano gestire» rispose la figlia di Afrodite, il tono che sottolineava l'evidenza di quell'affermazione. «Figlie di due dee dell'Olimpo. Pff, non ce l'avrebbero mai fatta. Conoscevano i problemi e i rischi, e si sono tolti un peso.»

«Ed ora, di punto in bianco, vogliono riprendersene carico?» intervenne Annabeth, posando le mani strette a pugno sui fianchi. «E' una cavolata, e lo sai.»

«Cavolata o meno, hanno un sacco di soldi. E credimi, quando dico un sacco

«Drew...» Silena, che era la maggiore e la più ragionevole tra loro, cercò di far cambiare idea alla sorellastra. «Si tratta di pura follia. Non potete sapere perché vi vogliono indietro.»

«Sembra sul serio che vi vedano come oggetti, dannazione» commentò aspra Penelope.

«Mio padre vuole un successore per il brand» affermò Drew, fiera. «E il padre di Nerea desidera insegnarle il mestiere, così che, un giorno, possa seguire le sue orme.»

«E se io non volessi seguire le sue dannate orme?» sbottò Nerea. «E se io non volessi una barca di soldi da spendere e spendere senza ritegno? E se io non volessi essere come te, Drew? Come la mettiamo?»

Prima che Drew potesse serrare la mascella, Penelope intravide il suo labbro inferiore tremare come una foglia scossa dal vento. Da un lato, non riusciva a capire. Dall'altro, capiva fin troppo bene.

Drew era arrabbiata. Era furiosa, decisa a farla pagare a coloro che le avevano trattate in quel modo. E si da il caso cheᅳpurtroppoᅳquei "coloro" fossero proprio i loro padri. Era una cosa assurda da pensare, ma capitava fin troppe volte nel mondo. Ci sembra innaturale ed impossibile che un genitore non possa amare più di ogni cosa, più della sua stessa vita, il proprio figlio. Penelope sapeva cosa significava sentirsi abbandonati, non rispettati, non amati dal proprio genitore.

Da un lato dunque, le dava piena ragione. Drew aveva una possibilità che lei non avrebbe mai avuto: un genitore mortale. E si sapeva, ad un genitore divino non si possono gridare le cose in faccia nella speranza che, forse, in quel modo avrebbe compreso l'errore commesso. Gli dèi non avrebbero mai capito, non avrebbero mai dato pieno ascolto alle parole dei loro insulsi ed effimeri pargoli mortali.

Un genitore mortale, invece ed in un lontanissimo forse, avrebbe potuto prestare orecchio alle proteste di un figlio.

Ma Silena aveva ragione: Drew non sapeva chi fossero quelle persone. Avrebbero potuto avere tutti i soldi del mondo, ma i soldi (uno) non sempre rendono una persona migliore, e (due) si possono legare a tante cose, a tanti giri e mani, e non sempre quelle mani donano carezze,

Ed il mondo, là fuori, non era un posto sicuro per quelli come loro, per i semidei.

Sospirò, attirando l'attenzione delle altre ragazze con lei. Quando alzò lo sguardo, incrociò immediatamente quello di Drew. «Non sono nessuno per ordinarti di fare questo o quello. Posso solo darti un consiglio, ma so già che non mi darai ascolto. Fa' come credi sia meglio, Drew, ma non pretendere di decidere per Nerea. Non è una bambina che puoi portarti dove vuoi e quando vuoi.»

Nerea la guardò come se non riuscisse a credere che si fosse arresa così facilmente. «Ma non voglio che sia da sola» intervenne, la voce quasi ridotta ad un sussurro. «Non posso lasciarla.»

«Verrai con me, allora?» le chiese Drew, la voce improvvisamente flebile ed incerta, come se avesse paura di una possibile risposta negativa.

Nerea si morse il labbro, indecisa. Sul suo bel viso, rigato dalle lacrime di poco prima, si dipinse un'espressione dubbiosa. Infine, dopo lunghi e silenziosi istanti, annuì. «Sì, verrò con te.»

Penelope infranse il silenzio caduto sulla radura battendo tra loro le mani, facendo così sussultare ognuna. Cercò di non pensare al fatto che molte più persone del previsto se ne stavano andando. Si sforzò di sorrider loro. «Bene, allora. Vi consiglierei di andare a fare i bagagli.»

E' lì che lo specchio si ruppe definitivamente.

Tra gli alberi alle loro spalle s'udirono diversi fruscii, suoni di rametti spezzati e di foglie calpestate. Pareva il rumore di qualcuno che trascinava, con fatica, qualcosa di pesante tra il fogliame. Penelope portò la mano alla tasca, all'erta.

Un fitto muro di intricati e pungenti rovi s'aprì quasi fosse una tenda, spostata da una mano invisibile. Ne sbucarono delle driadi, che trascinavano il corpo di un ragazzino quasi del tutto incosciente, in pessime condizioni.

Nerea cacciò un urlo.

«Luke...» rantolò Percy, mentre le driadi lo trascinavano sull'erba. «Luke...»

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