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19. Le ombre di altre ombre

「 𝐏𝐄𝐍𝐄𝐋𝐎𝐏𝐄 」

                    IN UN SOLO, BREVE MOMENTO, tutti gli scheletri le furono addosso. Penelope ne aveva tirate, di imprecazioni, durante la sua vita, ma mai tante quante ne tirò quel giorno negli Inferi.

Prima ne cacciò fuori almeno una ventina nel vedere le tre bolle contenenti i suoi amici schiantarsi contro il soffitto di stalattiti della caverna, avendo l'orribile timore che le sfere scoppiassero e che i tre ragazzini finissero infilzati dalla pietra. Poi, quando le bolle attraversarono il soffitto, si concesse un sospiro di sollievo.

Le imprecazioni peggiori arrivarono quando i soldati-scheletro iniziarono ad attaccarla senza alcuna remora. Non ci pensarono due volte, gli infami, a rivolgerle contro tutte le armi. Be', si disse, avrebbe anche dovuto aspettarselo, dopotutto.

«Figlio di una...» ansimò, respingendo con un brutto calcio l'attacco di uno scheletro vestito da una giubba rossa inglese, «... papera

Affondare la spada nelle costole di quei cosi non era lontanamente possibile, perché non c'era niente da colpire. Era impossibile colpirli in posti normali, perché non sarebbe successo nulla ─ sapete, erano già morti, più di quello non si poteva fare. Così calci, gomitate e colpi con l'elsa erano l'unica soluzione, se si volevano rompere delle ossa.

A Penelope era sempre piaciuto il rumore sordo che producevano le ossa rompendosi, quindi non si trattò di un gran dispiacere.

Colpì con l'elsa di Alétheia la clavicola di uno scheletro della marina, con così tanta forza da mandarlo all'indietro. Il tipo inciampò su una fila di soldati alle sue spalle, producendo un adorabile effetto domino.

Certo che, per essere soldati, siete proprio goffi.

Stava per tirare una ginocchiata ad uno vestito come i soldati di Napoleone, quando l'ennesimo suono di un osso fratturato le riempì l'udito. Solo che, stavolta, il suono proveniva da una delle sue ossa.

Gridò di dolore, sentendosi la caviglia destra andare in fiamme. Un dolore ardente si diffuse su per tutta la sua gamba, e lei crollò in ginocchio in mezzo all'ammasso di scheletri guerrieri. E' finita, riuscì a pensare nella scura nube di dolore che le annebbiava la mente. E' andata.

«FINITELA! STATE FACENDO UN CASINO TREMENDO!» ruggì una voce, suono che le riempì le orecchie e che rimbombò su ogni parete dell'ampia sala.

La pressione degli scheletri, tutti ammassati tra loro, s'allentò fino a svanire. Restarono solo le grida di dolore che racchiuse in gola, amarissime sulla sua lingua. Ogni cosa s'offuscò, tutt'intorno si fece nero e lei ebbe l'unico desiderio di dissolversi in nebbia.

                      Il sogno in cui sprofondò era vacuo e sfocato come un ricordo annacquato. Ogni cosa pareva aver perso i suoi contorni e lei aveva la sensazione di vederci doppio. Era costituito di materia fredda e fumosa, vapore forse, Foschia forse ancora. Provò ad allungare una mano ed affondò le dita nell'oggetto che le era più vicino come se questo fosse liquido.

Un braciere in bronzo.

Una dolce fiamma, calda e rassicurante, lambiva le pareti dell'oggetto con calma, scoppiettando ed illuminando un poco l'ambiente circostante. Strizzando gli occhi per vederci meglio, Penelope s'accorse di trovarsi in una sorta di spiazzo fra degli alberi, ulivi. Il cielo sopra il suo capo era scuro di una notte stellata. Non riuscì a capire per quanto s'estendesse l'uliveto in cui si trovava, ma doveva essere un bel po', perché nessun rumore al di fuori del crepitio del fuoco raggiungeva le sue orecchie.

Stava in piedi accanto al braciere, il viso inondato dalla luce delle fiamme. Dall'altro lato di esso, di spalle, stava in piedi un ragazzo.

Essendo ogni cosa sfocata e priva di contorni, macchie di colori ammassate fra loro per dar vita a forme inesistenti, non lo riconobbe immediatamente. Indosso aveva una maglietta di uno sgargiante arancione, sul quale le fiamme avevano brillanti riflessi. Era alto, la figura slanciata e sottile e quella che le parve un'ordinata e corta chioma di capelli biondi come il grano.

«Dove vai?» chiese una voce femminile, strascicata e sonnolenta come quella d'una persona troppo stanca. «Dove devi andare?»

Penelope avvertì un lieve mal di testa sbocciare oltre la sua fronte, esattamente al centro di essa, per poi diramarsi come seguendo il sibilare d'una freccia fino al centro esatto del suo cranio. Ebbe una vaghissima, sfuggente e flebile sensazione di déjà vu.

«Non posso dirti dove vado» replicò una voce maschile, sicuramente quella del ragazzo, in risposta alla domanda dell'altra voce. «E tu non puoi venire con me.»

«No?» chiese ancora la voce femminile.

«No, Penelope.»

La figlia di Ermes trasalì. Solamente udendo il suo nome esser pronunciato, riconobbe il proprietario della voce maschile, e di conseguenza anche quella della voce femminile. Le bastarono due cose: il timbro di voce e l'accento.

Luke aveva sempre avuto un accento particolarmente marcato, Connor spesso diceva che si sentiva, che erano nati in Connecticut.

Barcollando appena, forse per il colpo che le era appena preso, forse per la visione annacquata, circondò il braciere con un paio di falcate e passò dall'altro lato. Si pose di fianco al ragazzo, e trasalì ancora.

Era Luke, sì che era lui. Non le servivano dieci decimi di vista per riconoscere suo fratello. Si voltò, veloce e con il cuore in gola, riconoscendosi nella figurina smagrita che stava di fronte a lui.

Che cos'era quel ricordo? Le parve tremendamente recente e la sensazione di déjà vu aumentò solamente, segno che quello era un evento vicino nel tempo. Non capiva. Non ricordava nessun momento del genere, nessun uliveto, nessun braciere.

L'ultima, effettiva volta in cui aveva visto quel tipo di alberi era il giorno del solstizio d'inverno, quando il Campo Mezzosangue s'era recato a far visita all'Olimpo. Dalla strada che portava fin su al palazzo principale, infatti, si riusciva ad intravedere un esteso campo d'ulivi, fiorenti e magnifici sotto al sole.

«Ma non puoi andar via» biascicò quella versione di sé stessa, e a guardarsi così la sua confusione s'infittì solamente. Pareva sotto l'effetto di un potente farmaco, come se le avessero appena mandato una bella dose di morfina endovena. Alla luce tremolante delle fiamme, il suo volto pareva più pallido del solito. «Noi andiamo... andiamo sempre insieme.»

«Non questa volta» replicò suo fratello, e lei si voltò a guardarlo. Notò solo in quel momento il borsone che portava in spalla. Sembrava contenere qualcosa di abbastanza pesante. «E' una cosa di cui mi devo occupare da solo.»

«Ma poi torni, vero?» piagnucolò la ragazzina.

Forse, Luke sorrise, ma non avrebbe saputo dirlo. «Certo che torno. Tornerò sempre.»

«Mh. Allora va bene.»

Per qualche istante, solo lo scoppiettare delle fiamme riempì il silenzio. L'uliveto era quieto ed ombroso, i massicci tronchi degli alberi inargentati dalla luce lunare. Una brezza fresca che portava il profumo di tanti, tantissimi fiori spazzò la piccola radura e le smosse i capelli.

Il mal di testa si fece più intenso, ed ora una seconda freccia fu scoccata, andando a conficcarsi proprio nel sottile strato osseo che costituiva la sua nuca. Pulsava, come un cuore che batte od una radice straripante di vita, e spingeva contro le sue ossa craniche un dolore pungente come aghi. Le parve di avere un palloncino al posto del cervello, che si gonfiava sempre più velocemente, minacciando di farle esplodere la testa.

«Grazie, Penelope» disse Luke. Fu abbastanza sicura di vederlo stringerle le mani nelle proprie, chinarsi appena e portarsele alle labbra, lasciandovi poi un bacio, come se fossero oggetti ai quali teneva molto. «Mi sei stata d'aiuto.»

«Sempre disposta a farlo» borbottò la Penelope del ricordo, forse sorridendo.

Il ragazzo le posò una mano sul capo e le scompigliò i capelli, come al solito. Poi, s'allontanò ad ampie e frettolose falcate, che risuonarono sul terreno ricoperto d'erba come soffici tocchi di un morbido corpo.

Penelope restò lì, in piedi dinnanzi al braciere con le spalle curve e quello che le parve un sorriso ebete in faccia. Per un istante, ebbe l'istinto di seguire Luke per scoprire dove se ne fosse andato, ma quando provò a muovere un passo si scoprì circondata da una sorta di invisibile barriera che le impediva di andarsene. Forse perché il ricordo era suo, non di suo fratello, e dunque si fermava all'uliveto.

Le sue ginocchia si fecero di gelatina d'improvviso. Colta di sorpresa, finì in terra con una bella ginocchiata, che le mandò scariche di dolore su per tutte le cosce. Frenò la caduta con le mani, puntandole al terreno. Alzò il capo, accorgendosi che anche l'altra versione di sé era finita in terra.

L'altra Penelope, invece, chinò il capo, che dondolava pigramente come se fosse un peso troppo greve per esser sostenuto. Il vuoto le riempiva il petto. Le lunghe ciocche di capelli rossi sfiorarono il terreno e le fiamme su di esse brillarono come sul bronzo.

Si guardò lasciarsi andare a terra, le braccia anche loro fatte di gelatina. Caddero entrambe su di un fianco, solo che l'altra Penelope aveva sulle labbra ancora impresso quel sorrisino sonnolento e privo di calore che aveva assunto alle ultime parole di Luke.

Poi, Penelope s'addormentò.

E lei restò lì, sveglia, ancora per qualche istante. Il vuoto sotto al suo sterno si fece freddo come ghiaccio. Le palpebre le si chiusero poi da sole, troppo grevi per restare aperte e lei senza alcuna capacità di contrasto contro la volontà del suo stesso corpo.

Di nuovo, solo buio.

                   Riprese coscienza dopo un bel po', ma non avrebbe saputo dire quanto, per la precisione. Strizzò le palpebre, riprendendo piena coscienza di sé stessa e, suo malgrado, della sua caviglia. Metri e metri sopra di lei, il soffitto di stalattiti troneggiava minaccioso, raggiunto a malapena dai bagliori delle torce appese alle pareti.

Corrugò la fronte nel fresco ricordo di quel sogno. La sensazione di vuoto che le opprimeva il petto era ancora presente, sfumata ed indebolita ma ancora viva e pulsante sotto al suo sterno. Non riusciva a capire di cosa si trattasse, quale fosse quel momento. Era vero: fin troppo spesso si dimenticava le cose, tutte le cose, ma le sarebbe risultato davvero difficile dimenticare un momento come quello.

Le sue tempie parevano volersi aprire per lasciare spazio al forte mal di testa che le gravava sul capo, pigiando il suo cervello contro le ossa del suo cranio. Si sentiva stanca e spossata, come se il sangue all'interno delle sue vene si fosse di colpo raggrumato, prendendo la stessa consistenza dei colori a tempera quando restano fuori dal tubetto. Il freddo che aveva attorno, poi, non aiutava affatto.

«Dici che è ancora viva?» chiese una voce, femminile, quasi in un sussurro.

«Secondo me, no» replicò una seconda voce sussurrata, stavolta maschile.

Grugnì scocciata, chiudendo per un istante gli occhi.

«E' ancora viva.»

Chiunque fosse accanto a lei sussultò. Penelope avvertiva due presenze fredde come il ghiaccio, una alla sua destra ed una alla sua sinistra. Con un altro grugnito, si sollevò sui gomiti.

Non si trovava più sul bronzeo pavimento della sala del trono, ma era stata trasferita in una qualche stanza secondaria, scura come la notte. L'unica, debole fonte di luce era un braciere posizionato al centro della stanza, che ardeva di fiamme morenti e tizzoni ormai consumati. Guardandolo ripensò a quello del sogno. Si rese conto di essere stesa su un letto, dal materasso stranamente sofficissimo, e l'idea di farsi un pisolino le sfiorò la mente. Era così stanca... Ma no, non poteva permetterselo. Aveva troppe domande per le quali cercare una risposta e, cosa più importante, in quel momento sarebbe dovuta essere morta.

L'arredamento, per essere quello del palazzo del Signore dei Morti, era davvero povero. Partendo dal principio: la stanza era minuscola. Sulla parete di destra stava una piccola credenza, rovinata dal tempo, su i cui scaffali erano stati riposti pochissimi effetti personali, ovvero: una spazzola per capelli, uno specchio dall'aria antica ed una pila di perfettamente piegate vesti nere come le tenebre. Sul lato sinistro della stanza, invece, stava una seconda credenza, ma più alta e spaziosa della prima. Sugli scaffali più alti, gli unici presenti, stavano posati diversi stracci. Nella parte più bassa erano impilate scope, scopettoni, secchi vuoti e bacinelle per i panni sporchi.

Penelope capì all'istante: la stanza degli inservienti.

Poi, solo alcuni secondi dopo, notò gli inservienti.

Parevano costituiti di ombre, come se qualcuno avesse acciuffato ciò che gli oscuri angoli di quel palazzo nascondevano e poi avesse pressato tutto il raccolto insieme, dandogli forma umana. Erano un ragazzo ed una ragazza, sicuramente i proprietari delle voci sussurrate che poco prima aveva udito. Le loro figure tremolavano nella debole luce del braciere, come se minacciassero di spegnersi allo svanire del buio. I tratti dei loro volti non erano ben distinguibili per via di quel tremore, ma Penelope distinse delle espressioni timorose in quelle ombre. Entrambi indossavano abiti greci: lui una tunica totalmente nera e lei un lungo chitone dello stesso colore, fermato sulle spalle con spille scure. Riusciva a distinguerli nel buio solamente perché avevano le vesti bordate d'argento.

Non sapeva se fidarsi o meno ma, se non altro, quei due erano probabilmente il motivo per cui lei era ancora in vita. Aveva bisogno di risposte, così si mise l'anima in pace ─ dillo a quelli dei Campi della Pena! Okay, no, pessima battuta ─ e decise che era il tempo per le domande.

«Chiunque voi siate» esordì. «Perché sono ancora viva?»

I due sussultarono di nuovo, come se non si aspettassero che parlasse.

Non dovevano interagire particolarmente con le persone ─ oppure, lei era talmente pallida da sembrare seriamente morta.

Penelope sospirò stancamente, mettendosi a sedere ed ignorando il lieve dolore alla caviglia. Si sorprese di sentirlo meno intenso di prima. «Va bene, iniziamo con i convenevoli. Quali sono i vostri nomi?»

Di nuovo, i due non risposero. La dodicenne allora sbuffò una seconda volta, voltando il capo alla ricerca della sua spada. Aveva bisogno di intrattenere le sue dita. La trovò posata su uno sgabellino accanto al letto dove stava, sul quale erano posati anche dei medicinali di cui non conosceva i nomi. Allungò una mano e prese la fish, rigirandosela tra le dita. I due inservienti, a quel gesto, arretrarono ancora.

Penelope si chiese quanto ci avrebbe messo ad ottenere una sola informazione da quei due. «Sentite, ragazzi. Non voglio farvi del male. So che posso sembrarvi... un fenomeno da baraccone, perché sono ancora viva. Ma davvero, voglio solo alcune risposte. Potreste fornirmele?»

Il ragazzo e la ragazza si guardarono titubanti, gli occhi scintillanti come ossidiana nelle ombre. Poi, lei annuì, sospirando. «Io sono Melissa» disse, la voce dolce come miele. «E lui è Filippo.»

Filippo la guardò male. «Θυγάτηρ! Perché lo hai detto? Il Signore ci ha ordinato di non parlarle!»

«Il Signore credeva che sarebbe morta in poco tempo, sciocco!» replicò Melissa, il tono di rimprovero che pareva irreale con quella voce così dolce. «Per questo ce lo ha ordinato. Tanto, chi parlerebbe ad un morto?»

«Il Signore ci parla, coi morti...» brontolò Filippo, beccandosi uno scappellotto da parte della ragazza.

Penelope sorrise appena, nel guardarli. «Grazie, Melissa. Io sono Penelope. Potresti dirmi cos'è successo?»

La ragazza annuì e congiunse le mani al grembo, sedendosi poi sul letto. Per un istante esitò, facendo per rialzarsi, ma Penelope la rassicurò con un gesto del capo. «Il Signore ci ha chiamati e ci ha detto di portarti via» iniziò Melissa. «Ti abbiamo trovato svenuta sul pavimento della sala del trono. Non sappiamo cosa sia accaduto in precedenza.»

«Si sentiva solamente un gran θόρυβον provenire dalla sala. Un gran, gran baccano» affermò Filippo, sedendosi a sua volta sul letto. Aveva il marcato accento di chi ha imparato l'inglese come seconda lingua, mentre Melissa parlava alla perfezione. Penelope rabbrividì per le due presenze gelide dei ragazzi.

Melissa riprese il racconto. «Respiravi appena ed il tuo polso era molto basso. La tua caviglia... aveva una brutta, bruttissima piega!» La ragazza rabbrividì, strizzando gli occhi, e si lasciò sfuggire una breve, piccola preghiera ad Asclepio in greco. «Il Signore ci ha detto di portarti via e, quando saresti morta, di consegnare la tua anima alle guardie e farti scortare fino ai Campi della Pena. Avremmo poi consegnato il tuo corpo a Caronte, che avrebbe deciso cosa farne.»

«Le opzioni erano tre» aggiunse Filippo. «Far sbranare le tue membra da Cerbero; buttarle nello Stige e farle affondare; bruciarti come si faceva un tempo, come sulla pira.»

«Però poi il Signore ha affermato che bruciarti sulla pira sarebbe stato troppo onorevole per una... una mocciosa come te, e che quindi la terza opzione andava cancellata» aggiunse Melissa, la voce dolcissima.

«Oh, be', il vostro Signore ha sempre nutrito una grande simpatia nei miei confronti» commentò Penelope. Dal silenzio interrogativo dei due ragazzi comprese che non avevano appreso pienamente il suo commento. S'appoggiò con la schiena alla parete alle sue spalle. «Poi, cos'è accaduto?»

«Oh, la Regina Persefone è scesa» rispose Filippo, con un'esclamazione sognante. «Li abbiamo sentiti discutere fin da qui. Altro gran θόρυβον. Lei insisteva a domandare il motivo di tanta rabbia, dicendo al Signore che La Città degli Angeli era in fiamme per colpa sua.»

La città degli... Ah, sì, Los Angeles.

Melissa annuì, cupa. «E' stata una brutta discussione, proprio brutta. Alla fine però, come sempre accade, la Regina è riuscita a placare l'ira del Signore. Ci ha richiamati nella sala e ci ha ordinato di tenerti in vita, se possibile. Poi è tornata di sopra.»

E così Persefone le aveva salvato la vita. Ecco, adesso aveva un debito anche con lei. «Continua.»

«Abbiamo fatto tutto ciò che eravamo in grado di fare» riprese Melissa. «Hai così tante erbe mediche e sostanze nel sangue che ormai dovresti essere già morta, avvelenata, se non fosse stato per il goccio di sangue mortale che ci abbiamo messo.»

Penelope sgranò gli occhi, trasalendo. Le venne istantaneamente voglia di vomitare. «Ci avete messo... il sangue umano

«Era l'unico modo per tenerti in vita» giustificò Filippo. «Il miscuglio di medicinali ed erbe, presi direttamente dalla scorta personale della Regina, era così forte da poter mettere al tappeto un'intera legione.»

Oh, be', almeno sono viva. Penelope lanciò uno sguardo alla propria caviglia, ora fasciata da bende imbevute di una qualche sostanza tiepida ed il cui candore risaltava contro il buio della stanzetta, «La caviglia?»

«Dovrebbe star bene, ora» rispose Melissa. Guardò la sua opera e vi posò una gelida mano. «L'abbiamo posta nella direzione corretta, medicata in ogni modo e fasciata con cura. Spero vada bene. E' tutto ciò che so... su come trattare le caviglie, intendo.»

«Andrà benissimo» la rassicurò Penelope, sorridendole. Li guardò entrambi, grattandosi poi il dorso del naso. «Grazie, ragazzi. Vi devo la vita.»

Filippo scosse il capo. «Oh, no, non devi. Noi siamo già morti.»

«E come?»

«Siamo nati morti» rispose Melissa. Nel notare la sua espressione confusa, sorrise appena. «Siamo ciò che resta di quei primi spiriti mortali che, millenni e millenni fa, scesero quaggiù. Tutti i servi del palazzo lo sono. Prima ancora che Prometeo donasse il fuoco ai mortali, siamo figli delle scure anime di quei tempi. Della paura che abitava gli animi umani. La parte più scura dell'umano, quella di cui nessuno ha bisogno. Lo scarto. Noi nasciamo da quelle ombre, generatesi da altre ombre. E' un ciclo continuo, che non si chiude mai. I nostri genitori erano servi qui, così come i nostri nonni e tutti coloro prima di noi. Ombre che muoiono e che danno vita ad altre ombre. Come le fenici, sai? Dalla cenere loro rinascono. Noi non ci generiamo dalle ceneri...»

«Sarebbe troppo onorevole e grandiosa, come cosa, per delle ombre come noi» commentò Filippo.

«... ma rinasciamo sempre, come loro. Un pezzo della nostra ombra resta in colui o colei che verrà dopo di noi» concluse Melissa.

Certo che non facevano una bella vita, le ombre, lì giù. Si chiese se quei due avessero mai visto la luce del sole, ma temeva che la risposta sarebbe stata negativa. Penelope guardò i due ragazzi, sorridendo loro. «Che si fa, ora?»

«Temo tu debba essere ricevuta dal Signore» sospirò Filippo, come se già sapesse che il suo destino era segnato. «Nel migliore dei casi, ti torturerà personalmente.»

Be', incoraggiante.

Persefone l'aveva fatta tenere in vita, ma solo per dar modo ad Ade o alle Furie di divertirsi di più, quanto l'avrebbero torturata. Sperare nel buono diventava sempre più inutile.

Sospirò, annuendo. «Accompagnatemi, dai.»

Durante il tragitto verso la sala del trono, tragitto che si rivelò lunghissimo, Penelope ebbe modo di ripensare a tutto ciò che era accaduto in precedenza, accompagnata dal lievissimo fruscio che Melissa e Filippo avevano alle sue spalle.

Ares li aveva ingannati, ovviamente, e lei era furiosa per questo. Avevano sprecato tempo preziosissimo, solamente per ricevere una bella batosta in piena faccia. Il dio della guerra si era preso gioco di loro con una facilità impressionante, facendogliela sotto al naso. Come aveva fatto, a non accorgersi ch'era tutta una presa in giro? Ciò che la consolava, però, era la certezza che i suoi amici e compagni di sventure l'avrebbero fatta pagare a quell'idiota.

Oh sì, lei sapeva che gliela avrebbero fatta pagare.

Il pensiero dei suoi amici le strinse il cuore in una morsa gelida e dolorosa. Non pensava che il giorno in cui avrebbe detto loro addio sarebbe arrivato così presto e così inaspettatamente. Almeno, però, loro erano ancora vivi. Sicuramente, era meglio ch'esser morti.

Ripensò anche a suo fratello. Se l'era gufata proprio quando, prima di partire, aveva pensato: "Rischio di non rivederlo mai più. Meglio salutarlo come si deve". Se l'era gufata, è vero, però ci aveva azzeccato. Per l'ultima volta, lo aveva visto col sorriso sulle labbra.

Cercò inutilmente di collegare quel sogno a qualche evento di cui aveva memoria, ma non ci riuscì proprio. Era come se avesse assistito al ricordo di un'altra Penelope.

Il sogno della creatura era anche giusto! Si maledisse cento e cento volte per non aver dato retta a quell'avvertimento, sulla spiaggia. Aveva ragione, quando diceva che "era già con loro". Sciocca era stata, a non capire subito di cosa stesse parlando. Le aveva persino mostrato la sfera di fulmini, dannazione! Ma quanto si doveva essere stupidi, per non capirlo? Se avesse capito prima e se ne avesse parlato con Percy, Grover ed Annabeth, forse tutto quello non sarebbe accaduto.

Persa nei suoi pensieri, il ritorno alla realtà risultò come un piccolo trauma. Trasalì quando la voce di Ade, melliflua, colpì il suo udito, lenta come le fusa di un grosso felino. «Ebbene, è viva» affermò il dio. «Speravo che il cocktail di erbe che le avete dato l'ammazzasse.»

Simpatico come sempre.

Penelope gettò uno sguardo alle proprie spalle, in attesa che Melissa o Filippo proferissero parola. Poi però, si ricordò che erano servi troppo... servi per replicare alle parole del padrone.

«Andatevene, voi due» disse annoiato Ade, agitando la mano come per scacciare un insetto che gli dava noia. «Tornate alle vostre faccende.»

Penelope seguì con lo sguardo i due ragazzi farsi indietro, fino alla fine del corridoio. Le lanciarono uno sguardo triste e svoltarono l'angolo, sparendo con le loro ombre ed i loro fruscii nell'oscurità. Ora, era sola nella sala del trono, con Palla di Neve.

Lei ed Ade si fissarono per lunghi istanti, muti. Per qualche secondo, valutò la possibilità di scappare via. Dopotutto, la porta alle sue spalle era ancora spalancata. Non avrebbe funzionato, come cosa: avrebbe finito per perdersi tra gli innumerevoli corridoi del palazzo, o forse le tre Racchie Rugose l'avrebbero trovata e scuoiata viva. E poi, dubitava di riuscire a correre sul serio, abbastanza veloce da permettersi di fuggire; la sua caviglia, nonostante le ottime cure di Melissa, non avrebbe retto.

«E così...» Ade la fissò annoiato, «sei viva.»

«Be', signore, anche lei è vivo, se non erro.»

Il dio dei Morti storse il bel viso in una smorfia, come se avesse appena visto qualcosa di nauseabondo. «Mi chiedo quando finirai polverizzata, semidea.»

«Oh, ci creda o no, ma gli Olimpici amano me e la mia impertinenza» replicò Penelope, stringendosi tra le spalle. «Certi ci si divertono anche.»

Ade alzò gli occhi al cielo, come a dire "come no". «Più che "impertinenza", io la chiamerei "noncuranza"» affermò. Si mise più comodo sul proprio trono, accavallando le lunghe gambe. «Sembri proprio non dar peso alle buone maniere. Chirone non t'ha insegnato nulla, in questi anni?»

Penelope si fece avanti a lente falcate, avanzando tranquillamente sui pavimenti in bronzo. Cercò di non dar peso alla crepitante paura che le elettrizzava le membra infreddolite. «Non dia a Chirone le colpe di questo mio comportamento. Semplicemente, è divertente. Afrodite una volta mi disse che preferisce questo metodo, perché s'interagisce di più.»

«Sì, sarà divertentissimo quando ti sarà scaricata una saetta in mezzo alle scapole.»

Silente, si strinse tra le spalle.

L'espressione di Ade era diritta come una linea perfetta, priva di alcuna sbavatura, curva od interruzione. Col pallore del suo viso quell'espressione risaltava ancor di più, in pieno contrasto con le lunghe ombre di quel luogo. Il dio sospirò dal naso, non distaccando per un istante i neri occhi dalla sua figura.

«Sei venuta qui per tua madre, vero?»

Il viso di Penelope s'incupì ed un velo di tristezza le calò addosso. Abbassò lo sguardo, andando a fissarsi i piedi. Aveva una scarpa slacciata. «No, signore.»

«E allora perché eri con quell'eroe?» chiese Ade, calcando la parola "eroe" con un certo disgusto, come se non considerasse Percy tale. «I trascorsi m'inducono a pensare che il motivo di questa tua seconda visita siano gli stessi della prima.»

Magari potessi riportarla in vita, pensò Penelope. Con un sospiro, l'ennesimo, scosse il capo e delle ciocche di capelli le scivolarono oltre le clavicole. In terra giacevano ancora piccoli frammenti d'osso. «No, signore, non è per quel motivo. Io stavo solo... stavo solo accompagnando Percy nella sua impresa.»

Ade non sembrava pienamente soddisfatto da quella sua risposta. «Mh?»

Alzò lo sguardo e guardò il dio dei Morti. «Mi piacerebbe poter fare ciò che le ho chiesto un anno fa, ma so di non esserne in grado. Non avevo pensato, sciocca, che una cosa del genere non si può fare. E poi, ciò che è stato è stato ed io non posso cambiare il corso degli eventi. Quindi: sì, signore. Non è per mia madre che sono qui.»

Lui si umettò le labbra sottili, sistemandosi poi con garbo la corona sul capo. Sul suo viso giaceva l'espressione di chi avrebbe voluto dire qualcosa, un grande segreto, ma che si tratteneva dal farlo. Disse: «Pensavo volessi indietro pure la nonna.»

Penelope abbassò lo sguardo ai propri piedi, stringendosi tra le spalle. Forse era meglio cambiare argomento. «Suppongo lei voglia delle spiegazioni su ciò che è accaduto oggi.»

«Esattamente.» Ade si sporse in avanti, puntò i gomiti sulle ginocchia ed intrecciò tra loro le mani, posandovi poi sopra il mento. «Spiegami, semidea.»

«Crederà alle mie parole?»

«Forse.» Gli occhi di Ade saettarono sulla fish che lei si rigirava tra le dita. «E, forse, se il tuo amichetto manterrà la sua promessa e mi riporterà il mio elmo, potrei lasciar andare sia sua madre che te. Ma devo decidermi. Alecto sarebbe molto, ma molto felice di torturarti da sé. Tu spiegami, e poi prenderò la mia decisione. Su, su.»

Penelope iniziò a raccontare tutto ciò che era stato detto loro e che era successo, iniziando dall'incontro con Ares. Non lasciò da parte nulla, non ne aveva motivo. Illustrò al dio le ragioni secondo le quali si credeva fosse lui il colpevole, ottenendo non poco malcontento da parte del suo interlocutore. Raccontò perfino del suo sogno della creatura e delle parole che lei le aveva rivolto, in avvertimento.

Finito il racconto, Ade aveva in viso un'espressione pensierosa. C'era qualcosa che già sapeva, Penelope lo vide, ma non le disse nulla. «Quindi, stando a quanto tu sostieni, non è stato Jackson a rubare la Folgore.»

«No, signore. Non credo sia stato Ares a rubarla, tuttavia. Ho la sensazione che non sia lui la mente del colpo, e ho validi motivi per pensare questo.»

Ade scosse appena il capo, divertito dalla sua affermazione. «Dovresti smettere di fidarti delle sensazioni, semidea. Non sempre ti guidano nel posto giusto. Spero tu lo sappia.»

Penelope sapeva fin troppo bene di pensare troppo poco e di agire troppo spesso. Lei seguiva il cuore, non la testa, e sì, sapeva che questo prima o poi l'avrebbe portata a rischiare sul serio le penne.

Il Signore dei Morti la guardò silenzioso, poi disse: «Mi chiedo se... Tu eri presente al solstizio, vero? Tu e tutta la comitiva del Campo Mezzosangue.»

Afferrò subito dove voleva arrivare. «So di essere una cleptomane nata, signore» affermò lei, annuendo, «e di avere un padre che da sempre dimostra a tutti di avere un'innata passione per il furto, ma non sono stata io a rubare la Folgore. Glielo posso assicurare.»

«Hai un grande dono, Castellan.»

«Ne sono più che consapevole.»

«Prima del riconoscimento di Jackson, mio fratello credeva fossi stata tu.»

Dunque, la creatura aveva ragione a dire che l'avrebbero incolpata. «Temo lo creda ancora, un po' come faceva lei.»

Ade si strinse tra le spalle e tormentati volti di dannati emersero dalle sue vesti. «Avevo tutte le ragioni per crederlo, semidea. Hai già maneggiato oggetti di grande valore, come lo scudo di Achille. Possiedi un'arma piuttosto importante, piuttosto nota, piuttosto potente.»

Le sue sopracciglia schizzarono in alto.

«Le vostre spade, tua e di tuo fratello, sono spade molto importanti. Credevo lo sapessi.» Ade s'umettò le labbra sottili, squadrandola da capo a piedi. «Attenta a come la maneggi. Mani importanti si sono strette su quell'elsa.»

La curiosità accese decine di lampadine nella sua testa. Voleva sapere, dèi come voleva sapere.

Ade parlò nuovamente. «L'unica cosa che potevo concordare con mio fratello era la sua teoria: tu avevi introdotto Jackson sull'Olimpo, al solstizio d'inverno, e poi grazie al tuo aiuto ed il tuo dono, avevate rubato la Folgore. Ed il mio elmo.»

«E, di grazia, quale credeva fosse il motivo di questo nostro furto?»

Il dio agitò pigramente una mano in un gesto casuale. «Che so, attenzioni. Voglia di dimostrare di saper fare un grande ─ ed azzardato ─ gesto come quello. I motivi son tanti, semidea, quando voi siete così giovani e sciocchi.»

Penelope nascose un sorriso. «Be', signore, ora sa che non siamo stati noi.»

«Lo giuri? Ermes è sempre stato un genio, nel mentire.»

«Lo giuro sullo Sti-»

«Ferma, Castellan» le interruppe Ade, non lasciandole finire la frase. «Non dovresti utilizzare questo tipo di giuramento a sproposito, lo sai.»

«Allora, lo giuro sulla mia vita, signore.»

In lontananza, il rombo di un tuono risuonò e riempì il silenzio. Quel tipo di giuramento, negli Inferi, aveva un buon valore. Ade si drizzò sul trono, un sorriso soddisfatto in viso. «Vedremo, vedremo. Sai che i giuramenti-»

Il dio della Morte s'interruppe quando le tre Racchie Rugose piombarono nella sala, svolazzando elettrizzate. Penelope alzò il capo, seguendole con lo sguardo, e le osservò posarsi con euforia sullo schienale del trono. Alecto passò ad Ade quello che le parve un indumento da guerra: un elmo.

Sul viso di Ade si dipinse un'espressione sorpresa. Si rigirò l'elmo dell'invisibilità tra le mani, tutto contento. «Oh, tu guarda. Semidea, il tuo amichetto c'è riuscito.»

Penelope non riuscì ad impedirsi di sorridere. «Visto, signore? Non aveva nessuna colpa.»

Ade le scoccò un'occhiata che, quasi quasi, le parve divertita. Con uno schiocco di dita, fece riapparire la sfera di fuoco in cui la madre di Percy era tenuta, immobile nel momento in cui il Minotauro l'aveva catturata. Poi, il dio le fece cenno di avvicinarsi e lei, nonostante temesse un poco le Furie, lo fece.

«Non voglio rivederti qui per molto tempo, semidea» affermò Ade, il tono serio ma che somigliava a quello con cui qualcuno avrebbe rimproverato un cucciolone iperattivo. «Sei libera di andare, ora.»

Le Racchie protestarono, ribadendo il loro desiderio di torturarla, ma Penelope non se ne curò affatto. Tutto ciò che fece fu rivolgere al Signore dei Morti un sorriso brillante, così ampio da attraversarle l'intero viso, da orecchio ad orecchio.

Ade schioccò nuovamente le dita, ed un vortice di nebbia candida iniziò ad avvolgersi intorno ai suoi piedi, avviluppandosi attorno alle sue gambe. Guardò la sfera in cui la signora Jackson stava, notando che stava avvenendo la stessa anche per lei.

L'ultima cosa che vide fu il viso pallido di Ade, sulle cui labbra sembrava quasi giacere, minuscolo, un sorrisetto. Poi, un'esplosione di bianco ed un calore gentile, come quello di una carezza materna.

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