17. Il suicidio delle scarpe alate
[ 𝐏𝐄𝐍𝐄𝐋𝐎𝐏𝐄 ]
ANNNABETH SI RESE CONTO IN RITARDO di avere ancora la mano stretta alla sua. La tirò via con un brusco strattone, storcendo le labbra in un'espressione infastidita. «Perché mi hai preso la mano?»
Penelope stava torturando un filo sfuggito della sua camicia. «Sei tu che me l'hai presa, non il contrario.»
La bionda avrebbe replicato dicendo che non era vero e che era come sosteneva lei, ma non lo fece, cosa che sorprese Penelope. Si limitò a guardarla in silenzio, come se stesse cercando di scorgere qualcosa in una coltre di nubi troppo fitta perché lo sguardo potesse spingervisi attraverso. Poi scosse il capo, i boccoli biondi che avevano strani riflessi alla luce verdastra, e si voltò verso i loro due compagni.
«Cos'è quella faccia, Jackson?» chiese a Percy, seguendo il suo sguardo. Il figlio di Poseidone osservava ciò che li aspettava con un misto di timore ed ammirazione nello sguardo, come se non riuscisse a decidersi se ciò che stava guardando fosse ammaliante o terribile. «Se speravi nell'Inferno di Dante,» continuò la bionda «ben per te. Qui è peggio. Andiamo.»
L'ingresso degli Inferi somigliava ad un incrocio fra la vigilanza di un aeroporto ed il casello dell'autostrada più trafficata dell'intero paese, c'è da dirlo. Un'immensa volta in massiccia pietra nera recava la scritta "𝑆𝑇𝐴𝑇𝐸 𝐸𝑁𝑇𝑅𝐴𝑁𝐷𝑂 𝑁𝐸𝐿𝐿'𝐸𝑅𝐸𝐵𝑂", quasi ci si trovasse dinnanzi il padiglione di una fiera, e sotto di essa s'aprivano tre entrate separate. Ogni ingresso era provvisto di un metaldetector sormontato da diverse telecamere di sicurezza, superato il quale c'erano dei caselli con dentro dei demoni vestiti con una tunica nera, proprio come Caronte.
«Tu...tu hai fatto la fila, l'anno scorso?» le chiese Grover, voltandosi a guardarla.
Penelope scosse il capo. «Ci hanno fatte passare da un'altra parte, ma in questo momento non ricordo proprio dov'era. Abbiamo chiesto un'udienza con Ade, ma non credo sia facile come è stato per noi. Penso ce l'abbia concessa solamente perché avevamo appena riportato lo scudo ad Achille.»
L'ululato di Cerbero s'era fatto ancora più forte di prima e non accennava ad affievolirsi. Ovunque si guardasse, tuttavia, la grossa bestia non era in vista. Una scossa di brividi valicò la spina dorsale di Penelope nel ripensare al millenario cane a tre teste.
Le anime dei morti si misero l'una dietro l'altra, dividendosi in due file, due con su scritto 𝑂𝑃𝐸𝑅𝐴𝑇𝑂𝑅𝐸 𝐼𝑁 𝑆𝐸𝑅𝑉𝐼𝑍𝐼𝑂 ed una con il cartello 𝑀𝑂𝑅𝑇𝐸 𝐹𝐴𝐶𝐼𝐿𝐸. Quest'ultima procedeva piuttosto spedita, mentre le altre due andavano a rilento.
Percy indicò i cartelli. «Che significa, secondo voi?»
«La fila veloce andrà direttamente alle Praterie degli Asfodeli» gli rispose Annabeth. «Per quelli che preferiscono evitare controversie legali. Non vogliono rischiare il giudizio del tribunale, perché potrebbe essergli avverso.»
«C'è un tribunale per i morti?»
«Formato da tre giudici, che cambiano di volta in volta. Minosse, Thomas Jefferson, Shakespeare... gente così. Qualche volta osservano una vita e decidono che quella persona merita una speciale ricompensa: i Campi Elisi. Altre volte stabiliscono una pena. Ma la maggior parte della gente, be', è vissuta e basta. Non ha fatto nulla di speciale, né di buono né di cattivo. Perciò va nelle Praterie degli Asfodeli.»
«A fare cosa?»
«Vagare, vagare e vagare. Senza una meta, senza niente in testa» rispose Penelope. Il pensiero di sua madre lì, dispersa in quelle vaste praterie senza alcun ricordo della sua vita passata, le fece contorcere lo stomaco. «Immagina di startene a deambulare in un campo di grano in Kansas. Per l'eternità.»
«Dev'essere dura» commentò Percy.
«Non quanto quello che succederà a lui» mormorò Grover. «Guardate.»
Seguirono la direzione in cui il suo dito indice era puntato. Due demoni avvolti in lunghe tuniche nere avevano preso da parte uno spirito e lo stavano perquisendo al bancone della vigilanza. «E' quel predicatore che ha dato scandalo alcuni mesi fa, avete presente?»
Percy annuì. «Ah, sì. Me lo ricordo.»
«Non ne ho sentito parlare» affermò Penelope, guardando lo spirito sbuffare scocciato nell'essere perquisito. «Che ha fatto?»
Grover scosse il capo, severo. «Per non tirarla per le lunghe... era un insopportabile predicatore di New York che ha raccolto milioni di dollari per gli orfanotrofi e poi li ha spesi per rifarsi la villa, con accessori indispensabili tipo tavolette del water laminate d'oro e un campo da minigolf da interni. E' morto durante un inseguimento con la polizia, quando la sua "Lamborghini per il Signore" è precipitata in un dirupo.»
Penelope annuì, scettica. «L'ho sempre detto io che siamo pessimi...»
«Ma cosa gli faranno?» chiese Percy.
«Ade gli impartirà una pena speciale» ipotizzò Grover, stringendosi tra le spalle. «Quelli davvero malvagi ottengono la sua attenzione personale non appena arrivano. Le Fur... le Benevole inventeranno una tortura eterna solo per lui.»
«Ma se è un predicatore» contestò Percy, «e crede in un inferno diverso...»
Grover fece di nuovo spallucce. «Chi dice che sta vedendo questo posto come lo vediamo noi? Gli umani vedono quello che vogliono vedere. Siete piuttosto cocciuti... ehm, costanti, in questo senso.»
S'avvicinarono alle porte, i passi che risuonavano sui ciottoli umidi del terreno. L'ululato ora era così potente da far tremare il terreno sotto le loro scarpe, ma ancora non si riusciva a capire da quale parte provenisse.
Poi, ad una quindicina di metri di distanza da loro, un luccichio nella foschia verdognola colse i loro sguardi. E lì, nell'esatto punto in cui il sentiero si divideva in tre, la figura informe e nebulosa di un mostro si stagliava contro il buio.
Cerbero era semitrasparente, come gli spiriti dei morti, e dunque si confondeva con ciò che si trovava alle sue spalle, almeno finché restava fermo. Era un enorme rottweiler nero di tenebre fredde e vorticanti, come se il suo intero corpo fosse costituito di nubi e nubi, scurissime, tutte raggruppate insieme e pressate l'una contro l'altra. Tutto ciò che pareva materia solida, possibile da toccare con mano – e, se si era meno fortunati, con qualche altra parte del corpo la quale non avrebbe particolarmente gioito del contatto – erano gli occhi e le zanne. Tre paia d'occhi e tra paia di zanne su ciasuna delle tre teste, risaltavano nel buio, i primi rossi come lingue di fuoco e le seconde bianche come avorio. Gli occhi, animati da una ferocia ardente, erano puntati su Percy.
Penelope allungò una mano per chiudere la bocca del figlio di Poseidone, dicendogli che prima o poi gli ci sarebbero entrate le mosche.
I morti gli si avvicinavano senza il minimo timore. Le due file dell'𝑂𝑃𝐸𝑅𝐴𝑇𝑂𝑅𝐸 𝐼𝑁 𝑆𝐸𝑅𝑉𝐼𝑍𝐼𝑂 si dividevano ai suoi fianchi, passandogli accanto, mentre quella della 𝑀𝑂𝑅𝑇𝐸 𝐹𝐴𝐶𝐼𝐿𝐸 gli passava fra le zampe anteriori e sotto il grembo, le anime che nemmeno s'accucciavano per passargli al di sotto.
«Comincio a vederlo meglio» mormorò Percy, quasi senza fiato. «Come mai...?»
«Penso...» Annabeth s'inumidì le labbra, «temo che sia perché ci stiamo avvicinando di più alla nostra morte.»
La testa di mezzo del grosso animale, che Penelope, l'estate prima, aveva soprannominato Fauna (le altre due erano Flora e Serenella), s'allungò di loro ed annusò l'aria con sospetto.
«Riesce a fiutare i vivi» affermò Percy. «Meraviglioso.»
«Non c'è alcun problema» replicò Grover, tremando da testa a piedi. «Abbiamo un piano.»
«Un magnifico piano, oltretutto» affermò Penelope. «Magnifico come Lorenzo.»
Percy aggrottò le sopracciglia. «Lorenzo?»
«Lorenzo il Magnifico.»
«E chi è?»
«Ehhh, lunga storia.» Penelope mandò giù il groppo che le occupava la gola, impiegando non poca fatica. «Su, Ghostbusters, andiamo.»
S'avvicinarono al mostro.
Fauna – la testa di mezzo, dunque – ringhiò mostrando loro le lunghe e lucenti zanne, che scintillarono nella penombra. Poi abbaiò così forte da far tremare, di nuovo, il terreno sotto i loro piedi. Annusava in giro, all'affannata ricerca del loro odore.
«Lo capisci?» chiese Percy a Grover.
Il satiro annuì. «Oh, sì»
«E che sta dicendo?»
«Non credo esista una parolaccia simile in nessun linguaggio umano.»
Per la prima volta da almeno un quarto d'ora speso nelle tenebre, Penelope rise.
Percy prese un respiro profondo. Poi tirò fuori dallo zaino un grosso bastone, la gamba di un letto che aveva spezzato da un modello Safari Deluxe di Crusty. Lo sollevò con il braccio destro e lo sventolò in aria, tentando di attirare l'attenzione di Cerbero.
Quella prima parte del piano parve funzionare.
Il grosso cagnolone e le sue tre teste erano interamente concentrati sulla figura di Percy. I suoi sei occhi erano glaciali, spenti e privi di alcun interessamento. Be', forse l'unico vero interessamento che avrebbe potuto esservi era la fame, semplice fame. Sul viso di Percy si dipinse un sorriso tirato e sghembo, tremendamente forzato. «Ehi, bel cagnone» gridò il ragazzino, «scommetto che non giocano molto con te.»
«GRRRRRRRR!»
«Buoono» replicò Percy, con un filo di voce.
Penelope iniziò di nuovo a pensare di dovergli far fare una lapide. Questa volta, vi avrebbe scritto: "qui giace un idiota, ex-addestratore di cani infernali." Statene certi, l'elenco, con gli anni, si sarebbe allungato di molto.
Percy mosse di nuovo il bastone in aria e la testa di mezzo seguì il movimento con occhi interessati. Le altre due, Flora e Serenella, restarono però puntate su Percy, minacciose. «Prendilo!» gridò il dodicenne, lanciando poi il bastone.
«Bel lancio, Jackson» commentò Penelope, udendo il tonfo con cui la gamba del letto cadeva nello Stige. «Potresti giocare a baseball e saresti una stella!»
Cerbero guardò il ragazzino, torvo. I suoi sei occhi restarono freddi e minacciosi, per nulla impressionati. Il ringhio di Cerbero ora suonava diversamente, che saliva dal profondo delle sue tre gole e gli rimbombava tra le fauci. Il loro piano era andato a farsi benedire.
«Ehm...» fece Grover «Percy?»
La voce di Percy tremava un poco. «Sì?»
«Penso che tu voglia saperlo.»
«Sì?»
Grover spostò il peso da uno zoccolo all'altro. Una goccia di sudore gli calava lentamente lungo la fronte. «Hai presente Cerbero? Ecco... sta dicendo che abbiamo dieci secondi per pregare un dio a nostra scelta. Dopodiché... be'... ha fame.»
Prima che anche solo uno di loro potesse fare qualcosa – Penelope temeva che sarebbe successo qualcosa di avventato, con lei e Percy nello stesso posto e nella stessa situazione – Annabeth si mise a frugare nello zaino che aveva in spalla, esclamando: «Aspettate!»
Cosa aveva intenzione di fare, stavolta?
«Cinque secondi» contò Grover. «Scappiamo?»
«Adoro scappare» disse lei. «Chase, cosa cavolo stai facendo?»
Annabeth tirò fuori dallo zaino una palla di gomma rossa, delle dimensioni di un pompelmo. Era marcata 𝑊𝐴𝑇𝐸𝑅𝐿𝐴𝑁𝐷, 𝐷𝐸𝑁𝑉𝐸𝑅, 𝐶𝑂. Prima che uno di loro riuscisse a fermarla, la levò in alto ed avanzò a passo sicuro verso Cerbero.
La bionda gridò: «Guarda la palla! Vuoi la palla, Cerbero? Seduto!»
La cosa divertente era che il grosso animale pareva sbigottito quanto lo erano loro. Guardava Annabeth con occhi curiosi, e subito dopo le tre teste si piegarono tutte insieme, di sghembo. Sei narici si dilatarono e sei iridi s'illuminarono.
«Seduto!» gridò di nuovo Annabeth.
Penelope iniziò a pensare di dover far fare una lapide anche a lei. Questa volta, lì vi avrebbe scritto: "Qui giace il più grande biscotto per cani del molto. Attenzione: tenere lontani gli animali".
Ed invece, Cerbero si leccò le sue tre serie di labbra, scrollò il posteriore e si sedette pesantemente, schiacciando almeno una dozzina di spiriti della MORTE FACILE che gli stavano passando al di sotto proprio in quell'istante. Gli spiriti si dissolsero con dei sibili soffocati, come aria rilasciata da un copertone.
Sul viso di Annabeth s'era aperto un largo sorriso. «Bravo!»
E gli lanciò la palla.
Fu Fauna a prendere la palla – vi ricordo: la testa centrale. Date le dimensioni dell'oggetto, riusciva a masticarla appena, e le altre due teste s'impegnarono subito nel tentare a rubarle il nuovo giocattolo. «Lascia!» ordinò Annabeth, la voce sorprendentemente ferma.
Le tre teste smisero di litigarsi la palla, che ora se ne stava incuneata fra due zanne come un minuscolo pezzo di gomma. Il cane emise un guaito acuto e spaventoso, e poi depositò la palla ai piedi di Annabeth. Ora era tutta appiccicosa e mordicchiata. La ragazza raccolse la palla, ignorando la bava, e disse al mostro che era un bravo cagnone.
Si voltò a guardarli. «Castellan, andate alla 𝑀𝑂𝑅𝑇𝐸 𝐹𝐴𝐶𝐼𝐿𝐸.»
Penelope strizzò gli occhi. «E' più veloce, sì» annuì, stringendo Alétheia nella sinistra. Guardò Annabeth ed un piccolo nodo d'ansia le si formò alla bocca dello stomaco. «E tu? Non possiamo-»
«Ora!» ordinò interrompendola, con lo stesso tono autoritario che stava usando col cane.
Penelope spinse avanti i suoi due amici, e tutti e tre mossero cauti passi in direzione di Cerbero. Dovevano passargli tra le zampe e sotto al grembo.
Come previsto, il cane si mise a ringhiare.
«Fermo!» gli ordinò Annabeth. «Se vuoi la palla, fermo!»
Cerberò guaì e la guardò, restando fermo dov'era.
Penelope, Percy e Grover passarono accanto alla figlia di Atena. Consapevole di essere più veloce, Penelope fece passare per primi i suoi due amici, dicendogli che gli avrebbe coperto le spalle. Prima di passare, Percy chiese ad Annabeth: «Che fai, resti qua?»
«So quello che faccio» rispose lei, sicura. Qualcosa barcollò nel suo sguardo. «O, almeno, ne sono abbastanza sicura...»
Penelope spinse avanti Percy, chinandosi subito dopo di lui. Il più velocemente possibile, passarono al di sotto del grembo di Cerbero, il quale emanava una grande quantità di calore. Con un sospiro di sollievo, raggiunsero il metaldetector.
Annabeth mosse di nuovo la palla per aria, gli occhi fissi sul mostro. «Buoono!» Avanzò di un passo e probabilmente giunse alla stesse conclusione alla quale Penelope era appena aggiunta: se avesse ricompensato Cerbero cedendogli la palla, non le sarebbe rimasto nulla per tenerlo a bada.
Eppure, lanciò la palla.
La bocca sinistra del mostro l'addentò subito, solo per ritrovarsi immediatamente attaccata dalla testa di mezzo, che bramava a sua volta il giocattolo. La testa destra, lasciata in disparte, uggiolò tristemente in segno di protesta.
Sfruttando l'attimo di distrazione del mostro, Annabeth sfrecciò rapidamente sotto la sua pancia e li raggiunse al metaldetector. La spinta che s'era data era così buona che finì persino per barcollare, nel fermarsi di colpo, e quasi rischiare di cadere in terra. Ed addosso a Penelope.
La figlia di Ermes si chiese perché le persone parevano avere una passione nel caderle addosso.
«Come hai fatto?» le chiese Percy, sbigottito.
«Scuola d'addestramento» rispose lei, il fiato corto. Si appoggiò alla spalla di Grover e trasse un paio di respiri per recuperare. «Quando ero piccola, a casa di papà avevamo un doberman.»
Grover scosse Percy, incitandolo ad andare. «Lascia perdere. Muoviamoci!»
Stavano per infilarsi nella fila della 𝑀𝑂𝑅𝑇𝐸 𝐹𝐴𝐶𝐼𝐿𝐸 quando Cerbero guaì così tristemente da far venire il viso scuro a Penelope. Il mostro li guardava, tutte e tre le lingue di fuori ed ansimando speranzoso, la minuscola palla rossa ormai maciullata ai suoi piedi in una pozza di bava.
Il viso di Annabeth era un dipinto triste e malinconico, immerso in una luce soffusa e cupa. «Buono» gli disse ancora, con voce titubante. In risposta, il grosso cane guaì una seconda volta. «Ti porterò un'altra palla. Ti piacerebbe?»
Cerbero guaì.
Annabeth s'umettò le labbra, annuendo e sbattendo le palpebre più velocemente del normale, come a voler nascondere qualcosa racchiudendolo oltre le ciglia. «Bravo. Verrò a trovarti presto. Te lo prometto» gli disse. Si voltò poi verso di loro. «Andiamo.»
Percy e Grover passarono sotto al metaldetector. L'allarme – ti pareva! – scattò immediatamente, facendo partire una serie di lampeggianti rossi. «Articoli non autorizzati! Identificata magia!»
Si precipitarono oltre la porta della 𝑀𝑂𝑅𝑇𝐸 𝐹𝐴𝐶𝐼𝐿𝐸, facendo così scattare tanti altri allarmi, il cui stridulo rumore riempì il buio e si disperse come l'eco di un grido. Entrarono a rotta di collo negli Inferi.
Pochi minuti dopo, se ne stavano nascosti, senza fiato nei polmoni, nel tronco marcio di un immenso albero nero. Dei vigilanti della sicurezza li superavano di corsa, chiamando a gran voce i rinforzi delle Furie. Percy si stava togliendo di dosso la polvere nera che gli era finita sulla pelle durante la corsa.
«Devi proprio sollevare tutta quella polvere, quando corri?» chiese infastidito a Penelope, passandosi poi il dorso di una mano sulle labbra. «Accidenti, pure sulla lingua mi ci è finita...»
La rossa sorrise divertita, passandogli una mano tra i capelli per togliere altra polvere. «Scusa, Alghetta. Ma sai una cosa? Abbiamo ricevuto una lezione fondamentale, oggi.»
«Che i cani a tre teste preferiscono le palle di gomma ai bastoni?»
«No» replicò Grover, pulendosi il dorso del naso dalla polvere vulcanica. «Abbiamo imparato che i tuoi piano hanno decisamente del mordente, ma che alla fine sono una bidonata!»
«Non ne sarei tanto sicura, Grover» affermò Penelope, girandosi e sedendosi con la schiena appoggiata al tronco. «Dopotutto, Cerbero è pur sempre un cucciolone. Un po' di attenzioni se le merita, credimi.»
Il satiro non replicò. Lei si fece saltare Alétheia tra le dita, osservando i lievi riflessi bronzei che aveva nella poca luce del luogo, e sperò che cose non andassero come era accaduto la volta precedente. Ade non sarebbe stato contento di rivederla, se lo sentiva. E lei non sarebbe stata contenta di rivedere lui, questo lo sapeva.
I guaiti di Cerbero si diffondevano nel suono, così tristi da far venire un nodo allo stomaco a chiunque vi prestasse orecchio. Quando Annabeth s'asciugò una lacrima da una guancia, finse di non vederla.
Ricordate il bisogno di piangere che gli Inferi portano con sé, quello raccontato poco tempo fa?
Se sì, sappiate che era tornato alla riscossa.
Perché?, vi chiederete. La risposta è semplice e concisa: le Praterie degli Asfodeli.
Ora, se voleste immaginarvi quelle vaste praterie dovreste prima far qualche piccolo sforzo. Prestatemi orecchio e seguitemi. Immaginate la folla da concerto più grande che abbiate mai visto, un campo da football gremito di diverse migliaia di persone. Ora, immaginate un campo un milione di volte più grande, pieno e pieno di gente, ed immaginate che l'impianto elettrico sia andato a farsi benedire e che nessun rumore infranga il silenzio, nemmeno il più piccolo fruscio. Dietro le quinte, celato in un buio di cui voi non saprete mai nulla, è accaduto qualcosa di tragico. Masse di persone, bisbiglianti come serpenti, si muovono alla rinfusa tra le tenebre, attendendo uno spettacolo che mai inizierà.
Se siete riusciti a figurarvi tutto ciò, ad averne l'immagine in mente, avete davanti le Praterie degli Asfodeli.
Tornando a noi, devo smetterla di parlare al presente, dannazione. Lasciate che torni a narrarvi questa storia.
L'erba era nera come la notte e secca come soffocata da un sole cocente. Eppure, dopo migliaia di anni e secoli di piedi a calpestarla, ancora era lì, secca e morta. Scrocchiava sotto i loro piedi, sembrava quasi di star camminando su tanti mucchi di piccoli ossicini. Un vento caldo ed umido spirava travolgendoli, lento, come l'alito di una palude. Pioppi neri crescevano qua e là in rade macchie, morti a loro volta. I tronchi erano vuoti, grembi silenti e freddi. Il soffitto della caverna si perdeva nel buio, così alto da poter ospitare qualunque cosa; da esso pendevano aguzze stalattiti che mandavano tutt'attorno un morente bagliore grigiastro.
Mentre tentavano di confondersi nella folla, Penelope tenne gli occhi serrati. Non riusciva ad aprirli, e se anche ci fosse riuscita, lo sapeva, si sarebbe sentita male. Lei era lì, da qualche parte. Così vicine ma, al tempo stesso, lontane di anni luce. Si morse l'interno guancia con forza, tentando di scacciare il pensiero.
Percy le stringeva la mano, guidandola nel buio, e lei si sentiva come se il contatto con la sua pelle fosse l'unica cosa a tenerla ancorata alla sua stessa ragione.
Non voleva guardarsi intorno perché sapeva che, istintivamente, i suoi occhi avrebbero cercato con affanno un viso simile al suo, simile a quello di suo fratello. Avrebbe scorto quei volti tremolanti ed eterei uno ad uno, bramando uno ed un solo volto.
Non l'avrebbe trovata, anche se avesse cercato per decadi.
Percy le strizzò la mano, chiamandola. «Ehi, guarda» le disse dopo tanto tempo passato a camminare su quell'erba scricchiolante, tempo che, dilatatosi, pareva non finire mai.
Aprì gli occhi e ciò che si trovò davanti calmò appena la nausea che le attanagliava lo stomaco. L'Elisio era il posto degli eroi. Lì, in quei dorati territori che, se ci si sforza, sembrano baciati dal sole, finiscono le anime di quelli il cui nome resterà impresso nel tempo per secoli e secoli a venire.
Ad esser semidei non si viveva mai troppo bene, questo era vero, ma una consolazione, una sola, c'era, ed era proprio sotto i suoi occhi.
Una valletta circondata da mura immacolate pareva risplendere sotto il più dolce e tiepido sole primaverile. Oltre l'ampia ed alta porta blindata sorgevano quartieri di splendide case e ville d'ogni epoca: ville romane dai candidi colonnati, castelli medievali dalle torri squadrate e tenute vittoriane dai rigogliosi giardini. In quest'ultimi, prati rigogliosi e d'un verde quasi irreale – verde smeraldo – spuntavano tanti, piccoli fiori d'oro e d'argento. Persino dal punto in cui si trovavano si riuscivano ad udire il suono delle risate e la musica di dolci arpe, un invitante profumo di barbecue s'avvertiva, infine.
In mezzo alla valle poi v'era uno scintillante laghetto azzurro di acque trasparenti, nel quale sorgevano tre piccole isole simili a quei paradisi che s'incontrano in Oceania od ai Caraibi. Le Isole dei Beati erano come tre gemme in un gioiello magnifico, il posto destinato a coloro che, per tre volte, avevano scelto di rinascere e che, sempre per tre volte, s'erano meritati l'Elisio.
«La morale della favola» affermò Annabeth, infrangendo il silenzio. «E' lì che gli eroi vanno, alla loro morte.»
Con un sospiro – chissà se, un giorno, anch'io meriterò quel posto – Penelope andò avanti. Più si sbrigavano e meglio era. I suoi tre amici la seguirono ed insieme uscirono dal Padiglione del Giudizio, allontanandosi dalla luce dei Campi Elisi.
Di nuovo, Penelope chiuse gli occhi e si fece guidare nel buio.
Dopo qualche chilometro a piedi sentirono in lontananza dei versi striduli e tremendamente familiari. Un palazzo dalle mura di ossidiana nerissima si stagliava minaccioso nell'orizzonte. Sopra i suoi parapetti volteggiavano tre creature simili a pipistrelli: le Furie.
La cicatrice sul ginocchio parve iniziare a bruciare di nuovo.
«Suppongo che sia troppo tardi per tornare indietro» sospirò Grover con una punta di rimpianto.
«Andrà tutto bene» disse Percy, annuendo.
Penelope guardava le tre Furie con una punta di nervosismo in gola. «Non ci faremo catturare da quelle tre per poi farci arrostire per bene, vero?»
«Proprio per questo,» replicò il satiro, muovendo un passo indietro «dovremmo iniziare cercando in altri posti, prima. Tipo... che ne so... l'Elisio...»
Annabeth lo prese sottobraccio, avvicinandolo a sé. «Coraggio, ragazzo-capra! Andrà tutto bene. E no, Castellan, non ci faremo arrostire.»
«Come ne sei sicu-»
Grover gridò, tranciando di netto le sue parole. Le ali delle sue scarpe si spiegarono d'improvviso, tirandogli le gambe in avanti e strappandolo alla presa troppo debole di Annabeth. Il satiro atterrò di schiena in mezzo all'erba con un tonfo sordo.
«Ehi, non credo sia il momento» lo rimproverò la figlia di Atena. «Smettila.»
«Ma io non-». Il grido che infranse, di nuovo, il silenzio, infranse anche le sue stesse parole.
Le scarpe svolazzavano senza controllo alcuno, impazzite, e nonostante Grover stesse ripetendo più volte, a gran voce, "Maia! Maia!", quelle non accennavano a ritirare le loro ali. Presero a trascinarlo via, facendolo ribaltare.
Penelope si mosse veloce, cercando di salvare il suo amico dalla scoppiettante furia delle scarpe. Percy ebbe la stessa idea, ma lei afferrò per prima la mano di Grover.
Non aveva pensato ad un piccolo inconveniente, tuttavia: il peso.
Grover pesava più di lei, questo era ovvio, e lei venne letteralmente trascinata via con lui. Stavolta, fu lei quella a gridare. L'unico, misero risultato che ottenne fu il riuscire ad avvicinare Grover al terreno; per il resto, si trattò di tanta, troppa polvere vulcanica dritta in faccia.
Percy ed Annabeth corsero loro dietro, gridando in chissà quale tentativo di fermarli. Grover, ovviamente, non poteva raddrizzarsi per raggiungere i lacci delle scarpe, così il compito di rallentare la corsa spettò a Penelope ed alla sua caviglia che – gli dèi solo sanno che disastro faccio se quella pozioncina era tarocca – aveva ripreso a farle un po' male.
Tentò di puntare i piedi per terra, ma le suole delle sue scarpe scivolavano sulla polvere e sui ciottoli. L'unica opzione possibile era lasciare la mano di Grover, cosa che lei non aveva intenzione di fare.
Presero a zigzare fra le gambe degli spiriti, passando addirittura attraverso alcuni ed ottenendo così una sensazione di gelo in gola. Continuarono così fin quando le scarpe non presero una brutta curva, sterzando bruscamente a destra, e lei diede quasi una testata al terreno. Tirò ancora la mano di Grover con tutta la forza che possedeva, sperando di trascinarlo in terra, ma non pesava abbastanza per riuscirvi.
Il pendio su cui stavano sfrecciando s'era da poco fatto più ripido quando Grover prese velocità e la sua mano iniziò a sfuggire dalla presa di Penelope. Le pareti della caverna si fecero più strette, illuminate dal fioco bagliore delle stalattiti sul soffitto.
La voce di Percy la raggiunse come un grido disperso nel vento. «Aggrappatevi a qualcosa!»
«A cosa?» strillò Grover di rimando.
Entrambi raschiarono le dita delle mani libere sulla ghiaia che ricopriva il terreno, ottenendo solo tanti graffi sui palmi. Andavano talmente veloci che ciò che c'era intorno a loro non si vedeva quasi più, ma Penelope sentì comunque l'aria farsi più fredda ed un peso iniziare a gravarle il petto, come se si stessero dirigendo a tutta birra verso qualcosa di pericoloso.
Alla fine, la mano di Grover sfuggì dalla sua presa, scivolando via. Lei si accasciò per terra, sgranando gli occhi per l'impatto e sentendosi il sangue gelare nelle vene per il grido che l'amico aveva appena cacciato.
Alzò il capo giusto per vedere gli zoccoli salvare Grover – o Grover venire salvato dagli zoccoli, vale lo stesso. Il satiro sbatté di schiena contro un masso ed una delle scarpe, che gli erano sempre state un po' larghe, gli si sfilò. La scarpa in questione si lanciò in un buio baratro, che Penelope non aveva subito notato.
Grover, grazie a questo, rallentò un poco. Riuscì a fermarsi e contrastare l'altra scarpa aggrappandosi al masso usandolo come ancora.
Annabeth e Percy le sfrecciarono davanti, raggiungendo Grover, ed allora lei si concesse un sospiro di sollievo. L'altra scarpa si sfilò da sola e si tuffò nel baratro al seguito della gemella, non dopo aver riempito di pedate in testa il terzetto. Mentre i due semidei trascinavano Grover su per il tunnel in cui s'erano infilati, lei si mise seduta e provò a rialzarsi.
Inutile. La caviglia aveva ripreso a farle un male tremendo e pareva bruciare come se fosse costituita di metallo ardente. La guardò e, a denti stretti, lanciò una serie di brutte imprecazioni contro Apollo.
Percy, Annabeth e Grover crollarono in terra, sfiniti.
«Vorrei capire...» Penelope aveva ancora il fiatone, «cosa cavolo è appena successo.»
«Chiedilo... chiedilo a tuo fratello» replicò Percy a fatica, portandosi una mano al petto che s'abbassava e alzava velocemente. «Che problemi hanno quelle scarpe, dico io.
«Io non...» Grover ansimò. «Non so come...»
«Aspetta» lo interruppe Percy. «Ascoltate.»
Penelope tese le orecchie, alla ricerca di un suono. Apparentemente, però, il silenzio era assoluto.
Annabeth si mise a sedere. Anche lei doveva star udendo il semplice silenzio. «Percy, questo posto...»
«Shh!»
Percy si alzò in piedi in fretta, facendo scricchiolare la ghiaia sotto i suoi piedi. Aveva le spalle rigide ed il mento tirato in alto. In quel momento, anche Penelope iniziò a sentirlo: una voce cantilenante e maligna che saliva dal basso, sotto di loro, in profondità. Veniva, senza alcun dubbio, dal baratro.
«Co... cos'è questo rumore?» chiese Grover, drizzandosi a sedere.
Anche Annabeth lo sentiva e, proprio come per Penelope, la cosa non le piaceva. «E' il Tartaro» disse, a mezza voce. «L'ingresso del Tartaro.»
Penelope scattò in piedi, ignorando le proteste della sua caviglia. «Via. Adesso.»
Percy sembrò non darle ascolto e sguainò la spada. La debole luce della lama bronzea di Vortice si riflesse sul soffitto di stalattiti e la voce del baratro, per un attimo solo, s'inceppò. Poi riprese indisturbata la sua cantilena. Era una lingua antica, molto più antica del greco. Erano parole di...
«Magia» disse Percy, dando voce al suo stesso pensiero.
«Ho detto: via. Adesso.» Penelope strattonò il suo amico, incitandolo ad andarsene di lì. Lui ed Annabeth rimisero in piedi Grover e tutti e quattro cominciarono a risalire il tunnel.
Penelope cercava di non zoppicare in maniera evidente. Non voleva che i suoi compagni si preoccupassero o pensassero di essere rallentati da quel suo piccolo problema. Aveva già avuto a che fare con problemi alle caviglie, colpa di tutte quelle corse che si faceva. Si limitò a stringere un po' i denti e a non poggiare troppo peso sulla gamba offesa.
Alle loro spalle, la voce si fece più forte e rabbiosa, così si misero a correre.
Appena in tempo.
Una gelida raffica di vento, gelida da far congelare le ossa, tentò di risucchiarli all'interno del tunnel. Per un terrificante attimo, vide Percy perdere terreno e scivolare sulla ghiaia, sentendosi fare lo stesso. Ingoiò un gemito di dolore e riprese ad arrancare su per il tunnel.
Sbucarono finalmente fuori, tornando nelle Praterie degli Asfodeli. Il vento si placò ed un gemito di stizza si levò dalle profondità del baratro, come se qualcuno non fosse contento della loro fuga.
Si guardarono tra loro. Solo in quel momento Penelope riuscì davvero a notare, nella luce soffusa del luogo, i visi attraversati dalla stanchezza dei suoi amici. Tirò su col naso, provando a controllare il proprio respiro. La sua caviglia era davvero in fiamme.
«Vi prego: non chiedete cosa fosse» affermò. «Non voglio pensarci. Facciamo come se... come se non fosse successo niente, eh?»
«Un po' difficile come cosa» ribatté Annabeth. L'occhiata che Penelope le lanciò bastò a farle cambiare totalmente espressione. «Ma, sì, non parliamone. Andiamo, abbiamo poco tempo.»
Percy guardò Grover. «Ce la fai a camminare?»
Il satiro deglutì. «Sicuro. E poi non mi erano mai piaciute quelle scarpe. Ehm- senza offesa, Penny.»
«Oh, no, ma quale offesa» replicò lei, stringendosi tra le spalle. «Le ho sempre odiate. Andiamo.»
Fu quasi un sollievo dare le spalle al tunnel e dirigersi al castello di Ade, attraverso una piccola macchia di pioppi nerissimi. Quasi.
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