09. Campione olimpico di tuffi
𝐏𝐄𝐍𝐄𝐋𝐎𝐏𝐄
LA VOCE DI PERCY le riempì l'udito. «Pen, svegliati.»
Lei mugugnò un lamento infastidito che le rimbombò contro il palato e si accoccolò meglio sul sedile, gli occhi ancora chiusi. Percy insistette, allora lei allungò una mano nel buio delle palpebre. Non se lo aspettava, ma la sua mano arrivò dritta sulla faccia di Percy, allontanandolo.
Lui protestò. «Ehi!»
Penelope ridacchiò nell'intorpidimento del sonno, preparandosi a tornare a dormire.
Solo che qualcuno glielo impedì.
Spalancò gli occhi nel sentirsi la pelle del braccio destro venir pizzicata, anche con una bella dose di forza. Il viso di Annabeth era ad almeno una ventina di centimetri dal suo, l'espressione seria e diritta come una linea precisa. «Alzati, Castellan» disse la bionda. «Voglio vedere il Gateway Arch.»
«Ho sonno» mugugnò Penelope, mettendole il broncio. Annabeth le diede un altro pizzicotto. «Ahia! Smettila!»
Non volendo ricevere altri pizzichi, si alzò in fretta, facendo sì che Annabeth indietreggiasse, per non finire a darle una testata. Il treno era fermo e fuori dal finestrino il cielo era quello del tardo pomeriggio, con un sole ormai basso. La stazione centrale di St Louis pullulava di viaggiatori che partivano ed arrivavano, o almeno questo si vedeva dal finestrino. Ancora imbronciata per il sonno interrotto, Penelope si legò intorno ai fianchi la felpa leggera che aveva e tutti insieme scesero dal treno.
Mentre si dirigevano all'arco, che distava circa un chilometro dalla stazione, Percy la informò che avevano tre ore di sosta prima che il treno partisse di nuovo, diretto a Denver. Penelope, energica dal buon sonno, saltellava e si guardava intorno, curiosa. Amava viaggiare allo stesso modo in cui amava i leccalecca alla vaniglia - quindi, più di ogni altra cosa. La figlia di Ermes camminava tranquilla, come se il peso di quella rischiosa e fondamentale impresa avesse smesso di gravarle sulle spalle. Osservava la città e canticchiava qualche verso di Elvis.
Grazie al cielo, le file per entrare nell'arco non erano troppo lunghe, essendo ormai tardo pomeriggio. Passarono per il museo sotterraneo, stipato di carri coperti e altra paccottiglia di fine Ottocento che Annabeth osservava on occhi curiosi. La figlia di Atena raccontò loro, durante la visita, dettagli interessanti su come l'arco fosse stato costruito.
Intanto, lei, Percy e Grover attingevano al sacchetto di gelatine alla frutta che quest'ultimo aveva in mano, degustando quei piccoli snack ed offrendone ogni tanto qualcuno ad Annabeth, che distrattamente, persa nel fiume delle sue stesse parole, li prendeva e li mangiava.
Percy continuava a guardarsi intorno, ancora teso come lo era stato sul treno. «Non fiuti nulla?» chiese a Grover dopo un po', mentre Annabeth spiegava loro, con ampi gesti delle mani, i calcoli matematici che erano stati seguiti per costruire l'arco.
Grover tirò fuori il naso dal sacchetto delle gelatine per una veloce annusatina all'ambiente. Storse il viso in una smorfia disgustata, come se avesse appena bevuto del latte scaduto. «Siamo sottoterra, e quaggiù l'aria puzza sempre di mostri. Probabilmente non significa nulla.»
«Il "probabilmente", tuttavia, non indica una certezza» affermò Penelope, mandando giù l'ultima gelatina al lampone che le era rimasta.
Percy la guardò come a dire: "Non mi aiuti, così".
«Ragazzi» li chiamò il figlio di Poseidone dopo alcuni minuti. «Avete presente i simboli del potere degli dèi?»
Annabeth sollevò lo sguardo dalla guida del museo, sottoforma di volantino. «Sì?»
«Be', Ade...»
«Palla di Neve, vorrai dire» disse Penelope, dopo aver sentito Grover schiarirsi la gola. «Siamo in un luogo pubblico, Jackson. Non conviene pronunciare i nomi.»
I suoi tre amici la guardavano come se avesse appena parlato una lingua straniera. «Ehi, che c'è?»
Annabeth inarcò un sopracciglio. «"Palla di Neve"?»
«Ma sì, è così pallido da sembrare un pupazzo di neve che non sorride!» replicò Penelope, alzando gli occhi al cielo. Spostò poi lo sguardo su Percy. «Dicevi?»
Percy soffocò uno sbadiglio. «Ehm, sì, Palla di Neve. Non ha un cappello come quello di Annabeth?»
«Vuoi dire l'elmo dell'oscurità» specificò la figlia di Atena. «Sì, è il simbolo del suo potere. L'ho visto accanto al suo seggio durante la riunione del Consiglio nel solstizio d'inverno.»
«C'era anche lui?»
Annabeth annuì. «E' l'unica volta in cui gli è concesso visitare l'Olimpo: il giorno più buio dell'anno. Ma il suo elmo è molto più potente del mio berretto dell'invisibilità, se quello che ho sentito è vero.»
«Gli consente di trasformarsi nelle tenebre stesse» confermò Grover. «Può diventare un'ombra o passare attraverso i muri. Nessuno può toccarlo, vederlo o sentirlo. E può irradiare una paura così intensa da indurre gli uomini alla pazzia o da fermargli il cuore. Perché credi che tutte le creature razionali abbiano paura del buio?»
Penelope si portò un ginocchio al petto, quasi abbracciando la sua stessa gamba. «Infatti odio tenere i piedi fuori dal letto». I suoi compagni le scoccarono un'occhiata seria, ma Percy aveva un accenno di sorriso sulle labbra.
Il figlio di Poseidone riacciuffò l'argomento. «Tralasciando i piedi di Penny, come facciamo a sapere che non è qui in questo momento? E se ci stesse tenendo d'occhio?»
Grover, Penelope ed Annabeth si scambiarono uno sguardo. «Non lo sappiamo» rispose il satiro.
Percy sospirò. «Grazie, questo mi fa sentire molto meglio. E' rimasta qualche gelatina azzurra?»
Penelope avvertì Percy irrigidirsi al suo fianco non appena scorsero la navetta-ascensore che li avrebbe portati su, nell'arco. Il ragazzino fissava la navetta con gli occhi sgranati. «Non dirmi che hai paura delle altezze» disse lei.
Il ragazzino si voltò a guardarla. «E se anche fosse?»
«No, nulla» sorrise lei, ricordando Talia e quella volta in cui lei, per ripicca nei confronti di Luke - le aveva fatto lo sgambetto! - si era arrampicata su un albero e non si decideva a scendere. La figlia di Zeus aveva provato a farla scendere poiché non avrebbe mai dato ascolto a suo fratello. Solo che Penelope si era arrampicata ancora più in alto e Talia, sbuffando, le era venuta dietro. In quel momento avevano fatto la conoscenza dell'assurdo timore che la figlia di Zeus nutriva per le altezze. «Non ci sarebbe nulla di male.»
«Odio solamente gli spazi chiusi e stretti» disse Percy, guardando dritto davanti a sé. «Non ho paura delle altezze.»
Penelope annuì, la mente che poco dopo veniva sfiorata da un pensiero guizzante come un pesce nella trasparenza delle acque. «Quando ho detto che non mi piace il mare perché ho paura di affogare, ti sei offeso?»
Percy la guardò, aggrottando le sopracciglia. «Avrei dovuto? Accidenti, Pen, hai solo paura. Il minimo che posso fare è provare a farti respirare sott'acqua.»
«Puoi farlo? Di ritorno al campo ci proviamo.»
«Non so se ne sono capace, ma sì, proviamoci.»
L'ascensore arrivò. Tutti e quattro si infilarono nello stretto cubicolo in compagnia di una grande e grossa signora e del suo cagnolino, un chihuahua color panna e con un collarino di strass intorno al collo. Doveva essere un cane per non vedenti, o almeno una specie, perché le guardie di sicurezza dell'arco non vietarono alla signora di portarlo con sé. Penelope allungò una mano per carezzare la testolina del cane, ma quello ringhiò e lei ritirò di scatto la mano, indignata.
Cominciarono a salire, scivolando quasi all'interno dell'arco. Il silenzio che regnava nell'ascensore era strano, come crepitante di elettricità. Penelope s'appoggiò contro la parete metallica, abbandonando il capo su di essa. Non le piaceva la sensazione di salire in curva: il suo stomaco sembrava contorcersi ogni secondo di più, stranito dalla direzione che stavano seguendo.
«Niente genitori?» chiese la signora.
Aveva occhi piccoli e luccicanti, simili alle pietre di ossidiana che v'erano sulla fish di Penelope, e a stento si scorgevano da oltre il berretto di jeans che portava ben calato sulla fronte. I suoi denti erano aguzzi, come fossero stati tutti canini, e giallastri, come quelli di un fumatore. Indossava un vestito di jeans, della stessa tinta del cappello, che era talmente gonfio da farla sembrare un dirigibile di jeans.
«Sono rimasti giù» rispose Annabeth, le mani intrecciate davanti al ventre ed i riccioli biondi a ricaderle sulle spalle. «Soffrono di vertigini.»
«Oh, poverini.»
Il chihuahua ringhiò di nuovo, gli occhietti luccicanti e maligni come quelli della padrona puntati su Percy. «Su, su, bambina. Fa' la brava» disse la donna.
«Bambina? Si chiama così?» chiese Percy, aggrottando la fronte in un'espressione interrogativa.
«No». La donna scosse il capo e la loro conversazione morì lì.
Giunsero in cima all'arco. Il belvedere si estendeva alla loro destra ed alla loro sinistra, il fiume da un lato e la città dall'altro, macchie di colore verdi, marroni, bianche. St Louis era una distesa sotto i loro piedi ed i loro occhi, gli edifici che parevano modellini tanto erano piccoli, visti da quell'altezza. Penelope corse subito verso una delle finestre, pigiando le mani contro al vetro e quasi spiaccicandoci anche il viso.
Annabeth la affiancò poco dopo, scrutando la città dalla finestrella. «Io avrei fatto le finestre ben più grandi, così si vede pochissimo.»
«Pensa se il pavimento fosse stato trasparente» aggiunse Penelope, annuendo. «Sarebbe fantastico!»
Le due si guardarono, occhi negli occhi. Una di quelle rare volte in cui andavano d'accordo su qualcosa. Penelope si voltò di nuovo a guardare la città ai suoi piedi, nascondendo dietro una ciocca di capelli un piccolissimo sorriso.
Il tempo che spesero lassù fu riempiti dalle parole di Annabeth che, ancora, forniva spiegazioni tecniche sui sostegni strutturali e su come l'arco era stato costruito. La bionda avrebbe passato lì ore intere, ma dopo una decina di minuti il custode annunciò che era quasi giunta l'ora di chiusura.
Percy spinse Annabeth, Grover e Penelope nell'ascensore, ansioso di scendere. Stava per entrare anche lui, quando notò la presenza di una coppia di turisti, due ragazzi, all'interno del cubicolo. Il custode gli disse, con una voce bassa e roca: «Aspetta la prossima navetta, ragazzo.»
«Usciamo anche noi» fece Annabeth, muovendo un passo fuori dall'ascensore. «Aspettiamo con te.»
Percy la spinse di nuovo nella navetta, con calma. «No, tranquilli, non c'è problema. Ci vediamo di sotto.»
A Penelope non piaceva l'idea di lasciarlo lì da solo, con una manciata di altri visitatori. C'era qualcosa che non la convinceva nel modo in cui la signora con il chihuahua guardava Percy; pareva volesse mangiarselo. Provò a sgusciare fuori per raggiungerlo, ma le porte si stavano già chiudendo. Percy sparì in alto, mentre loro prendevano a scendere.
«Non è stata una buona idea» sussurrò all'orecchio di Annabeth, avvicinandosi. «Uno di noi sarebbe dovuto restare.»
«Lo so» replicò lei. «Ma sii ottimista. Sperando che nessuno dei turisti sia una macchina mortale, andrà tutto bene.»
Magari fosse andata veramente così.
A Penelope piaceva guardare le stelle. Ogni volta che alzava lo sguardo al cielo, seduta sulla spiaggia del campo, osservava in silenzio tutti quei piccoli diamanti tessuti sul manto scuro del cielo, quasi fossero i gioielli di un sontuoso abito degno di una regina. Raramente, il suo sguardo coglieva piccolissime stelle comete o meteore che viaggiavano per il cielo, punti luminosi ed incredibilmente veloci che per un effimero istante si rendevano visibili. Certe volte, quando correva, si sentiva come quelle comete.
Ma mai avrebbe immaginato di vedere una cometa sulla terraferma. Nel senso: quando scorse un oggetto non identificato cadere in picchiata giù dallo squarcio che, in chissà quale arcano modo, s'era aperto nella parete metallica del Gateway Arch, pensò che si trattasse di una cometa.
Solo dopo la sua immaginazione si spense, dandole modo di realizzare ciò che era accaduto.
«Di immortales! Santissima sedia incastrata in un tombino! Sapevo che saremmo dovuti restare con lui!» esclamò, portandosi le mani ai capelli.
«Non possiamo sapere se era lui» disse Grover, ma nelle sue parole non ci credeva nemmeno lui.
«Avrebbe potuto scegliere una piscina diversa, per gli dèi» commentò Penelope, lanciando uno sguardo sofferto alle acque scure e fangose del Mississippi che scorrevano lente. «Guarda te, proprio oggi gli è saltato in mente di fare il campione olimpico di tuffi.»
L'area sotto l'arco pullulava di giornalisti, poliziotti e curiosi che allungavano lo sguardo verso lo squarcio nel metallo, i cui bordi ancora fumavano. Annabeth tese le orecchie, dando una piccola spallata a Penelope. «Sta' zitta, fammi sentire che dicono i giornalisti.»
Una donna con corti capelli color cioccolato parlava guardando dritta verso la telecamera. Intorno, altri giornalisti riportavano i fatti accaduti. «Probabilmente non si tratta di un attacco terroristico, ci dicono, ma le indagini sono appena iniziate» diceva la donna. «Il danno, come potete vedere, è molto serio. Pare che dei testimoni oculari abbiano visto qualcuno cadere dall'arco. Stiamo cercando di raggiungere alcuni dei superstiti per sapere se è vero.»
Un altro giornalista, invece, pareva saperne di più. «Il Quinto Canale ha saputo che le telecamere di sicurezza mostrano un adolescente in preda ad un attacco di follia sul belvedere» diceva. «Pare sia stato proprio ad innescare in qualche modo l'esplosione. Sembra incredibile, John, ma questò è ciò che ci dicono. Ribadisco che non risultano feriti.»
«Questa è una buona cosa» affermò Annabeth. Tentava in ogni modo di mantenere la calma, era più che evidente.
«Sì, ma ora come facciamo con la polizia?» replicò Grover, girandosi nervosamente i pollici. «Se trovano Percy è la fine, ora che è ricercato anche per questo.»
«Non sanno se è lui.»
«Sei tu che non sai se loro lo sanno, è diverso» disse Penelope. Si passò una mano sul viso, cercando di pensare ad un modo per uscire da quella situazione. Prima di tutto, però, dovevano trovare Percy e, soprattutto, capire se era ancora vivo o meno...
Pochi secondi dopo, Grover belò, tutto contento: «Peerrr-cy!»
Il ragazzino si voltò di scatto, per venir subito travolto dal soffocante abbraccio del satiro. Penelope ed Annabeth li raggiunsero di corsa, sollevate. «Pensavamo fossi andato a trovare Ade nel modo peggiore!» esclamò Grover, sciogliendo l'abbraccio.
Penelope guardò il figlio di Poseidone con le labbra serrate, resistendo all'impulso di tirargli un pugno per l'essere stato così idiota da farsi lasciare da solo sull'arco. «Stai cercando di non insultarmi, vero?» chiese lui, guardandola.
Le sue labbra si curvarono in un sorrisetto e strinse il dodicenne in un abbraccio, tirando finalmente un sospiro di sollievo. «Provaci un'altra volta e ti faccio a pezzettini» gli disse all'orecchio, tirandogli poi un piccolo schiaffo dietro al collo. Percy sorrise e sciolse l'abbraccio.
Annabeth si sforzava di sembrare arrabbiata, ma le sue labbra erano dipinte di un sorriso contento. «Non possiamo lasciarti da solo nemmeno per cinque minuti! Cosa è successo?»
«Diciamo che sono, ecco, scivolato.»
«Percy! E' un volo di centottanta metri!»
Alle loro spalle, un poliziotto gridò: «Fate largo! Fate largo!». La folla s'aprì, spostandosi, ed un paio di paramedici sbucarono fuori in fretta e furia, trasportando una donna su una barella. Lei sembrava star delirando. «E poi c'era questo cane enorme, questo chihuahua sputafuoco...»
«Sì, signora» disse uno dei paramedici. «Cerchi di calmarsi. La sua famiglia sta bene. La medicina sta cominciando a fare effetto.»
La donna sgranò gli occhi. «Non sono pazza! Quel ragazzo si è tuffato nello squarcio e il mostro è scomparso!». Poi vide Percy. «Eccolo lì! E' lui!»
Il figlio di Poseidone si voltò di scatto, trascinandosi dietro, il più in fretta possibile, loro tre. Si dileguarono tra la folla.
«Parlava del chihuahua in ascensore, vero?» chiese Annabeth.
Percy annuì, iniziando a raccontar loro la vicenda. La Chimera, Echidna, il suo numero di tuffo acrobatico nel fiume e la donna sott'acqua. Sentendo quell'ultima parte della storia, a Penelope tornò in mente la donna che le aveva teso la mano nel suo sogno.
«Che aspetto aveva?» chiese a Percy. «Capelli ed occhi neri? Pelle molto chiara?»
Il ragazzo scosse il capo. «No, era come costituita di bollicine. Non so chi fosse. Era una ninfa?»
Penelope rispose che non lo sapeva. Non riusciva ancora a capire chi fosse la donna del suo sogno, ma di sicuro non era una mortale.
«Dobbiamo portarti a Santa Monica, comunque» affermò Grover, sistemandosi il berretto sui ricci. «Non puoi ignorare una convocazione di tuo padre.»
Annabeth stava per dure qualcos'altro, ma sentirono dire al giornalista al quale stavano passando accanto: «Percy Jackson. Esatto, Dan. Canale Dodici ha saputo che il ragazzo che potrebbe aver causato l'esplosione corrisponde alla descrizione di un giovane ricercato dalle autorità per un serio incidente d'autobus avvenuto in New Jersey tre sere fa. E pare che il ragazzo sia diretto ad ovest. Per i nostri spettatori a casa, ecco una foto di Percy Jackson.»
Prima che qualcun altro potesse riconoscerlo, Penelope afferrò il braccio di Percy e lo tirò via, dietro un furgone della tv, infilandosi in una stradina laterale. Grover ed Annabeth la seguirono a ruota. «Dobbiamo assolutamente andarcene!»
In qualche modo riuscirono a tornare alla stazione senza farsi beccare. Salirono in fretta sul treno per Denver appena in tempo, prima che partisse. Mentre la sera calava ed il cielo si scuriva, il convoglio si mosse pesantemente verso ovest, con le luci della polizia che pulsavano ancora alle loro spalle, stagliandosi contro il profilo di St Louis.
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