06. "Menzogne!"
𝐀𝐍𝐍𝐀𝐁𝐄𝐓𝐇
ANNABETH NON SAPEVA se fosse il caso di arrabbiarsi prima con Percy o prima con Penelope.
Di certo, avrebbe fatto la paternale a tutti e due, e anche piuttosto pesantemente. Camminava con i pugni serrati e tormentando con i denti quel suo povero labbro inferiore, che ora sapeva di pioggia.
S'addentravano nei boschi bui del New Jersey, sovrastati da un cielo senza stelle. Le luci della Grande Mela, così irrealmente poco distante da loro, ingiallivano il cielo e nascondevano le stelle, catturandole e tenendosele per sé. Così, il cielo era solamente uno scuro e pesante velo posato sul mondo. Avrebbe alzato lo sguardo e cercato qualche stella conosciuta, se solo quelle ci fossero state a tenerle compagnia. Tutto ciò che c'era, invece, era il fetore dell'Hudson che le penetrava in gola e le appesantiva le narici.
Grover ragliava e rabbrividiva, riempiendo il silenzio. Continuava a borbottare tra un respiro e l'altro, nella credenza che nessuno di loro tre potesse sentirlo, quanto fosse stato scioccante ritrovarsi tutte e tre le Benevole di fronte. Si trascinavano tra le radici degli alberi che sporgevano dal terreno e i rami troppo bassi che ogni tanto gli graffiavano i visi. Percy aveva ancora problemi a controllare il proprio respiro dopo la corsa che s'erano fatti.
«Coraggio» disse la figlia di Atena per l'ennesima volta, tentando di infondere determinazione ai suoi compagni e a sé stessa. Tutto ciò che avrebbe voluto fare in quel momento era crollare a terra e smettere di pensare a tutto ciò che dovevano fare. Scosse il capo, prendendosi a schiaffi mentalmente. «Dai, ragazzi. Più ci allontaniamo, meglio è»
«Non abbiamo più niente» sbuffò Percy, passandosi poi il dorso di una mano sul viso. «Lì c'erano i nostri soldi, i nostri vestiti, il nostro tutto»
«Non essere così pessimista» gli disse di rimando Penelope, scrocchiando poi il collo. Pareva quella meno stanca di tutti loro ed Annabeth avrebbe voluto trovarsi nella stessa situazione.
«Non sono pessimista. Sono realista»
Annabeth si grattò il dorso del naso. «Be', se tu non avessi deciso di buttarti nella mischia quando non serviva...»
«Che volevi che facessi? Dovevo lasciarvi lì a morire?»
«Oh, ma dai!» esclamò Penelope, in una mezza risata. «Ce la stavamo cavando benissimo!»
Percy mostrò, nella penombra, il braccio destro. «Dillo al mio polso ustionato»
«Ma cosa c'entra? E' stata colpa tua, ti sei immischiato quando ti avevamo detto di non farti vedere!» replicò Penelope. «Se non fosse stato per me una di quelle tre ti avrebbe fatto a pezzi»
«Se non fosse stato per te, nemmeno ci avrebbero notate» le ricordò Annabeth, il tono piatto e duro come pietra.
Dalle labbra di Penelope sfuggì uno sbuffo iroso. «Mi prendi in giro?»
«Hai attirato la loro attenzione canticchiando quella dannata canzone. Se te ne fossi stata zitta non sarebbe successo nulla di tutto questo e l'avremmo passata liscia»
«Ah, come sei divertente, Chase!» rise la figlia di Ermes. «In caso tu non lo avessi notato, le ho distratte dal trovare subito Percy! Lo avrebbero fatto a pezzettini, poi avrebbero messo a friggere tutti i meravigliosi pezzetti ricavati dalla sua uccisione e se ne sarebbero cibate, con tanto di salse!»
«Tanto valeva che-»
«Ragazze, basta» la interruppe Grover, acciuffando le sue parole e mozzandone il capo. Il satiro si fece spazio tra lei e Penelope, che camminavano pericolosamente fianco a fianco, e tirò a ciascuna una piccola spallata. «Non è il momento di litigare»
Penelope avrebbe voluto ribattere, Annabeth lo sapeva e se lo sentiva, ma non lo fece. Si limitò ad incrociare le braccia al petto e calarsi ancora di più il cappuccio del giacchetto sulla chioma rossastra, ormai umida di pioggia.
Continuarono a camminare in silenzio per diversi minuti, con i piedi che sprofondavano ad ogni loro passo. Ormai il temporale era cessato da quanto, una mezz'ora? L'aria intorno a loro odorava di pioggia, ma il profumo era quasi del tutto mascherato dall'odore di sporcizia che c'era in quel boschetto. Nel camminare, la spalla di Percy sfiorò quella di Annabeth.
«Apprezzo che tu sia tornato indietro per aiutarci. E' stato molto coraggioso» disse, il tono di voce così basso per non farsi sentire. Sperava vivamente che il figlio di Poseidone non avesse udito quella sua confessione nel buio.
«Siamo una squadra» replicò lui.
Per qualche altro passo lei restò in silenzio, meditando su quali parole scegliere per rendere migliore le frasi che avrebbe pronunciato. Quando parlava, Annabeth Chase doveva sempre scegliere le parole giuste. «E' che... se tu morissi, oltre al fatto che sarebbe davvero una bruttissima cosa per te, l'impresa avrebbe fine. Questa potrebbe essere la mia unica occasione di vedere il mondo reale»
«Non sei mai uscita dal Campo da quando avevi sette anni?»
«Sì, qualche volta, ma erano gite. Mio padre...»
«Il professore di storia»
«Sì. A casa le cose non andavano granché. Cioè, casa mia è il Campo Mezzosangue». Trasse un bel respiro dal naso per rallentare la sua lingua, ma se ne pentì subito dopo. Il fetore di quel posto era terrificante. «Lì non fai altro che allenarti... ed è fantastico, credimi. Ma il posto il cui si trovano i mostri è il mondo reale. E' qui che capisci davvero quanto vali»
E di mostri, in quel mondo reale, ce ne erano fin troppi. Annabeth si chiedeva se sarebbe mai stata in grado, se sarebbe mai stata all'altezza, di batterne alcuni. O perché no, anche tutti. Voleva vedere il mondo per ciò che era sul serio, poter stringere tra le mani qualcosa di solido e reale. Per anni si era nutrita di fumoso etere, ma ora cercava a tentoni nel buio altro di cui saziarsi. Aveva fame di conoscenza, la sua gola era assetata di risposte come lo sarebbe quella di un uomo disperso nel deserto.
«Sei brava con quel pugnale» le disse Percy e per la seconda volta le loro spalle si toccarono.
«Dici?»
«Chiunque sia in grado di saltare a cavalcioni di una Furia, per me, è a posto»
Le labbra di Annabeth si curvarono in un sorriso piccolo come un frammento di vetro, consapevoli del fatto che al buio nessuno lo avrebbe notato. Le parole di Percy innescarono nella sua testa un piccolo meccanismo che accese la sua memoria. "Dov'è? Dove lo avete messo?". «Senti, prima, sull'autobus-»
La sua frase venne interrotta da uno stridulo Uuh-uuh, come il verso di un gufo. Subito dopo, Grover esclamò, entusiasta: «Ehi! Il mio flauto funziona ancora!»
«Esiste, nel fin troppo vario assortimento delle vostre canzoni, una che potrebbe guidarci fuori da questa pattumiera naturale?» chiese Penelope. La sua voce pareva distante, come se stesse camminando metri da loro. Molto probabilmente, veloce com'era, si trovava diversi passi davanti a loro e nemmeno se ne era accorta.
Grover soffiò nello strumento, ma tutto ciò che ne uscì fu una melodia stonata fin troppo simile ad una canzone di Hilary Duff. A riempire il silenzio dopo quel vano tentativo vi fu il tunk! che la testa di Percy produsse quando andò a sbattere contro uno dei tanti alberi lì presenti. Ancora, insieme ai gemiti doloranti del ragazzino, la risata limpida di Penelope si sollevò nella penombra.
Se c'era una cosa - una sola, che fosse chiaro - che Annabeth apprezzava di Penelope era la sua risata. Sarà stato perché somigliava tremendamente a quella di Luke, un suono cristallino che lasciava le sue labbra, ma sentirla ridere non era poi così male. Poi quando apriva bocca era tutt'altra storia, ma quelli erano solo dettagli.
«Sì, brava, ridi di me» borbottò imbronciato Percy.
Subito dopo un altro tunk!, stavolta dalla direzione in cui la figlia di Ermes avrebbe dovuto trovarsi. Fu Percy a scoppiare a ridere, mentre Penelope lo insultava in greco.
Continuarono così per un bel po' ancora, inciampando, imprecando e ridendo per le loro stesse gaffe. Il bosco scuro e la notte buia non sembravano più così deprimenti, ora che ridevano ogni tre per due.
«Tu guarda» disse Penelope, dopo aver tirato una tremenda imprecazione per un ramo troppo basso che aveva preso in pieno. «Prometeo ci ha portato la luce al neon»
I colori di un'insegna al neon spiccavano nella penombra del bosco, filtrando tra gli spazzi tra i tronchi e i rami degli alberi. Insieme ad essa, a colpire i loro sensi fu il profumino fin troppo familiare di cibo fritto. Sanissimo e delizioso cibo spazzatura, che lei non metteva sotto i denti da un bel po'. Al solo pensiero di un cheeseburger lo stomaco di Annabeth brontolò offeso, essendo stato ignorato da quella mattina.
Continuarono a camminare finché gli alberi si diradarono d'improvviso, dando spazio ad una strada deserta. Sull'altro lato di essa, proprio sul ciglio, c'erano un distributore di benzina apparentemente in disuso, un cartello di un film anni '90 che Annabeth aveva visto fin troppe volte ed un negozio aperto. Quest'ultimo era la fonte da cui proveniva la luce al neon rossa che li aveva attirati lì ─ e soprattutto, del profumo.
Percy si lasciò sfuggire un lamento scocciato. «Ma non è un fast food...»
«Be', meglio, o io e Grover saremmo finiti senza mangiare un bel nulla» affermò Penelope, sorridendo alla vista delle luci. Sulle lunghe ciocche dei suoi capelli queste avevano riflessi strani ed ipnotici.
«Non dirmi che sei vegetariana» replicò Percy, fissandola con gli occhi sgranati.
«Non lo avevi ancora capito? Sono due settimane che ti siedi vicino a me ad ogni pasto»
«Pensavo fossi a dieta!». Penelope rise e la conversazione morì lì.
Il negozio era quel tipo di posto un po' strambo ma che ad Annabeth era sempre piaciuto. Adorava infilarsi tra gli scaffali polverosi di qualche vecchio negozio e cercare oggettini vecchi o fuori moda, che in altri posti non avrebbe trovato. Avevano un certo fascino, secondo lei. Però quello vendeva anche di più: in particolare, articoli da giardino. V'era un vasto assortimento di gnomi dai cappellini a punta, fenicotteri rosa di plasica, grizzly in cemento e figurine di Buddha in meditazione intagliate nel legno. Era un edificio lungo e basso, dalle pareti esterne piuttosto rovinate, forse dalle intemperie, e circondato da statue di ogni tipo. C'erano donne, anziani, uomini, bambini, animali e chi più ne ha più ne metta.
«Oh, dèi, cosa dice quella dannata insegna?» chiese Percy, passandosi una mano sugli occhi per poi strizzarli. Anche Annabeth provò a leggere ma non vi fu nulla da fare. Il corsivo e il neon rosso combinati insieme potevano essere tranquillamente il peggior incubo di ogni semidio dislessico. Era qualcosa tipo: DAIZA ME, LEPMROIO DIE NNATTIE DA GRIADNIO.
«"Da Zia Em, l'emporio dei nanetti da giardino"» tradusse per loro Grover. «Non sembra male»
«E direi... senti che profumo! Ho proprio voglia di patatine fritte!» esclamò Penelope con un gran sorriso. Poi, a passo spedito, attraversò la strada e procedette verso il negozio. Annabeth, Percy e Grover la seguirono subito.
Davanti l'ingresso stavano in piedi due nanetti, brutti omini dal naso adunco e la barba lunga che sorridevano e salutavano con la mano, come in posa per una fotografia. «Se solo si muovessero, potrebbero passare per gli gnomi che infestano il cortile di casa Weasley» disse Penelope, chinandosi sulle ginocchia per osservare da vicino le due piccole statue.
«Chi sono i Weasley?» chiese Percy.
Annabeth, Penelope e Grover si voltarono di scatto a guardarlo, tre identiche espressioni sconvolte dipinte sui loro volti. «Non hai mai letto Harry Potter?» fecero in coro.
Percy se li guardò come se fossero diventati di colpo dei matti dal legare. «Ehm, no»
Grover sbuffò, distogliendo lo sguardo da quello del dodicenne. «Uff, babbano»
«Ci sono le luci accese» osservò Annabeth, indicando con un cenno le luci che s'intravedevano dal vetro opaco di sporcizia della porta. «Forse è aperto»
«Snack-bar» dissero in coro Penelope e Percy con aria sognante.
«Snack-bar» ripeté lei.
«Ma vi siete rincitrulliti tutti e tre in un colpo solo?» esclamò Grover, la fronte aggrottata. «Questo posto è assurdo». I tre semidei lo ignorarono bellamente.
Procedettero verso le porte del magazzino, passando in mezzo ad una piccola folla di statue in cemento. C'era seriamente di tutto, perfino un satiro che suonava il flauto. Grover rabbrividì da capo a piedi. «Bee-bee! Somiglia a mio zio Ferdinand!»
Davanti la porta si fermarono e Percy sollevò una mano per bussare.
«Non farlo» lo supplicò Grover. «Sento odore di mostri»
Penelope lo prese a braccetto, come per evitare che corresse via. «Suvvia, Grovie. L'unico odore che sento io è quello di buon cibo. Ed ho una fame da far invidia al rapace che ogni giorno divora il fegato a Prometeo. Voi, ragazzi?»
«Devi avere il naso ancora intasato dall'odore delle Furie» concordò Annabeth. «E sì, sto morendo anche io di fame. Tu no?»
«Bleah! Carne! Io sono vegetariano»
«Tu mangi le enchiladas al formaggio e le lattine schiacciate di CocaCola» gli ricordò Percy, il sopracciglio sinistro inarcato.
«Sempre verdura è. Andiamo via, vi prego. Questo posto non è sicuro. Le statue mi guardano»
Prima che qualcun altro potesse ribattere la porta del magazzino si aprì con un cigolio e davanti a loro stava una donna dalla figura slanciata e sottile, il cui corpo era avvolto da un abito di tessuto nero che le scivolava perfettamente addosso. Aveva il capo avvolto da un velo dello stesso colore e uno strato di garza scusa le copriva gli occhi, perciò Annabeth pensò che fosse mediorientale. Dietro la garza i suoi occhi scintillavano come due piccole pietre di ossidiana, ma non si riusciva a vederli per bene, quindi potrebbero aver avuto qualsiasi colore. L'unica parte di pelle visibile era quella che ricopriva le mani, dalle dita lunghe, affusolate e ben curate, dalle unghie smaltate di un nero nerissimo. Da come si presentava poteva tranquillamente essere una modella in pensione, perché non c'era alcun dubbio sul fatto che in passato fosse stata una bella donna.
«Bambini» disse, di una voce dolce come miele e morbida come velluto «E' tardi per gironzolare da soli. Dove sono i vostri genitori?»
Annabeth si rese conto troppo tardi di non avere una bugia bella e buona da snocciolarle. Boccheggiò, cercando i materiali per costruire un edificio in fretta e furia. «Loro sono...»
«Siamo orfani» disse Percy, con una tranquillità a dir poco invidiabile.
La donna si portò una mano al petto, in viso dipinta un'espressione sorpresa. «Oh, poveri cari! Non riesco a crederci!»
Annabeth pensò a quanto Percy fosse da prendere a schiaffi. Era un bugiardo patentato. «Abbiamo perso il convoglio» continuò il dodicenne «Il convoglio del circo. Il direttore ci aveva detto di aspettarlo al distributore di benzina nel caso ci fossimo persi, ma forse si è dimenticato di noi o intendeva un altro distributore. Comunque sia, ci siamo persi. Sbaglio o sento profumo di cibo?»
Annabeth pestò un piede a Penelope per farla smettere di ridacchiare. Lei smise, per fortuna, ma per ripicca le tirò una ciocca di capelli.
La donna si stirò brevemente l'abito nero. «Oh, ragazzi miei, come mi dispiace. Entrate, venite pure, avrete una fame tremenda. Accomodatevi sul retro, che c'è un'area di ristoro»
«Il convoglio del circo, eh?» sussurrò Annabeth all'orecchio di Percy mentre si inoltravano nel magazzino.
«Geniale, eh? Atena ha sempre piano, dopotutto»
«Hai la testa intasata di alghe»
«Però, questa capoccetta intasata» disse Penelope, bussando sulla tempia di Percy «Ci è servita a qualcosa». Fece una piroetta sulla punta del piede, sollevando un braccio e sorridendo. «Mi ci vedete come trapezista?»
«Come pagliaccio, vorrai dire» sorrise Percy. La figlia di Ermes lo fulminò con lo sguardo di zaffiri e gli tirò uno scappellotto giocoso, ridendo di nuovo.
Il magazzino era strapieno di altre statue, raffigurate in ogni genere di posa e vestite nei più vari modi. C'erano turisti con la macchina fotografica alzata, bambini con caramelle sollevate a mezz'aria nell'atto di mangiarle, persino una ragazza che indossava una maglietta con la scritta SPQR un po' sbiadita. La cosa assurda era la precisione e la minuzia con cui erano state scolpite: Annabeth osservò i voluminosi ricci della ragazza, chiedendosi come avesse fatto Zia Em a renderli così realistici modellandoli nella pietra. Forse nemmeno Fidia sarebbe stato in grado di realizzare un lavoro del genere, pensò.
Raggiunsero l'area ristoro, accompagnati dal delizioso profumo di hamburger che aleggiava. C'erano un bancone da fast food, una frigo con diverse bibite, uno scaldavivande per i pretzel ed un dosatore per salse. In più, alcuni tavoli da pic-nic dalle tovagliette a quadri erano sparsi intorno al bancone.
Zia Em li invitò ad accomodarsi e loro fecero altrettanto, ignorando bellamente i nervosi gemiti di Grover, il quale continuava a dare colpetti di gomito a Percy. «Ehm, signora... noi non abbiamo soldi» disse il satiro, sedendosi incerto accanto ad Annabeth, di fronte agli altri due semidei.
La donna agitò la mano in un gesto vago. «Tranquillo caro, questo è un caso speciale, niente soldi. Offro io per voi, non c'è alcun problema»
«Grazie, signora» disse Annabeth, sorridendole con gentilezza.
La donna, udendo la sua voce, s'irrigidì di colpo, come se lei avesse appena detto qualcosa di abominevole. La figlia di Atena la guardò in un misto di confusione e dispiacere, temendo che il ringraziamento non fosse stato apprezzato.
Zia Em tornò come prima e la guardò, da sotto la garza s'intravide un sorriso bianco come avorio. «Non c'è di che, Annabeth. Sai di avere degli occhi davvero belli, cara? Sono così peculiari... di questo bel grigio. Era tempo che non ne vedevo un paio del genere». Il suo sguardo si spostò su Percy, il quale non riusciva a star fermo dalla fame che aveva. «Anche tu, Percy, sfoggi uno sguardo meraviglioso... mi ricorda tanto uno che conoscevo in passato». Rivolse tutti loro un ultimo sorriso e sparì dietro il bancone.
«Ragazzi» insistette Grover. «Dobbiamo davvero-»
«Shh, Grovie. Ho fame. Anche tu hai fame. Ammettilo» lo interruppe Penelope, alzando il dito indice davanti al naso del satiro.
Pochi minuti dopo Annabeth trangugiava lunghi sorsi del frullato alla fragola e mirtilli, con aggiunta di panna e cioccolato fondente, che Zia Em le aveva portato. Percy aveva già divorato un hamburger ed era in procinto di polverizzarne un secondo e Penelope mangiava allegramente le patatine fritte, inzuppandole nella maionese su tutte e due le estremità. Zia Em sedeva a capotavola, osservandoli mangiare. Grover ogni tanto le lanciava nervosi sguardi di sottecchi, rubando qualche patatina a Penelope o si arricciandosi intorno alle dita la tovaglietta di carta.
«Cos'è questo sibilo?» chiese, tendendo le orecchie.
«Quale sibilo?» replicò Percy, spazzandosi via le briciole dalla maglietta.
«Dev'essere la friggitrice che si raffredda» rispose Zia Em. «Hai davvero un ottimo udito, Grover, complimenti»
«Prendo le vitamine» replicò lui, chinando appena il capo nell'imbarazzo. «Per l'udito»
«Davvero ammirevole. Ma te ne prego, rilassati. Non hai nulla da temere». Zia Em li scrutò con un piccolo sorriso sulle labbra. «Penelope, sai di avere dei meravigliosi capelli? Sono così lunghi»
Ed ecco che riprendeva a far complimenti. Non che non fossero graditi, ma Annabeth sapeva come era fatta la figlia di Ermes ─ quando c'era qualcosa di cui poteva vantarsi lo faceva senza alcun ritegno. La dodicenne infatti sorrise compiaciuta, mandando giù un boccone. Si leccò le labbra dal sale e posò le mani sul tavolo. «Grazie mille. E' un po' di tempo che pensavo di tagliarli, però... iniziando a diventare insopportabili»
«Oh, come ti capisco. Un tempo avevo dei capelli bellissimi, ricci ricci e scuri come il legno, ma poi... una parrucchiera ha fatto un brutto danno e si sono rovinati». Dicendo questo, Zia Em lanciò uno sguardo ad Annabeth, che si sentì lo stomaco attorcigliarsi su sé stesso. Sembrava che la donna ce l'avesse con lei per la faccenda dei capelli.
«Che gran peccato» affermò Penelope, arricciando il naso. «Stravedo per i capelli ricci»
Percy pareva un po' assonnato, forse per il pasto appena concluso o per l'argomento del discorso. Posò le mani sul tavolo e intrecciò le dita tra loro, visibilmente combattendo contro l'abbandonarsi ad una piccola siesta. «E così vende nanetti da giardino»
Zia Em spostò lo sguardo su di lui. «Sì, il negozio nasce per questo. Ma ho un vasto assortimento di articoli da giardino. Animali, persone, di tutto! Anche su ordinazioni. Le più richieste sono sempre le statue»
«Che genere di statue, di solito?» chiese Annabeth dopo aver preso un lungo sorso dal suo frullato. Le piacevano le statue. Momenti immortali racchiusi nella pietra, uno dei materiali che resta per secoli e secoli, semplicemente lì dove è stato posato. Era come scattare la fotografia del momento perfetto ed imprimerla da qualche parte, così che mai si perdesse o rovinasse.
«Oh, di tutti i tipi! Vedi, mi piace raffigurare i soggetti nelle più piccole azioni e nei dettagli più peculiari. Ho un grande amore per i dettagli, bambina. Come quelli dei tuoi occhi, sai...»
Alla figlia di Atena iniziava a non piacere il modo in cui la donna insisteva sulla bellezza dei suoi occhi. Ogni volta che la guardava in faccia aveva uno scintillio velenoso appena visibile negli occhi. Il nervosismo iniziò a crescere in lei.
«C'è molto giro da queste parti?» domandò Percy e la Zia Em distolse la sua attenzione da Annabeth.
«Purtroppo no, non molto. Da quando hanno costruito l'autostrada da qui non ci passa più nessuno. Devo tenermi ben caro ogni cliente che mi capita»
Percy si guardò in giro, osservando le statue poste un po' a caso in giro per l'area ristoro. Osservando quella di una bambina con in mano un cestino di uova di Pasqua parve rabbrividire. In effetti, quella statua era un po' inquietante. A parte i dettagli incredibilmente lavorati, ma il suo viso sembrava spaventato.
Zia Em seguì lo sguardo del dodicenne. «Hai notato che alcune statue non mi vengono bene, eh? La faccia è sempre la parte più difficile... sempre la faccia»
«Giusto, è lei a far le statue! E' davvero bravissima!»
La donna annuì, il viso intristito. «Grazie, tesoro. Un tempo lavoravo con le mie due sorelle, sai, abbiamo aperto questo negozietto assieme. Ma ora Zia Em è rimasta sola, loro sono morte, ormai. Ho solamente le mie statue. Per questo le creo, capite. Mi fanno un po' di compagnia, qua sono sempre sola»
Annabeth posò lentamente il frullato sul tavolo. La sua mente lavorava ad una velocità impressionante. «Due sorelle, ha detto?»
«E' una storia davvero terribile» raccontò la donna. «Non dovrebbe essere adatta ai bambini, sul serio. Vedi, Annabeth cara, quando ero giovane una donna molto cattiva era gelosa di me e del fidanzato che avevo. Era così gelosa che voleva separarci. Provocò un terribile incidente e le mie due sorelle, innocenti, vennero coinvolte. Hanno condiviso la mia sfortuna fin quando hanno potuto, ma poi alla fine sono morte. Sono scomparse. Solo io sono sopravvissuta, ma ho dovuto pagare un prezzo molto alto»
Annabeth non era certa di star respirando ancora. Dovete darsi un pizzicotto sul braccio per tornare lucida. Si guardò freneticamente intorno, guardando i volti spaventati di tutte le statue. Ma forse sbagliava a definirle "statue", perché in passato non erano state semplice pietra.
Toccò una gamba di Percy con il proprio piede da sotto il tavolo. «Percy? Dovremmo andare. Il direttore del circo ci starà aspettando»
«Lasciami finire le patatine, almeno» disse Penelope, mandando giù un boccone ed inzuppando un'altra patatina nella maionese. L'unico a darle ascolto ─ dannati fossero loro che non gli avevano dato retta sin da subito ─ era Grover.
Tirò un calcio anche a Penelope, con molta più forza di quanto aveva fatto con Percy. Tu e la tua testaccia dura come pietra. «Ahia! Ma che ti prende?» esclamò lei.
Annabeth dovette applicare su sé stessa una buona dose di autocontrollo per ricordarsi di respirare bene, per non destare sospetti.
«Hai dei bellissimi occhi grigi, bambina. Santi numi, quanto tempo è passato...». Zia Em allungò una mano per accarezzarle una guancia, ma lei schizzò in piedi, tesa come una corda di violino.
«Dovremmo proprio andare»
«Sì!». Grover inghiottì la tovaglietta del tavolo e schizzò in piedi a sua volta. Prese il polso di Penelope tra le dita, tentando di farla alzare. «Il direttore ci sta aspettando!»
La figlia di Ermes fece una smorfia e tirò via il polso dalla presa di Grover. «Voglio prima finire le mie patatine». Grover tentò di nuovo con Percy, ma lui era irremovibile ─ in più, stava quasi per addormentarsi.
«Vi prego, cari, restate ancora un po'. Mi capita così di rado di passare del tempo con dei bambini adorabili come voi» li supplicò Zia Em. «Prima che ve ne andiate, che ne dite di posare per me? Ci vorranno solo cinque minuti»
Annabeth si bloccò dall'agguantare Percy per un orecchio e trascinarlo via di lì di peso. Guardò Zia Em, incerta. «Posare?»
«Per una foto. La userò come modello per le statue. I bambini sono così popolari!»
Annabeth guardò Grover alla ricerca di un parere. Lui scosse appena appena il capo, gli occhi scuri sgranati e il viso teso. «Non penso che... non faremmo in tempo... Dai, Percy, Penny, alzatevi»
«Ma certo che possiamo» rispose invece il figlio di Poseidone, di colpo sveglio e pimpante. Fulminò Annabeth con lo sguardo. «E' solo una foto, dai. Ci vorrà pochissimo»
«Sì, Bettie, non c'è nulla di male» ribadì Penelope, guardandola con quel sorrisetto da volpe che lei non sopportava.
Annabeth voleva scappare di lì a gambe levate. Avrebbe voluto gridare il nome di quella donna con tutta la voce che aveva in corpo solo per far capire a quei due idioti dei suoi compagni il pericolo che stavano correndo. Le tremavano le mani, cosa non da lei. Fissò lo sguardo nei grandi occhi blu di Penelope, chiedendosi per quante altre volte avrebbe dovuto combattere contro la voglia di dargliene di santa ragione per le idiozie che faceva.
L'idea non le piaceva, ma annuì con un sospiro.
Zia Em li condusse all'esterno, nel giardino affollato di statue e statuette. Più lei le guardava, più la voglia di rigettare tutto il frullato le assaliva lo stomaco. Li invitò a sedersi su una panchina, accanto al satiro di cemento che Annabeth aveva notato quando erano arrivati. «Lasciate che vi posizioni per bene» disse «vieni qui, Penelope, siedi accanto ad Annabeth. Come siete carine vicine. Percy, passa a sinistra e prendi il posto di Grover... ecco, così»
«Non c'è molta luce per una foto» osservò Percy, mentre Zia Em tentava di dare un ordine sensato ai suoi capelli.
«Tranquillo, basterà» lo rassicurò lei. «Noi riusciamo a vederci, sì?»
«Dov'è la macchina fotografica?» chiese Grover, nervoso.
Zia Em fece un passò indietro ed ammirò la posa. «Ora, cari. La faccia è la parte più difficile. Potreste farmi un gran bel sorriso? Bello bello, dai»
Ma Annabeth non riusciva a sorridere. Un groppo di saliva le si era bloccato in gola. I capelli di Penelope profumavano di arancio, lasciati sciolti e smossi appena dalla brezza notturna. Le sue membra fremevano dalla voglia di scattare e andarsene, fuggire.
Grover lanciò uno sguardo al satiro di cemento. «Somiglia proprio a zio Ferdinand» borbottò.
«Grover» lo rimproverò Zia Em «Guarda da questa parte». Ancora non aveva la macchinetta in mano.
«Percy...» tentò Annabeth, sforzandosi per non far tremare la sua voce.
«Ci vorrà solo un momento, davvero» insistette Zia Em. «E' solo che non riesco a vedere nulla con questo maledetto velo...»
Annabeth si portò una mano alla tasca posteriore dei jeans. «Percy, c'è qualcosa che non va»
«Qualcosa che non va?» ripeté Zia Em, di nuovo con quella sua voce suadente e morbida. «Atena cara, ma cosa dici? Ho una così nobile compagnia stasera. Cosa potrebbe mai guastare le cose?»
«Perché ti ha chiamata Atena?» le bisbigliò Penelope all'orecchio, osservando ignara la donna iniziare a slacciarsi il velo per togliersi il copricapo. «Ti ha per caso scambiato per- oh»
Ah, adesso se ne accorgeva.
«Ma quello è lo zio Ferdinand!» esclamò Grover con il fiato mozzo.
«Non guardatela in faccia!» gridò Annabeth. Si infilò il berretto degli Yankees sul capo e diede una spinta a Penelope, che cadendo in terra si portò dietro anche Percy.
La figlia di Atena scattò verso destra, trascinandosi dietro Grover, mentre i sibili di Medusa le riempivano l'udito. Si nascose dietro la statua di un massiccio uomo con una giacca di pelle. Scorse in una manciata di secondi Penelope, sdraiata in terra, tirare Percy per un piede, lontano dai sandali della donna.
«Non guardarla!» gli gridò la figlia di Ermes, accorgendosi che stava per sollevare lo sguardo sul viso di Medusa.
Grover mise in azione le scarpe volanti ed Annabeth lo vide sparire tra le statue ed il buio della notte giovane. Non aveva la più pallida idea di cosa fare e questo era tremendamente frustrante. Lei non si sarebbe mai permessa di restare senza un piano. La sua mente correva e correva, elaborando e ragionando. Intanto, quatta quatta, si muoveva tra le statue, il pugnale stretto in mano e la consapevolezza che le cose avrebbero potuto prendere una piega drastica.
«Per tutti gli dèi dell'Olimpo e di Asgard, ma cos'hai contro dei poveri bambini?» domandò Penelope, il tono intriso di rabbia. Annabeth alzò lo sguardo e la vide lanciare oggetti a caso che trovava, gli occhi serrati per evitare di guardare Medusa.
La gorgone tentò di acciuffarla, tendendo le braccia e le lunghe dita, ma la figlia di Ermes era troppo veloce. Medusa s'arrese quasi subito e spostò nuovamente la sua attenzione su Percy.
Il dodicenne stava ancora steso per terra, nello stesso punto in cui Penelope lo aveva prima trascinato. Tremava come una foglia. Annabeth pensò a quanto gli avrebbe rinfacciato il suo essere stato così stupido.
«E' stata la dea dagli occhi grigi a farmi questo, Percy» disse Medusa, in piedi vicino al ragazzino. La gorgone sollevò lo sguardo alla ricerca di Annabeth, che subito distolse lo sguardo. «Ero una donna bellissima. E la tremenda Atena, la madre della tua amica Annabeth, mi ha reso un mostro»
«Non è vero!» gridò Annabeth, nascosta dietro la statua della ragazza dai folti ricci. «Non darle ascolto! Non è andata-»
«Silenzio!» ringhiò Medusa. Poi si rivolse nuovamente a Percy, di una voce dolce come vino. «Capisci perché voglio distruggere quella ragazza? E' la figlia della mia nemica. Disintegrerò la sua statua. Ma tu, Percy, non dovrai soffrire»
«N-no» borbottò lui, ancora incerto sul muoversi o no.
«Davvero vuoi aiutare gli dèi?» gli chiese Medusa. «Capisci ciò che ti aspetta in questa impresa folle? Sai cosa ti accadrà quando raggiungerai gli Inferi? Non essere una pedina degli dèi, mio caro. Staresti molto meglio come statua. Meno dolore. Meno sofferenze»
«E tu staresti meglio come mucchietto di polvere! Meno ossigeno sprecato!» esclamò Penelope, apparendo di colpo accanto ad Annabeth. «E tu, brutto idiota, levati da lì!» gridò a Percy, scagliando poi contro Medusa un sasso rotondo e piuttosto pesante. Peccato che teneva gli occhi socchiusi, quindi la sua mira non era una delle migliori.
La figlia di Atena le diede un pizzicotto sul braccio. «Non è così che lo aiuterai» le sussurrò, togliendosi per un attimo il berretto. Penelope aveva il respiro pesante e gli occhi sbarrati di chi è teso come una corda di violino. «Dobbiamo distrarre Medusa. Me ne occupo io. Tu cerca di allontanare Percy, che mi pare ancora mezzo addormentato»
«Casomai facciamo il contrario» ribatté Penelope, serrandole le dita attorno al polso per non farla alzare. «Medusa vuole te. Rischi solo di restarci secca, se te ne occupi tu»
«Ma tu sei più veloce, puoi tirare via Percy più facilmente»
«Sono anche più brava con le parole»
«Tu e la capacità di persuasione siete due rette parallele che non si incontreranno mai»
Penelope stava per ribattere, ma poi serrò le labbra. «E va bene, fallo tu»
Annabeth annuì e si infilò nuovamente il berretto. Penelope sguainò la spada e procedette nella direzione opposta alla sua, a carponi sul terreno. L'arrivo di Grover infranse i loro piani.
Il satiro piombò letteralmente giù dal cielo notturno, gridando a Percy di tenere giù la testa. Le scarpe volanti di Luke parevano impazzite tanto sbattevano le ali. Tra le mani Grover stringeva il ramo di un albero grosso quanto una mazza da baseball. Teneva gli occhi serrati e muoveva la testa a destra e sinistra, facendosi guidare dagli altri sensi.
La sua traiettoria non prometteva benissimo, ma poi sbang!, prese la gorgone in pieno. Medusa ruggì di rabbia, portandosi le mani alla fronte. Percy, in quell'attimo di distrazione del mostro, riuscì a strisciare tra le varie statue e nascondersi.
Medusa era nera di rabbia. «Tu! Miserabile di un satiro! Ti aggiungerò alla mia collezione!»
«Quello era per lo zio Ferdinand!» replicò Grover.
Sbadabang!
Mentre Grover teneva occupata Medusa, Annabeth sgattaiolò tra le statue, ritrovandosi quasi di fronte alla gorgone. Dall'altro lato del cortile, Penelope s'avvicinava da dietro, la spada sguainata.
La figlia di Atena strappò una palla di vetro dal piedistallo di una statua raffigurante una coppia abbracciata e terrorizzata nell'ultimo momento della loro esistenza. Che brutta fine avevano fatto. Si concentrò sul proprio respiro, fissando i riflessi verdastri della sfera che stringeva tra le dita.
Uno. Due. Tre.
«Medusa!» chiamò Annabeth, più forte che poteva.
«Dove ti nascondi, piccola dea, dove?» ringhiò la gorgone.
L'inganno funziona e Annabeth questo lo sapeva. Lo aveva imparato dal migliore in questa fine e seducente arte, Odisseo. Ma in quel momento si disse che l'unica cosa che avrebbe attirato l'attenzione di Medusa sarebbe stata la verità più pura. Questo lei voleva, dopotutto: dirle la verità. Trovava orribile il fatto che la gorgone avesse vissuto così a lungo credendo a qualcosa che non era vero.
«Medusa, ascoltami!»
Il tempo parve fermarsi. Lentamente, Annabeth si alzò in piedi, con ancora stretta in mano la sfera di vetro. «Non è andata come credi tu» affermò.
Subito la gorgone colse ciò di cui lei stava parlando. «Bugie, dici solo bugie! Affermi questo perché sei sua figlia»
«Affermo questo perché conosco la verità. Sei tu che ti ostini a credere e vivere in una bugia»
Medusa sembrava ancora più furiosa di prima. Ma Annabeth restò con i piedi piantati dov'erano, scrutando la gorgone dal riflesso contorto che la sua figura aveva sulla sfera di vetro. I serpenti che costituivano i suoi capelli sibilavano e s'agitavano, sembrando un intricato nodo di corde e cordicelle. «Fatti vedere, semidea!» ringhiò.
«Ascoltami, ti prego» la supplicò Annabeth.
«Mostrati e lo farò!»
Sapeva che era rischioso rivelarsi e rendersi visibile, perché poteva essere tutto un tranello. In un'altra situazione, non sarebbe mai stata così stupida. Ma voleva dirle la verità, e si sentiva un'idiota per questo. Voleva farlo. Non per distrarla e dare ai suoi compagni il tempo ed il modo di ucciderla, solo per farle capire ciò che era davvero accaduto tanto tempo prima.
Si tolse il berretto.
Nel riflesso della sfera apparve anche lei. Medusa la guardò trattenendo il respiro, alla sue spalle.
Annabeth prese un profondo respiro. «Non l'ha fatto per punirti, ma per proteggerti»
I lineamenti di Medusa si contrassero in una smorfia di rabbia pura. Il breve momento in cui le aveva dato ascolto era ormai finito. Stava per replicare, ma Grover piombò nuovamente dal cielo per tirarle un'altra bastonata. Stavolta, però, scese troppo in basso. La gorgone afferrò la mazza che il satiro stringeva e lo scagliò via, facendolo finire tra le braccia di un orso grizzly di pietra. Grover si lasciò andare un "Uumpf" di dolore.
Medusa tornò a guardare Annabeth, una nuova furia nello sguardo. «Sai dire solo menzogne»
La ragazza scosse la testa. «No, davvero. Lo ha fatto per il tuo bene»
«Ti sembra questo il mio bene?!» ringhiò la gorgone, muovendo due passi rabbiosi verso di lei. «Mi ha resa un mostro!»
Gli occhi di Annabeth stavano iniziando a farsi umidi di lacrime. «Non aveva cattive intenzioni! Lei voleva solo aiutarti!»
«Menzogne! Dici solo menzo-»
La voce della gorgone si spense di colpo, strappata dalla sua gola dalla lama bronzea di una spada che, veloce e letale, le aveva tagliato di netto il capo. La testa di Medusa rotolò in terra nel silenzio che di colpo era piombato su di loro. Gli occhi, di un bianco lattiginoso e opaco, erano ancora fissi sulla schiena di Annabeth.
La figlia di Atena lasciò cadere la sfera di vetro e si portò una mano alla gola. Si sentiva come se avessero appena tagliato la testa anche a lei. Il suo cuore perse un battito e quel momento parve durare ore.
«Bleah!» esclamò Grover, con ancora gli occhi serrati. «Che schifo, di immortales»
«Annabeth?» chiamò la voce di Percy, nitida nel silenzio. «Tutto ok? E' stato geniale distarla in quel modo»
La dodicenne non si voltò, sapendo di non avere abbastanza coraggio per guardare ancora una volta Medusa. O, almeno, ciò che ne restava. «Non la stavo distraendo»
«Sai, non è molto intelligente contraddirsi-»
«Le stavo dicendo la verità» continuò lei, tranciando di netto le parole del figlio di Poseidone. Nel greve e gelido silenzio che seguì le sue parole lei se ne andò a passo veloce, ingoiando il subdolo groppo di lacrime che la stava soffocando.
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